di Alessio Tosco
La fine della Seconda guerra mondiale porta con sé grandi cambiamenti, è in questo periodo che si afferma l’idea che la guerra di aggressione debba essere considerata un crimine internazionale e che quindi fosse necessario «introdurre la giustizia penale nell’ordinamento internazionale per punire, assieme ai responsabili di ogni altro crimine di guerra, anche i responsabili di una guerra di aggressione» (Zolo D., La giustizia dei vincitori: Da Norimberga a Baghdad). Vengono quindi istituiti i tribunali penali internazionali di Norimberga e Tokyo dove vengono processati e condannati a vario grado gerarchi tedeschi e giapponesi.
La criminalizzazione della guerra di aggressione viene poi sancita nella Carta delle Nazioni Unite dove all’art. 39 si dice: «il Consiglio di Sicurezza accerta l’esistenza di una minaccia alla pace, di una violazione della pace, o di un atto di aggressione, e fa raccomandazione o decide quali misure debbano essere prese in conformità agli articoli 41 e 42 per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale» e nello specifico all’art. 42 si enuncia che: «se il Consiglio di Sicurezza ritiene che le misure previste nell’articolo 41 [misure non implicanti l’uso della forza armata] siano inadeguate o si siano dimostrate inadeguate, esso può intraprendere, con forze aeree, navali o terrestri, ogni azione che sia necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale. Tale azione può comprendere dimostrazioni, blocchi ed altre operazioni mediante forze aeree, navali o terrestri di Membri delle Nazioni Unite».
Va da sé che il potere di veto che le cinque potenze vincitrici la Seconda guerra mondiale si sono attribuite in seno al Consiglio di Sicurezza renda questi articoli nulli nei loro confronti.
È in questo modo che sono stati compiuti impunemente gli interventi in americani in Vietnam, Guatemala, Libano, Cuba, Santo Domingo, Grenada, Libia, Panama, tra il 1956 e il 1986, così come quelli sovietici in Afghanistan ed Est Europa tra il 1956 e 1968.
La «giustizia dei vincitori», come la definisce Zolo, dopo la lunga pausa della “guerra fredda”, si manifesta di nuovo negli anni Novanta alla fine delle guerre jugoslave con l’istituzione del tribunale internazionale dell’Aja dove vengono giudicati i vertici ritenuti responsabili, e poi di nuovo alla fine della seconda guerra in Iraq, culminata con l’impiccagione di Saddam Hussein.
Sempre seguendo Zolo possiamo definire l’azione in Jugoslavia come «guerra umanitaria» e la seconda in Iraq «guerra preventiva».
Seguendo il paradigma della «giustizia dei vincitori» nessuno è stato giudicato per i bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki e per i bombardamenti a tappeto delle città tedesche, a conflitto ormai terminato, che hanno provocato centinaia di migliaia di vittime civili, così come nessun tribunale ha mai aperto un procedimento per i responsabili dei 78 giorni di ininterrotti bombardamenti sulla Serbia, Vojvodina, Kosovo, o sui 42 giorni di bombardamenti sull’Iraq durante la Prima guerra del Golfo Persico, durante i quali è stato utilizzato lo «stesso quantitativo di esplosivo usato durante tutto il secondo conflitto mondiale» (Zolo D., I signori). Nessuno inoltre è mai stato giudicato per l’utilizzo di napalm e fosforo bianco durante l’attacco a Falluja durante la seconda guerra del Golfo né per l’attacco russo in Cecenia (vedi inchiesta Rainews24 di Sigfrido Ranucci, Fallujah. La strage nascosta).
