Articolo originale: The Chinese ‘Debt Trap’ Is a Myth, By Deborah Brautigam and Meg Rithmire, “The Atlantic”, 6 febbraio 2021.
Traduzione per il CeSEM di Marco Ghisetti
La Cina, si sostiene, alletta i Paesi poveri ad accettare un prestito dopo l’altro per costruire infrastrutture costose che non possono permettersi e da cui possono trarre ben pochi vantaggi nell’ottica di mettere, in un secondo momento, le mani sui beni di questi Paesi, una volta che essi si saranno mostrati incapaci di ripagare i debiti contratti. In un momento in cui gli Stati di tutto il mondo stanno accumulando debiti per combattere la pandemia di coronavirus e sostentare le proprie economie in declino, timori circa eventuali ricatti di questo tipo aumentano.
In un’ottica di questo tipo, l’internazionalizzazione della Cina – promossa da progetti come la Nuova Via della Seta – non si esaurirebbe in un tentativo di ottenere una maggiore influenza geopolitica, ma sarebbe una vera e propria arma. Nel momento in cui un Paese è zavorrato dai debiti cinesi, esso diventa un burattino nelle mani di Pechino, un po’ come un giocatore d’azzardo in rovina che ha deciso di prendere in prestito del denaro dalla criminalità organizzata.
Il primo esempio di ciò è il porto dello Sri Lanka di Hambantota. Si dice che Pechino abbia indotto lo Sri Lanka a prendere in prestito del denaro dalle banche cinesi per finanziare un progetto che non aveva nessuna prospettiva di successo commerciale. I termini onerosi e le misere entrate avrebbero alla fine dei conti spinto lo Sri Lanka al fallimento economico, allorché Pechino chiese di ottenere il porto come garanzia di pagamento, costringendo lo Sri Lanka a cederne il controllo ad una società cinese.
Il governo Trump prese Hambantota come esempio per mettere in guardia dall’uso strategico del debito fatto dalla Cina. Nel 2018, l’ex vicepresidente Mike Pence definì la cosa “diplomazia della trappola del debito” – una espressione adoperata nell’ultimo periodo del suo governo –, a riprova delle ambizioni militari cinesi. L’anno scorso, l’ex procuratore generale William Barr usò lo stesso esempio per sostenere che Pechino starebbe facendo “sprofondare i Paesi poveri nei debiti al fine di mettere le mani sulle infrastrutture”.
Come disse una volta Michael Ondaatje, uno dei più grandi storici dello Sri Lanka, “in Sri Lanka una bugia ben detta vale più di mille fatti”. Ebbene, la storia della trappola del debito è precisamente questo: una bugia, e bella grande.
La nostra ricerca mostra che le banche cinesi sono disposte a ritrattare i termini dei prestiti esistenti e, nei fatti, non hanno mai sequestrato nessun bene di nessun Paese, e tanto meno il porto di Hambantota. L’acquisto da parte di una società cinese di una quota di maggioranza del porto è un ammonimento, ma non di quelli che sentiamo spesso. Con il nuovo Governo di Washington, la verità sul caso ampiamente, e forse anche volontariamente, frainteso del porto di Hambantota non è ancora stata detta.
La città di Hambantota si trova sulla punta meridionale dello Sri Lanka, a poche miglia nautiche dalla trafficata rotta dell’Oceano Indiano da cui transita quasi tutto il commercio marittimo tra l’Asia e l’Europa, oltre che più dell’80% del commercio mondiale marittimo. Nel momento in cui l’azienda cinese si era aggiudicata il contratto per costruire il porto della città, essa si era infilata in una competizione occidentale – per quanto gli Stati Uniti si fossero già ritirati.
