FOCUS CESEM – LA REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN
Geopolitica dell’Iran in Medio Oriente alla luce degli attuali equilibri globali
di Stefano Vernole *
L’influenza regionale dell’Iran, a partire dalla Rivoluzione Islamica del 1979, è progressivamente cresciuta, in parallelo all’allentarsi dell’egemonia statunitense. Tuttavia l’obiettivo finale dell’attivismo militare di Washington è proprio la caduta del complesso sistema giuridico-politico che ha consentito alla Repubblica islamica dell’Iran di mantenersi indipendente fino ad oggi. La continuazione dell’attuale situazione favorevole nei rapporti di forza tra gli Stati dell’area dipende però anche dalla comprensione, da parte della leadership iraniana, del contesto globale all’interno del quale il proprio Paese è costretto a muoversi. Perché un atteggiamento collaborativo da parte di Teheran può allontanare lo spettro di un possibile e devastante conflitto, contribuendo paradossalmente all’isolamento del suo storico nemico a stelle e strisce.
Il ruolo dell’Iran e il cambiamento geopolitico nell’area mediorientale
La Rivoluzione Islamica del 1979 scoppiò quasi in concomitanza con l’entrata dell’Armata Rossa sovietica in Afghanistan, questi due avvenimenti cambiarono completamente la situazione geopolitica regionale e globale: l’Iran si sottrasse all’influenza statunitense (quindi israeliana) e gli USA lasciarono campo libero ad Al Qaeda 1.
Poco dopo, Washington solleticò le mire irachene sullo Shatt-al-Arab e i suoi pozzi petroliferi, invitando Saddam Hussein a muovere guerra a Teheran, con la speranza di suscitare una rivolta popolare all’interno del paese e mettere fine al processo rivoluzionario. Una strategia, quella studiata in particolare da Henry Kissinger, tanto più diabolica perché volta ad impedire una completa vittoria irachena e attuata attraverso la triangolazione di armi nota come “Irangate”. In Italia conosciamo bene questa storia, avendo la BNL di Atlanta finanziato gran parte dello sforzo bellico iracheno e subito un danno economico, valutato dalla Commissione di inchiesta parlamentare creata ad hoc, di circa 2.000 miliardi di lire 2.
Frenato nelle sue ambizioni, Saddam ha cercato una rivincita in Kuwait, approfittando dell’apparente disponibilità degli Stati Uniti (“Rapporto Glaspie”); si trattò di una trappola che mise in un angolo l’Iraq, fino alla sua completa distruzione nel 2003 con la seconda Guerra del Golfo voluta da Bush sr. In questa circostanza bisogna rilevare come la leadership iraniana si sia comportata in maniera saggia; nel 1991 Teheran ha evitato di schierarsi con la coalizione occidentale e araba che ha attaccato l’Iraq, al contrario dell’alleato Hafez al Assad. Quest’ultimo credette di avere il via libera sul controllo del Libano, ma pochi anni dopo, in seguito all’omicidio di Rafiq Hariri (probabilmente rimasto vittima di un attentato israeliano), fu costretto a ritirare l’esercito siriano dal Paese dei Cedri 3.
Lo stesso meccanismo venne ripetuto nel 2003, al punto che dopo la deposizione di Saddam Hussein e la crescita dell’influenza iraniana in Iraq, gli Stati Uniti furono costretti a stringere un patto di alleanza con il radicalismo sunnita così come con alcuni esponenti della vecchia guardia baathista. Questa tacita intesa, nata dopo anni di dura guerriglia antiamericana, è stata informalmente il prodromo della nascita dell’ISIS; le azioni militari di DAESH si sono rivelate particolarmente efficaci perché spesso guidate da ex esponenti della Guardia Repubblicana Irachena 4.
La stessa lungimiranza Teheran l’ha dimostrata in Libano, dove l’addestramento e il sostegno ad Hezbollah hanno frenato l’aggressività israeliana, grazie anche alla determinante alleanza stretta dal “Partito di Dio” con i cristiani del Generale Michel Aoun.
Bisogna altresì notare come l’Iran non abbia dimostrato la stessa arguzia quando ha tentato, ad esempio, di inserirsi nel conflitto della ex Jugoslavia appoggiando i musulmani bosniaci e favorendo indirettamente la NATO; come dimostrato in seguito, è stato il radicalismo wahabita, agevolato dall’ingerenza statunitense, ad allargare la sua influenza nella zona balcanica 5.
Lo stesso può dirsi per il consenso iraniano alla deposizione di Gheddafi; legittimare l’eterodiretta “rivolta libica” come facente parte del processo di “risveglio islamico”, oltre a favorire i piani dell’Alleanza Atlantica ne ha facilitato il passo successivo, cioè il tentativo di deporre Bashar al Assad in Siria (con l’obiettivo strategico di isolare completamente l’Iran e attaccarlo più facilmente) 6.