Scrive sempre Zolo:
«Mi sembra dunque ragionevole denunciare […] il «sistema dualistico» della giustizia internazionale. C’è una giustizia su misura per le grandi potenze e le loro autorità politiche e militari: esse godono di un’assoluta impunità sia per i crimini di guerra sia, e soprattutto, per le guerre di aggressione di cui in questi anni si sono rese responsabili, mascherandole come guerre umanitarie per la protezione dei diritti umani o come guerre preventive contro il “terrorismo globale”. Dal 1946 ad oggi non è mai stato celebrato un solo processo, né a livello nazionale, né a livello internazionale, per crimini di aggressione. E c’è una “giustizia dei vincitori” che si applica agli sconfitti, ai deboli e ai popoli oppressi, con la connivenza delle istituzioni internazionali, l’omertà di larga parte dei giuristi accademici, la complicità dei mass media e l’opportunismo di un numero crescente di sedicenti “organizzazioni non governative”, in realtà al servizio dei propri governi e delle proprie convenienze» (Zolo D., I signori).
Ora è in questa ottica che torna di attualità la riflessione di Schmitt: non essendo più limitata da nessuna regola la guerra torna ad essere “giusta”, in questo senso è come se si fosse fatto un passo indietro di diversi secoli. Se si torna al bellum justum alla justa causa belli di De Vitoria, se l’aggressore diventa criminale la guerra può allora essere illimitata: «una negazione giuridica della guerra, senza una sua effettiva limitazione, ha come unico risultato quello di dar vita a nuovi tipi di guerra, verosimilmente peggiori, di portare a ricadute nella guerra civile o ad altre forme di guerra di annientamento». (Zolo D., I signori, ripreso da Schmitt. C., Der Nomos der Erde, cit., p. 219)
Se l’aggressore non è più un justus hostis allora è un criminale che non ha diritti, e contro il quale è possibile fare una guerra di sterminio, diventa un hostis generis humani.
È da notare che il prodromo di questo nuovo paradigma si ha già con l’entrata in guerra degli Stati Uniti nel 1917 contro la Germania guglielmina: «entrando in guerra contro la Germania gli Stati Uniti avevano annullato i concetti non discriminatori di guerra e di neutralità e si erano attribuiti il potere di decidere su scala internazionale quale parte belligerante avesse ragione e quale torto, trasformando il conflitto in una “guerra civile mondiale”», quindi preconizzava Schmitt e sintetizza Zolo che «la guerra che si profila all’orizzonte non sarà soltanto una guerra globale, asimmetrica, “giusta” e “umanitaria”, ma sarà una guerra capace di una discriminazione abissale del nemico, poiché assumerà la forma di una permanente azione di polizia: una polizia internazionale, ovviamente controllata dagli Stati Uniti, che userà armi di distruzione di massa contro i perturbatori della pace, senza più alcuna distinzione tra truppe regolari e milizie irregolari, e fra militari e civili» (Zolo D., introduzione a Il concetto discriminatorio di guerra di Schmitt C.) è importante notare due fattori nel ragionamento di Schmitt: primo, la limitazione delle guerre nel Settecento e Ottocento non è intesa come frequenza e neanche come violenza in sé ma nel senso che queste avevano un regolamento, potremmo dire un codice: la guerra tra Stati era sempre qualcosa di diverso dalla pirateria o dall’omicidio, questo perché gli Stati erano i soggetti del diritto internazionale, con proprio diritto, onore e dignità; secondo, da questo schema erano esclusi tutti i conflitti che si svolgevano negli spazi coloniali, quindi al di fuori dello spazio europeo. Per Zolo Schmitt «sembra pensare che il diritto bellico sia il solo strumento in grado di limitare, razionalizzare e umanizzare la guerra, alla condizione [però] che non pretenda di cancellarla in nome di un astratto pacifismo universalistico». (Zolo D., introduzione Il concetto).
La fine della guerra fredda e l’avvento del mondo unipolare hanno infine confermato le ipotesi di Schmitt quando profetizzava «l’avvento di una guerra globale sottratta a ogni controllo e limitazione giuridica, ampiamente asimmetrica, nella quale una grande potenza neoimperiale si schiera non solo e non tanto contro singoli Stati, quanto contro organizzazioni di “partigiani globali”, che operano su scala mondiale usando gli strumenti e perseguendo gli obiettivi di una guerra civile» (Zolo D., Schmitt C., in Teoria del partigiano). D’altro canto queste previsioni hanno smentito quelle di Kelsen che vedeva nella creazione di istituzioni sovranazionali e di un ordinamento giuridico globale gli strumenti per garantire una pace stabile e universale.