È stata l’Agenzia canadese per lo sviluppo internazionale, non la Cina, a finanziare la SNC-Lavalin, l’agenzia canadese leader nell’ingegneria e nella costruzione, per realizzare uno studio sulla fattibilità del porto. Abbiamo ottenuto più di mille pagine di documenti che descrivono nel dettaglio tale sforzo attraverso una richiesta del Freedom of Information Act. Lo studio, conclusosi nel 2003, ha confermato che la costruzione del porto di Hambantota era fattibile, e i documenti di supporto mostrano che la maggior paura dei canadesi era di perdere il progetto a favore dei concorrenti europei. Il SNC-Lavalin raccomandò di stipulare un accordo con la Sri Lanka Ports Authority (SLPA) e un “consorzio privato” secondo cui una singola società ottiene con contratto di intraprendere tutti i passi necessari per aprire e far funzionare il porto.
Il progetto canadese non riuscì tuttavia ad andare in porto, anche per via di varie vicissitudini in seno alla politica interna dello Sri Lanka. Ma il progetto di costruire il porto ad Hambantota tornò in auge con i governi di Rajapaksas-Mahinda Rajapaksa, ovvero il presidente dal 2005 al 2015, e suo fratello Gotabaya, ovvero l’attuale Presidente ed ex Ministro della Difesa, il quale è cresciuto proprio ad Hambantota. Essi hanno promesso di far attraccare grandi navi nella regione, un bisogno fattosi urgente in seguito al devastante tsunami del 2004 che polverizzò la costa dello Sri Lanka e l’economia del Paese.
Abbiamo esaminato anche una seconda relazione di fattibilità, questa volta del 2006 e dalla società ingegneristica danese Ramboll, la quale avanzò raccomandazioni simili ai piani della SNC-Lavalin, sostenendo che per prima cosa il progetto dovrebbe permettere il trasporto di carichi non containerizzati – petrolio, auto, grano – per iniziare a generare entrate, prima di espandere il porto per essere in grado di gestire il traffico e lo stoccaggio dei container tradizionali. A quel tempo, il porto della capitale Colombo, distante cento miglia e che è uno dei porti più trafficati del mondo, era stato appena ingrandito per aumentare la propria capacità. Il porto di Colombo, tuttavia, si trova nel bel mezzo della città, laddove invece quello di Hambantota offre un maggior potenziale di espansione e di sviluppo.
A guardare una mappa della regione dell’Oceano Pacifico di allora, si potevano vedere molte opportunità di crescita per via di una nutrita classe media ovunque in espansione. Famiglie che abitavano in India e in Africa richiedevano un sempre maggior numero di beni di consumo cinesi. Paesi come il Vietnam stavano crescendo rapidamente e avevano bisogno di sempre più risorse naturali. Affinché il progetto fosse praticabile, il porto di Hambantota doveva accogliere solo una frazione di cargo che passavano attraverso Singapore, il porto più trafficato del mondo.
Con il rapporto Ramboll, il governo dello Sri Lanka si rivolse agli Stati Uniti e all’India; entrambi i Paesi dissero di no. Ma un’impresa di costruzioni cinese, la China Harbor Group, era venuta a conoscenza della speranza di Colombo e fece molta pressione per ottenere il progetto. La China Eximbank accettò di finanziarlo e la China Harbor vinse il contratto.
Ciò accadeva nel 2007, sette anni prima che Xi Jinping lanciasse la Nuova Via della Seta. Nello Sri Lanka non era ancora finita l’ultima, e più sanguinosa, fase della sua lunga guerra civile; inoltre, il mondo era sull’orlo di una crisi finanziaria. I dettagli sono importanti: la China Eximbank offrì un prestito di 307 milioni di dollari per 15 ani con un periodo di proroga di 4 anni, offrendo allo Sri Lanka la scelta tra un tasso di interesse fisso del 6,3% e uno a tasso variabile che sarebbe salito o sceso a seconda del LIBOR. Colombo scelse il primo, consapevole che i tassi d’interesse globali tendevano a salire durante i negoziati e sperando così di ottenere le condizioni più favorevoli. La prima fase del progetto portuale fu completata in tre anni, cioè nei tempi previsti.