Non sempre a Teheran si è ragionato in termini geopolitici ma talvolta ideologia e religione hanno preso il sopravvento, mentre la sopravvivenza della propria sovranità politica è per l’Iran conditio sine qua non ad ogni ulteriore progetto messianico.
L’Iran, erede della cultura persiana (vanta un tasso di alfabetizzazione pari al 87%) e della sua influenza sulle regioni vicine, è collocato al centro del “Grande Medio Oriente” (espressione ripresa da Condoleeza Rice nel 2006 con il termine “Nuovo Medio Oriente”, un progetto2 possibile grazie allo sprigionarsi delle forze del “caos costruttivo”), un’iniziativa lanciata dall’Amministrazione di George W. Bush all’inizio del 2004 per ridisegnare la cartina geografica dell’area.
Inoltre la Repubblica Islamica è il punto di riferimento politico della galassia sciita, il filone minoritario del mondo musulmano i cui membri vivono lungo tutta la costa del Golfo Persico, cuore petrolifero mondiale, in Iraq, in Afghanistan e in altre zone del mondo. Questa prerogativa gli ha attirato l’odio secolare dell’Arabia Saudita, cuore del mondo sunnita e soprattutto della galassia estremista wahabita. La guerra civile scoppiata in Yemen nel 2015 è lo specchio di questa rivalità e spiega perché Ryad abbia concesso nuovamente agli Stati Uniti di dispiegare truppe americane sul proprio territorio.
L’Iran è il quarto Paese al mondo per riserve di petrolio e il secondo per quelle di gas, che non può sfruttare appieno a causa del lungo isolamento internazionale (Teheran è costretta ad offrire il proprio greggio ad un prezzo scontato di circa 30 dollari al barile), ed è soprattutto in grado di bloccare lo stretto di Hormuz, collo di bottiglia della più importante rotta petrolifera mondiale.
L’altopiano iranico è situato nel centro geostrategico dell’Eurasia, essendo il punto di intersezione delle sue due principali direttrici: quella nord-sud (Russia-Oceano Indiano) e quella est-ovest (Cina-India-Mediterraneo). Lo scorso 30 settembre, Teheran ha anche annunciato la creazione di un nuovo terminal petrolifero nel Mare dell’Oman per realizzare una rotta alternativa all’esportazione del suo greggio, permettendo alle petroliere di aggirare lo stretto di Hormuz; l’oleodotto, lungo circa 1000 km, porterà il petrolio da Goreh a Bushehr fino al porto di Jask.
Il suo sostegno alla causa palestinese e, in particolare, ai movimenti di Hamas e Jihad Islamica (pur sunniti), gli ha generato l’ostilità di Israele; l’aviazione di Tel Aviv è intervenuta più volte negli ultimi anni, in Siria e in Libano, al fine di frenare l’attivismo militare dei Pasdaran iraniani.
Il sistema politico iraniano
Il concetto di velayat e-faqih (vicariato del giureconsulto) rigetta totalmente la monarchia come istituzione pagana (taqut) ed a-islamica in quanto, nell’assenza dell’Imam, solo i mojtahed (giuristi) possono ricoprire il ruolo di guardiani della Legge. Secondo la teoria del Velayat-e faqih elaborata dall’Ayatollah Khomeini, infatti, durante l’occultazione del dodicesimo Imam, il governo e la guida della comunità sciita sono affidati a un “dotto e pio giurista, pienamente consapevole delle circostanze del suo tempo, dotato di coraggio, spirito di iniziativa e abilità amministrative” (art. 5 della Costituzione della Repubblica Islamica di Iran); essa sintetizza il principio secondo il quale la massima autorità religiosa prevale su quella politica.
La Costituzione affida alla Guida suprema poteri molto estesi; attualmente l’Ayatollah Ali Khamenei determina le linee generali della politica del Paese, previa consultazione con il Consiglio delle scelte e ne assicura l’esecuzione, indìce i referendum nazionali, comanda le forze armate. Queste ultime sono divise in tre componenti principali: l’esercito regolare (Artesh); il Corpo delle Guardie della Rivoluzione che integra al suo interno la milizia irregolare Basij; le forze di polizia.
Il Consiglio di Vigilanza o Consiglio dei Guardiani della Costituzione è composto da dodici membri: sei giuristi islamici nominati direttamente dalla Guida, e sei giuristi civili scelti dal Parlamento tra una rosa di nominativi indicati dal Consiglio Supremo di Giustizia, a sua volta sottoposto alla Guida. Al Consiglio dei Guardiani spetta il compito di vagliare i disegni di legge governativi e le proposte di legge parlamentari, rinviandoli al Parlamento in caso di non conformità con le norme islamiche e con la Costituzione.