Veniamo quindi ad affrontare nel particolare le teorie giuridiche di Kelsen, innanzitutto per Kelsen esiste un solo ordinamento giuridico che include sia il diritto interno che quello internazionale. Partendo dalle tesi di Kant cerca di «eliminare dalla scienza del diritto ogni elemento soggettivo per farne una conoscenza unitaria e oggettiva e cioè “pura”».
Inoltre «inteso come ordinamento giuridico originario, esclusivo e universale, il diritto internazionale è perciò incompatibile con l’idea della sovranità degli Stati nazionali e territoriali e dei loro ordinamenti giuridici: questa idea deve essere radicalmente rimossa» (Zolo D., I signori). In questo passaggio vediamo tutta l’opposizione tra il pensiero di Kelsen e Schmitt, perché mentre il primo nella crisi (e fine) dello jus publicum europeaum vedeva l’opportunità di rimuovere il concetto di sovranità, quello che era il maggiore ostacolo alla creazione di una «cosmopolis capace di assicurare una pace perpetua», Schmitt vedeva il «rischio della perdita delle maggiori conquiste della scienza giuridica moderna» (Zolo D., introduzione Il concetto). E ancora:
«per Schmitt il progetto cosmopolitico non è che la suprema neutralizzazione della sovranità, la negazione utopica della sua essenza polemica, l’illusione irenistica che gli uomini si possano dare un ordine politico prescindendo dalle loro profonde differenze, dalle loro irrazionali paure e feroci ostilità. E ignorare che lo Stato non è altro che l’organizzazione del pregiudizio contro altri, inconciliabili pregiudizi» (Zolo D., La sovranità: nascita, sviluppo e crisi di un paradigma politico moderno).
Per Kelsen la supremazia del diritto internazionale su quello statuale va ricercata già nell’antica idea teologica della “civitas maxima” idea presente nella nozione di “imperium romanum” già prima della nascita del diritto internazionale.
Scrive Kelsen: «come per una concezione oggettivistica della vita il concetto etico di uomo è l’umanità, così per la teoria oggettivistica del diritto il concetto di diritto si identifica con quello di diritto internazionale e proprio perciò è in pari tempo un concetto etico», e continua «solo temporaneamente e nient’affatto per sempre l’umanità contemporanea si divide in Stati, che si sono formati del resto in maniera più o meno arbitraria. La sua unità giuridica e cioè la “civitas maxima” come organizzazione del mondo: questo è il nocciolo politico del primato del diritto internazionale, che è al tempo stesso l’idea fondamentale di quel pacifismo che nell’ambito della politica internazionale costituisce l’immagine rovesciata dell’imperialismo» (Zolo D., La giustizia dei vincitori., citando Kelsen, “Das Problem der Souveränität und die Theorie des Völkerrechts“, cit., trad. it. p. 468), il paradosso nella concezione kelseniana è l’opposizione all’imperialismo e alla logica di potenza delle concezioni individualistico-statuali riprendendo le nozioni di “imperium romanum” e “civitas maxima”. Inoltre, cercando di integrare la morale, l’economia e la politica sotto un’organizzazione globale dell’umanità «ripropone nel ventesimo secolo una dottrina illuministica e giusnaturalistica risalente all’Europa del Settecento» (Zolo D., I signori). Prevedendo nel modello la possibilità di sanzioni e mezzi di coercizione Kelsen fa notare che trascurando la dottrina del “iustum bellum” i teorici del diritto internazionale moderno negano la natura giuridica stessa del diritto internazionale. Kelsen altresì riconosce la validità della guerra giusta come strumento coercitivo per difesa o reazione quindi in caso di “iusta causa belli”, mentre la esclude totalmente al di fuori di questo caso, per cui la «mancanza di un’istanza giudiziaria che accerti l’iniziale violazione del diritto internazionale e autorizzi l’atto sanzionatorio della guerra è una grave carenza dell’ordinamento internazionale» (Zolo D., I signori). Anche in questo caso si nota un paradosso tra il richiamo agli ideali pacifisti e antimperialisti e l’assunzione del concetto di guerra giusta nell’ordinamento giuridico internazionale.