Per un Paese dilaniano da un conflitto e che ha faticato per generare entrare fiscali, i termini del prestito sembravano ragionevoli. Come ci ha detto Saliya Wickramasuriya, l’ex presidente della SLPA, “ottenere prestiti commerciali da 300 milioni di dollari nel bel mezzo di una guerra non fu facile”. Lo stesso anno, lo Sri Lanka emise anche la sua prima obbligazione internazionale con un tasso di interesse dell’8,25%. Entrambe le decisioni si sarebbero ritorte contro il Governo.
Infine, nel 2009, dopo decessi di violenze, la guerra civile dello Sri Lanka terminò. Nella foga della vittoria, il Governo lanciò enormi progetti infrastrutturali finanziati a debito. I tassi annuali di crescita salirono al 6%, ma salì anche il peso del debito dello Sri Lanka.
A Hambantota, invece di aspettare che il completamento della prima fase del porto generasse le prime entrate, come Ramboll aveva raccomandato, Mahinda Rajapaksa spinse subito alla fase 2, facendo diventare Hambantota un porto per container. Nel 2012, lo Sri Lanka prese in prestito altri 757 milioni di dollari dalla China Eximbank, questa volta con un tasso di interesse ridotto, post-crisi finanziaria, del 2%. Rajapaksa si prese anche la libertà di dare al porto il proprio nome.
Nel 2014, Hambantota era in perdita. Rendendosi conto di aver bisogno di operatori più capaci, la SLPA firmò un contratto con la China Harbor e la China Merchants Group per sviluppare e gestire di comune accordo il porto per i successivi 35 anni. China Merchants stava già lavorando ad un nuovo terminal nel porto di Colombo, e la China Harbor aveva investito 1,4 miliardi di dollari nel porto di Colombo in un lucrativo progetto immobiliare che prevedeva la bonifica del territorio. Ma mentre si redigevano i contratti, avvenne uno sconvolgimento politico.
Rajapaksa indisse un’elezione a sorpresa per gennaio 2015 e negli ultimi mesi della campagna, il suo Ministro della Salute, Maithripala Sirisena, decise di sfidarlo. Come i candidati dell’opposizione in Malesia, Maldive e Zambia, le relazioni finanziarie con la Cina e le varie accuse di corruzione divennero parte integrante della loro retorica. Con grande sorpresa del Paese, e forse anche sua, Sirisena vinse.
Gli ingenti pagamenti delle obbligazioni internazionali, che comprendevano quasi il 40% del debito estero del Paese, misero quasi immediatamente in seria difficoltà finanziaria Sirisena. Nel momento in cui si sedette al governo, lo Sri Lanka doveva più soldi al Giappone, alla Banca Mondiale e alla Banca Asiatica di Sviluppo che non alla Cina. dei 4,5 miliardi di dollari di debito che lo Sri Lanka avrebbe dovuto pagare nel solo 2017, solo il 5% erano dovuti per Hambantota. I governatori della Banca centrale sotto Rajapakasa e Sirisena non vanno quasi mai d’accordo, ma entrambi ci hanno riferito che Hambantota, come la finanza cinese in generale, non era la causa dei problemi finanziari del Paese.
Inoltre, non si raggiunse mai un fallimento completo. Colombo ottenne un salvataggio da parte del Fondo Monetario Internazionale, decidendo di raccogliere i soldi necessari affittando il porto di Hambantota, che era poco redditizio, ad una società esperta, che era proprio quando i canadesi avevano a loro tempo consigliato. Non ci fu una gara d’appalto aperta e le uniche due offerte vennero dalla China Merchants e dalla China Harbor. Lo Sri Lanka optò per la China Merchants, rendendola così l’azionista di maggioranza con un contratto di locazione di 99 anni, e sfruttò il pagamento di 1,12 miliardi di dollari per sostenere le proprie riserve estere, non per pagare la China Eximbank.
