La seguente pagina raccoglie le analisi scritte dai ricercatori del Centro Studi Eurasia e Mediterraneo per il focus relativo a Taiwan.
Dopo il ’45, secondo quanto prevedevano i termini della resa incondizionata giapponese dettata dagli Alleati, le truppe nipponiche avrebbero dovuto arrendersi alle truppe del Kuomintang (KMT) ma non al PCC, che era presente in alcune delle aree occupate. In Manciuria, invece, dove il KMT non aveva forze armate attive, i giapponesi si arresero all’Unione Sovietica. Per quanto Chiang Kai-shek ammonisse i giapponesi di arrendersi solo alle truppe nazionaliste, in realtà i comunisti misero direttamente i giapponesi in condizione di arrendersi, suscitando peraltro la preoccupazione statunitense da parte del Wedemeyer, che intuì la posizione di superiorità che stavano acquisendo gli uomini di Mao. Il primo negoziato di pace del dopoguerra, a cui parteciparono sia Chiang Kai-shek che Mao Zedong, si tenne a Chongqing dal 28 agosto al 10 ottobre 1945. Chiang partecipò alla conferenza con un vantaggio teorico, in quanto aveva recentemente firmato un trattato amichevole con l’Unione Sovietica, mentre i comunisti stavano ancora costringendo i giapponesi ad arrendersi in diverse aree. A conclusione del vertice, entrambe le parti sottolinearono astrattamente l’importanza di una ricostruzione pacifica, ma senza dare seguito ad azioni concrete. Infatti, le ostilità tra le due parti continuarono anche mentre erano in corso negoziati di pace, fino al raggiungimento dell’accordo nel gennaio 1946. Tuttavia, l’evoluzione nel nord della Cina avrebbe parzialmente cambiato le cose. Infatti, proprio agli sgoccioli del conflitto mondiale in Asia, i sovietici lanciarono una poderosa operazione offensiva in Manciuria contro l’esercito giapponese del Kwantung e lungo il confine tra Cina e Mongolia.
Il 16 ottobre 2022, nella relazione tenuta al XX Congresso Nazionale del Partito Comunista Cinese dal titolo Tenere alta la grande bandiera del socialismo con caratteristiche cinesi e unirsi per costruire un Paese socialista moderno sotto tutti gli aspetti, Xi Jinping non poteva non riservare qualche passaggio del suo intervento alla “questione Taiwan”; tema, questo, tornato con sempre maggiore insistenza e frequenza nel discorso politico internazionale a partire dalla sconsiderata e inopportuna decisione della speaker della Camera dei Rappresentanti statunitensi, la democratica Nancy Pelosi, di visitare l’isola lo scorso mese di agosto: decisione che a Pechino hanno giudicato come un’inopportuna quanto non necessaria ingerenza negli affari interni di un Paese sovrano quale è la Cina.
Non è un caso, quindi, se in apertura della sua relazione ai delegati del Partito Comunista, il Presidente abbia sostenuto che “in risposta alle attività separatiste volte alla “indipendenza di Taiwan” e alle grossolane provocazioni di ingerenze esterne negli affari di Taiwan, abbiamo risolutamente combattuto contro il separatismo e contrastato le interferenze, dimostrando la nostra determinazione e capacità di salvaguardare la sovranità e l’integrità territoriale della Cina e di opporci alla “indipendenza di Taiwan”. Abbiamo rafforzato la nostra iniziativa strategica per la completa riunificazione della Cina e consolidato l’impegno per il principio di “una sola Cina” all’interno della Comunità Internazionale. Di fronte a cambiamenti drastici nel panorama internazionale, in particolare ai tentativi esterni di ricattare, contenere, bloccare ed esercitare la massima pressione sulla Cina, abbiamo messo al primo posto i nostri interessi nazionali, ci siamo concentrati sulle preoccupazioni politiche interne e abbiamo mantenuto una ferma determinazione strategica. Abbiamo mostrato uno spirito combattivo e una ferma determinazione a non cedere mai al potere coercitivo. Durante questi sforzi, abbiamo salvaguardato la dignità e gli interessi fondamentali della Cina, e ci siamo mantenuti ben posizionati per perseguire lo sviluppo e garantire la sicurezza”.
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