Pur riconoscendo l’uguaglianza di tutti gli Stati, Kelsen non condanna il privilegio concesso ai membri permanenti del Consiglio di Sicurezza creando anche in questo caso un certo paradosso con l’idea iniziale, e anche con la concezione di uno Stato federale mondiale a cui Kelsen si rifà per arrivare alla pace perpetua. In effetti lo stesso Kelsen riconosce la difficoltà di arrivare a tale unione con metodi democratici, ed è per questo che una delle condizioni è che «sia il risultato di un lungo processo storico e non di una rivoluzione» . Possiamo pensare che l’ottimismo di Kelsen durante il secondo dopoguerra fosse anche dato dalla situazione per cui globalmente si erano venute a creare tre-quattro grandi potenze per cui poteva sembrare più semplice se non il progetto di uno Stato federale mondiale per lo meno il buon funzionamento di una nuova organizzazione mondiale per il mantenimento della pace, concretizzatosi nel suo progetto per una Lega permanente per il mantenimento della pace, una sorta di miglioramento della Società delle Nazioni con una corte di giustizia internazionale come organo principale (al posto del Consiglio). Inoltre, per Kelsen e quindi al contrario di Grozio, anche gli individui sono direttamente vincolati alle norme del diritto internazionale ed esposti alle sue sanzioni, per cui egli prevede che «la Corte dovrà dunque non soltanto autorizzare l’applicazione di sanzioni collettive ai cittadini di uno Stato in base ad una loro “responsabilità oggettiva”, ma dovrà anche sottoporre a processo e punire singoli cittadini personalmente responsabili di crimini di guerra. E gli Stati saranno obbligati a consegnare alla Corte i loro cittadini incriminati. Essi potranno essere sottoposti a sanzioni, inclusa a certe condizioni la pena di morte, anche in violazione del principio della irretroattività della legge penale, alla sola condizione che l’atto, al momento del suo compimento, fosse considerato ingiusto dalla morale corrente, anche se non vietato da alcuna norma giuridica»(Zolo D., I signori).
Pur prevedendo quindi il giudizio per i singoli cittadini Kelsen criticò fortemente l’istituzione dei tribunali internazionali alla fine della Seconda guerra mondiale che non prevedevano la partecipazione dei rappresentanti degli Stati neutrali, e per lo più competente a giudicare solo i crimini dei nazisti, dei vinti. Così sintetizza Zolo: «la punizione dei criminali di guerra, afferma Kelsen, dovrebbe essere un atto di giustizia e non la continuazione delle ostilità con strumenti formalmente giudiziari ma in realtà rivolti a dare soddisfazione ad una sete di vendetta. Ed è incompatibile con l’idea di giustizia che solo gli Stati vinti debbano essere obbligati a sottoporre i loro cittadini alla giurisdizione di una Corte internazionale per la punizione dei crimini di guerra. Anche gli Stati vittoriosi avrebbero dovuto trasferire la giurisdizione sui propri cittadini che avessero violato le leggi di guerra al Tribunale di Norimberga, che avrebbe dovuto essere un’assise indipendente e imparziale e non una corte militare o un tribunale speciale. E non c’era alcun dubbio, per Kelsen, che anche le potenze alleate avessero violato il diritto internazionale. Solo se i vincitori sottomettono sé stessi alla medesima legge che intendono imporre agli Stati sconfitti, ammonisce Kelsen, è salva la natura giuridica, e cioè la generalità delle norme punitive ed è salva l’idea stessa di giustizia internazionale» (Zolo D., I signori).