Il direttore del Verité Research, un centro studi indipendente con sede a Colombo, ci ha detto che prima dell’episodio del porto “lo Sri Lanka avrebbe potuto anche affondare nell’Oceano Indiano; la maggior parte del mondo occidentale non se ne sarebbe nemmeno accorta”. Ma improvvisamente, la nazione insulare divenne di primaria importanza nella politica estera di Washington. Pence espresse la propria preoccupazione per il fatto che Hambantota potesse diventare una “base militare” della Cina.
Eppure la posizione di Hambantota è strategica solo per quanto riguarda gli affari: il porto è costruito all’interno della costa onde evitare le forti mareggiate dell’Oceano Indiano, e il suo stretto canale permette di far entrare e uscire soltanto una nave alla volta, e in genere con l’aiuto di un rimorchiatore. Nell’eventualità di un conflitto armato, le navi da guerra di stanza lì si affonderebbero praticamente da sole.
La nozione di “diplomazia della trappola del debito” dipinge la Cina come un creditore connivente e Paesi come lo Sri Lanka come le sue vittime ingenue. Ad uno sguardo più attento, tuttavia, la situazione si rivela molto più complessa. La marcia della Cina all’estero, così come il suo sviluppo interno, è esplorativa e sperimentale: un processo di apprendimento segnato da frequenti aggiustamenti. Dopo la costruzione del porto di Hambantota, per esempio, le imprese e le banche cinesi hanno imparato che gli uomini forti possono cadere in disgrazia ed è quindi meglio avere delle strategie di riserva, che stanno sviluppando in questo momento, diventando così maggiormente in grado di individuare opportunità economiche e situazioni in cui è meglio ritirarsi. Eppure, la classe dirigente e gli autori statunitensi continuano a parlare di “colonialismo cinese”.
Negli ultimi 20 anni le imprese cinesi hanno imparato molto sul come giocare negli affari internazionali per quanto riguarda la costruzione di infrastrutture ancora dominate dall’Europa: laddove la Cina dispone di 27 imprese che sono tra i primi 100 appaltatori globali, che sono comunque aumentate rispetto alle 9 del 2000, l’Europa ne ha 37, che sono calate rispetto alle 41 precedenti. Gli Stati Uniti invece ne dispongono di 7, mentre due decenni fa ne avevano 19.
Le imprese cinesi non sono le uniche a beneficiare dei progetti finanziati dalla Cina. Forse nessun Paese si è allarmato maggiormente, per quanto riguardava Hambantota, dell’India: il gigante regionale che numerose volte ha respinto le richieste dello Sri Lanka di ottenere investimenti, aiuti ed accordi vari. Eppure un’impresa indiana, Meghraj, si è unita alla società di ingegneria britannica Atkins Limited in un consorzio internazionale per scrivere il piano a lungo termine per il porto di Hambantota e per lo sviluppo di una nuova zona commerciale. Le ditte francesi Bolloré e CMA-CGM hanno collaborato con China Merchants e China Harbor nello sviluppo di porti in Nigeria, Camerun e altrove.
L’altro mito della trappola del debito coinvolge i Paesi debitori. Luoghi come lo Sri Lanka – ma anche il Kenya, lo Zambia e la Malesia – non sono estranei ai vari giochi geopolitici. E sono molto irritati dall’opinione americana secondo cui sarebbe facile truffarli. Come ci ha riferito un politico malese, chiedendoci di rimanere nell’anonimato, “il Dipartimento di Stato americano non è in grado di vedere la differenza tra un’affermazione retorica secondo cui i nostri avversari sarebbero schiavi della Cina e la realtà effettiva di essere schiavi della Cina?”
Gli eventi che hanno portato all’acquisizione da parte di una società cinese di una quota di maggioranza in un porto dello Sri Lanka sono rilevatori circa i cambiamenti che stanno avvenendo nel mondo. La Cina e altri Paesi stanno diventando più bravi a stipulare contratti. E sarebbe un peccato se gli Stati Uniti non imparassero insieme a loro.
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