Se vogliamo, l’idea di Kelsen si realizzò con la nascita della Corte penale internazionale il primo luglio del 2002, con l’entrata in vigore del suo Statuto; infatti, prerogativa della Corte è proprio di giudicare i singoli individui, e non gli Stati, accusati di crimini di guerra, genocidio, crimini contro l’umanità e lo stesso crimine di aggressione (art.5, par. 1 dello Statuto di Roma) commessi sul territorio da parte di uno o più residenti di uno Stato parte.
Ora, anche se è possibile giudicare il cittadino di uno Stato non facente parte dell’organizzazione, questo Stato non è tenuto ad estradare il proprio cittadino accusato dalla stessa e ad oggi non esistono mezzi coercitivi per giudicare cittadini di Stati non membri. Lo Statuto, anche se riconosce il crimine di aggressione all’art. 5, al comma 2 stabilisce che la Corte «eserciterà la giurisdizione sul crimine di aggressione solo dopo che sia stata adottata una norma che, nel rispetto degli articoli 121 e 123, definisca il crimine di aggressione e indichi le condizioni in presenza delle quali la Corte potrà esercitare la propria giurisdizione su tale crimine». Ad oggi la corte conta 123 Stati membri, ma tra questi non figurano Stati Uniti, Russia e Cina, rendendo di fatto l’organizzazione un’ “anatra zoppa”.
Per concludere questa analisi, e per completezza, è necessario per lo meno accennare al contributo di Bobbio alla riflessione. In questa epoca dove la guerra potrebbe sfociare in un conflitto nucleare devastante per tutta l’umanità per Bobbio vengono a cadere tutte le concettualizzazioni che giustificavano i conflitti armati, l’epoca di Hegel o Nietzsche è superata dalle tecniche di guerra attualmente disponibili, «la guerra moderna è puramente e semplicemente un fenomeno irrazionale e distruttivo, che non offre nessun vantaggio dal punto materiale, civile o tecnico-scientifico e che è privo di qualsiasi giustificazione morale» (Zolo D., I signori).
Scrive sempre Zolo a proposito delle idee di Bobbio presenti in Il problema della guerra e le vie della pace: «Bobbio è dunque severamente critico anche della dottrina etico-teologica del “iustum bellum“, nella quale vede non un tentativo di sottoporre la guerra a regole morali ma, nella sostanza, un cedimento morale alle ragioni della guerra. La teoria della “guerra giusta” – scrive Bobbio in un saggio del 1966 – era già stata messa in crisi dall’apparire della guerra moderna. E lo scatenamento della guerra atomica le ha dato il colpo di grazia». In definitiva, per Bobbio già a partire dagli anni Sessanta la teoria del “iustum bellum” non era più applicabile.
La dottrina della guerra giusta, quindi, anziché riuscire nell’intento di «far vincere chi ha ragione» è stata usata per «dar ragione a chi vince». Neppure la legittimità morale della guerra di difesa di uno Stato aggredito da un altro Stato, argomento centrale del “ius ad bellum“, sopravvive in epoca nucleare. La stessa distinzione fra guerra di difesa e guerra di offesa viene a cadere. Se vengono usate armi nucleari «la guerra di difesa in senso stretto ha perduto ogni ragion d’essere».
Mentre con la teoria della guerra giusta e dello “ius belli” la guerra era un mezzo per attuare il diritto, con la guerra moderna si torna all’hobbessiano stato di natura, la guerra ora è «antitesi del diritto». Con queste premesse Bobbio formula il suo «pacifismo giuridico» che così descrive sempre in Il problema della guerra e le vie della pace:
«Il ragionamento che sta alla base di questa teoria è di una semplicità e di una efficacia esemplari: allo stesso modo che agli uomini nello stato di natura sono state necessarie prima la rinuncia da parte di tutti all’uso individuale della forza e poi l’attribuzione della forza ad un potere unico destinato a diventare il detentore del monopolio della forza, così agli Stati, ripiombati nello stato di natura attraverso quel sistema di rapporti minacciosi e precari che è stato chiamato l’equilibrio del terrore, occorre far compiere un analogo passaggio dalla situazione attuale di pluralismo di centri di potere alla fase di concentrazione del potere in un organo nuovo e supremo che abbia nei confronti dei singoli Stati lo stesso monopolio della forza che ha lo Stato nei confronti dei singoli individui».
Anche Bobbio come Kelsen (di cui era amico personale) vuole superare il sistema degli Stati sovrani, il sistema di Vestfalia, per arrivare ad uno Stato mondiale, anche se è forse più corretto dire seguendo Zolo che Kelsen «interpreta Kant in chiave hobbesiana» cioè egli vuole assegnare al «federalismo kantiano il significato di un vero e proprio progetto di superamento della sovranità degli Stati nazionali e di costruzione di uno Stato mondiale». Condizione per arrivare a ciò è la sottoscrizione da parte di tutti gli Stati di un “pactum societatis” e di un “pactum subjectionis” dove si attribuisce ad un organismo terzo il potere di regolare coattivamente i loro rapporti e le controversie. Come Kant chiarisce che gli Stati devono necessariamente essere delle Repubbliche se non delle democrazie in senso compiuto.
Bobbio, quindi, vede nella nascita delle Nazioni Unite un primo passo verso la realizzazione del suo pacifismo giuridico; anche se ancora manca il requisito del “pactum subjectionis”, afferma che la nuova organizzazione è comunque un grande passo avanti per l’umanità. Bisogna qui ricordare che queste teorizzazioni di Bobbio risalgono alla sua produzione degli anni ’60, e quindi all’alba della nuova era atomica, e anche per lui il progresso più importante rispetto all’ordinamento della Società delle Nazioni era l’inclusione nelle nuove Nazioni Unite degli articoli 42 e 43.
Profetiche risultano allora le sue conclusioni che a distanza di 50 anni risultano ancora attuali: «Oggi il vecchio e il nuovo coesistono: il vecchio ha perso legittimità rispetto alla lettera e allo spirito della Carta delle Nazioni Unite, ma il nuovo o non è stato compiutamente realizzato o gode di scarsa effettività. Così, ad esempio, l’art. 43, che prevedeva l’obbligo degli Stati membri di mettere a disposizione del Consiglio di Sicurezza le forze armate necessarie per prevenire e reprimere le violazioni della pace, non è mai stato applicato ed è caduto in desuetudine. I due sistemi convivono perciò l’uno accanto all’altro, agendo uno indipendentemente dall’altro e, spesso, uno contro l’altro».
Rispetto a tutta questa costruzione teorica risultano però per lo meno ambigue se non del tutto incoerenti le giustificazioni portate da Bobbio per l’intervento americano durante la Prima guerra del Golfo, vista come una “guerra giusta” anche se classificata come “uso legittimo della forza” e anche se non direttamente autorizzata dalle Nazioni Unite come disposto dal capitolo 7; a sua giustificazione scrive: «la risposta alla violazione del diritto internazionale non è stata affidata al diritto tradizionale, e sinora sempre di fatto applicato, dell’autotutela, ma è stata «autorizzata», come si è espresso pubblicamente il Segretario generale delle Nazioni Unite, e ha avuto un principio di giustificazione da un’autorità superiore ai singoli Stati, tanto da poter essere chiamata «legale», cioè conforme al diritto costitutivo del supremo organo delle Nazioni Unite. Questo fatto potrebbe rappresentare un passo avanti in quel processo di formazione di un potere comune al di sopra degli Stati, e quindi di trasformazione del sistema internazionale, di cui la stessa Organizzazione delle Nazioni Unite, pur nella sua potenzialità ancora non pienamente dispiegata, rappresenta una tappa» (Conf. Bobbio, Una guerra giusta?).
In effetti come scrive Zolo «il Consiglio di sicurezza si è limitato in questi decenni a distribuire delle letters of marque o «lettere di corsa», e cioè delle deleghe in bianco offerte alle grandi potenze che si mostravano interessate a condurre operazioni militari di peace-enforcing, o esigevano imperiosamente di farlo. La patente di legalità internazionale che di volta in volta è stata concessa ha semplicemente trasformato, per così dire, i pirati in corsari, in privateers» ( vedi interventi in Somalia, Ruanda, Haiti, Bosnia-Herzegovina, Kosovo) (Zolo D., La giustizia dei vincitori); in questi casi il Consiglio di Sicurezza non ha effettuato nessun controllo, ha anzi legittimato la condotta delle grandi potenze compreso l’utilizzo di armi di distruzione di massa come i fuel-air explosive e le daisy-cutter. Un’altra grave mancanza della Carta è che non esiste una definizione chiara di guerra di aggressione, si legge all’art. 51: «nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da membri nell’esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell’azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale». In teoria questo impedirebbe un’azione preventiva quindi, salvo poi che soprattutto Stati Uniti e Israele abbiano interpretato la nozione di autodifesa in modo estremamente allargato facendo rientrare i loro interventi all’interno del concetto. Anche la risoluzione 3314 del dicembre 1974 non chiarisce il concetto, oltre al fatto che non essendo stata emanata dal Consiglio ma dall’Assemblea non è vincolante. Sintetizza a tal proposito Cassese che le grandi potenze: «intendono conservare, in sede di concreta applicazione di quella disposizione, un ampio margine di libertà di azione sia a titolo individuale, sia a titolo collettivo attraverso il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. La definizione di “aggressione” è rimasta sospesa in una sorta di stato di “quiescenza” sia per quanto riguarda la sua qualificazione come illecito dello Stato, sia come crimine internazionale di un individuo» (Cassese A., Lineamenti di diritto internazionale penale) Per Gaja addirittura la criminalizzazione della guerra di aggressione non ha avuto sviluppi significativi in termini normativi all’interno dell’ordinamento giuridico internazionale e infatti «dal 1946 ad oggi non è stato mai celebrato alcun processo, né a livello nazionale, né a livello internazionale, per presunti crimini di aggressione, e ciò malgrado il fatto che siano indiscutibilmente numerosi i casi in cui gli Stati hanno compiuto atti di aggressione, e che in relazione ad alcuni di essi lo stesso Consiglio di Sicurezza abbia espressamente riconosciuto la sussistenza di un atto di aggressione da parte di uno Stato», nonostante ci sono stati molti casi di aggressione.
Vediamo nello specifico il caso dell’attacco NATO del marzo 1999 contro la Jugoslavia. Innanzitutto, l’attacco fu deciso senza l’autorizzazione del Consiglio di sicurezza e condannato da Russia, Cina e India. Anche se il Tribunale dell’Aja, grazie alla sua natura speciale, poneva sullo stesso piano giuridico gli aggressori e gli aggrediti (proprio per superare, come aveva fatto notare Kelsen, la natura sbagliata del tribunale di Norimberga che poteva giudicare solo i nazisti) non si è mai arrivati ad un’incriminazione degli aggressori (che ricordiamo in questo caso erano i membri NATO).
In primis, il Tribunale dell’Aja fu fortemente voluto e finanziato dagli Stati Uniti; secondo, durante la guerra in Bosnia si era stretta una forte collaborazione giudiziaria fra Procura Generale del Tribunale e le forze NATO che «svolgevano funzioni di polizia giudiziaria, compiendo attività investigative, ricercando le persone incriminate e procedendo al loro arresto per conto del Tribunale», e questo sia prima che dopo l’aggressione del marzo 1999; terzo, la Procura Generale, grazie al suo Statuto, ha potuto ignorare le «violazioni del diritto internazionale di guerra durante i 78 giorni di ininterrotti bombardamenti nel corso di oltre diecimila missioni d’attacco da parte di circa mille aerei alleati» (Zolo D., La giustizia) per la quale il Tribunale aveva piena competenza giuridica.
Furono presentate tre denunce formali da parte di una delegazione di parlamentari russi, dal governo di Belgrado, e da alcuni giuristi canadesi guidati da Michael Mandel, tutte furono archiviate. Le denunce in particolare riguardavano: l’attacco alla televisione di Belgrado del 23 e 24 aprile 1999, che causò venti morti tra giornalisti e operatori; l’uso di circa 1400 bombe a grappolo (cluster bomb); l’uso di proiettili a uranio impoverito sganciati dai bombardieri A10 tank-buster in dotazione agli Stati Uniti, come ammesso dallo stesso Generale della NATO George Robertson.
La Procura giustificò l’archiviazione affermando che la NATO «non avrebbe mai usato la forza per provocare “direttamente o indirettamente vittime civili”, all’assenza di un’intenzionalità dolosa e al carattere del tutto occasionale di alcuni errori tecnici o di alcune carenze di informazione». Nel giudicare l’intera vicenda, Cassese afferma che è indubbia l’esistenza di una “sindrome di Norimberga”, una tendenza della giurisdizione penale internazionale a perpetuare il modello della “giustizia dei vincitori”.
Per quanto riguarda invece i territori occupati in seguito ad un’aggressione, a questi si applica la disciplina dell’occupazione militare regolata dalla quarta convenzione di Ginevra del 1949, «l’occupazione di un territorio è una fattispecie di diritto internazionale che prescinde dal carattere legale o, invece, criminale dell’uso della forza che ha portato all’occupazione del territorio», questa dottrina si richiama al “principio di effettività”, per cui è la forza la sua fonte di legittimazione. Per cui «sono le grandi potenze che “fanno” il diritto internazionale e la scienza del diritto internazionale ha il compito di formalizzare come nuove regole le decisioni via via assunte dalle grandi potenze. Da questo punto di vista “realistico” è ovvio che una potenza che abbia invaso un territorio con la forza delle armi, e lo abbia posto stabilmente sotto il proprio controllo, esercita legittimamente i diritti che la quarta Convenzione di Ginevra accorda ai vincitori nei confronti dei vinti». La Convenzione di Ginevra detta anche le norme sui diritti e doveri degli occupanti nei confronti dei civili (articoli dal 47 al 78); particolarmente rilevante è l’art. 64 secondo il quale possono essere abrogate leggi penali e istituirne di nuove, da parte degli occupanti, nel caso in cui essi le ritengano pericolose/necessarie per la propria sicurezza, possono inoltre istituire corti penali contro gli occupati. Scrive Zolo a tal proposito: «ci troviamo dunque di fronte a un processo giuridico nel quale, per una sorta di magica transustanziazione normativa, il fatto che l’aggressione armata abbia avuto successo, dando luogo all’occupazione militare del territorio degli aggrediti, produce una sanatoria automatica del “crimine supremo” commesso degli aggressori e ne rende legittimi i risultati. Si tratta di una incoerenza giuridica che il richiamo al “principio di effettività” non dovrebbe minimamente sanare o attenuare, purché non si adotti la massima, improntata a un radicale realismo giuridico, ex iniuria oritur jus».
In conclusione, ad oggi il diritto internazionale è quanto mai “evanescente”, come dice Zolo citando Lauterpacht «inidoneo a esercitare effettive funzioni normative e regolative. Lo jus contra bellum non si è rivelato più efficace dello jus belli». E il motivo principale sta proprio nella genesi delle Nazioni Unite, nei diritti esclusivi che le potenze vincitrici si sono arrogate durante la sua costituzione, e anche, se vogliamo, nella decisa opposizione a perdere qualsivoglia delle prerogative date dalla propria legittima sovranità.
Citando Radhabinod Pal, giudice indiano del Tribunale di Tokyo, e ancora oggi attuale: «solo la guerra persa è un crimine internazionale».
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