L’Assemblea degli Esperti (Majlis-e Khebregan) è l’organo incaricato di nominare la Guida, nel caso questa non emerga per via carismatica, e destituirla nel caso essa sia inabile ai doveri costituzionali o non risponda ai requisiti previsti. La scelta della Guida avviene infatti preferenzialmente per via carismatica: quando un teologo o un giurista risponde ai requisiti fissati ed è accettato e riconosciuto come suprema autorità teologica dalla maggioranza della popolazione, egli assurge al ruolo di Guida suprema. Nel caso in cui il consenso non emerga spontaneamente, interviene l’Assemblea degli Esperti, la quale, secondo il principio islamico della shura (la partecipazione alle decisioni che riguardano la comunità), procede a una consultazione, al termine della quale il candidato al quale sono riconosciute le maggiori capacità viene nominato. L’Assemblea degli Esperti è composta da 86 membri, tutti religiosi, eletti a suffragio universale ogni otto anni.
Il Presidente della Repubblica è il detentore del potere esecutivo, tranne nei casi di responsabilità diretta della Guida, rappresenta la seconda carica ufficiale dello Stato, viene eletto tramite scrutinio popolare diretto con la maggioranza assoluta al primo turno, o con la maggioranza relativa al secondo turno; il suo mandato dura quattro anni ed è rinnovabile una sola volta.
L’Assemblea consultiva islamica (Majilis-e Shora-ye Islami), ovvero il Parlamento, detiene il potere legislativo; è composta da 270 membri eletti a scrutinio segreto e a suffragio universale ogni quattro anni. Dopo l’elezione, i membri devono prestare un giuramento di fedeltà alla rivoluzione e alla Repubblica islamica, impegnandosi a tutelare la santità dell’Islam.
La Repubblica Islamica dell’Iran è quindi caratterizzata da un sistema duale di potere, in cui organi a legittimazione religiosa fanno da ombra e talvolta da barriera a organi a legittimazione popolare. Tra i due livelli, esiste poi un terzo livello, quello delle organizzazioni rivoluzionarie che intrecciano fervore rivoluzionario e affari di natura economico-politica: comitati (komiteh) e fondazioni (bonyad).
L’Accordo sul nucleare iraniano
Il duopolio che ha retto il potere per alcuni anni – Presidente e Parlamento ai “Riformisti”, Guida, Pasdaran e Fondazioni vicini ai “Conservatori” – ha consentito al sistema politico iraniano di mantenere le proprie prerogative di sovranità e ottenere comunque un’apertura di credito internazionale, concretizzatasi con lo “storico” Accordo sul nucleare del 2015, il “Joint Comprehensive Plan of Action” (JCPOA). L’intesa è stata raggiunta dall’Iran ed il gruppo 5+1, ovvero i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (Cina, Francia, Russia, Regno Unito, Stati Uniti) più la Germania, oltre all’Unione Europea.
L’obiettivo primario del JCPOA è impedire all’Iran di sviluppare una tecnologia tale da permettergli di costruire ordigni atomici ma sufficiente a consentirgli di proseguire il programma volto alla produzione di energia nucleare ad usi civili.
Come conseguenza dell’accordo, all’inizio del 2016 erano state rimosse le sanzioni economiche in precedenza imposte dagli Stati Uniti (solo quelle secondarie, mentre le primarie, ovvero quelle che colpiscono cittadini statunitensi coinvolti in attività commerciali con l’Iran, non sono mai state nemmeno sospese), dall’Unione Europea e dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (emanate con la Risoluzione 1747). L’impatto delle sanzioni aveva colpito duramente il commercio internazionale iraniano, generando alti tassi di inflazione e disoccupazione, con forti manifestazioni popolari (“Onda Verde”) contro la leadership del Paese e polemiche interne per l’eccessivo impegno economico iraniano nella guerra siriana.
In base all’intesa, l’Iran ha accettato di eliminare le sue riserve di uranio a medio arricchimento e di tagliare del 98% quelle di uranio a basso arricchimento, portandole a 300 chilogrammi.
L’Iran si era impegnato altresì a ridurre di oltre 2/3 le sue centrifughe a gas per tredici anni, portandole da 19.000 a 6.104, di cui solo 5.060 adibite ad arricchire l’uranio per i prossimi 10 anni (l’arricchimento dell’uranio è un passaggio necessario per la costruzione della bomba atomica). Il “Joint Comprehensive Plan of Action” prevedeva inoltre che per i 15 anni successivi dalla firma l’Iran potrà arricchire l’uranio ad una gradazione non superiore al 3,67% e non potrà costruire alcun reattore nucleare ad acqua pesante per lo stesso periodo. Le attività di arricchimento dell’uranio, così come quelle di ricerca, sono limitate ad un singolo impianto, quello di Natanz. Per monitorare e verificare il rispetto dell’accordo da parte dell’Iran, l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) ha avuto regolare accesso a tutti gli impianti nucleari iraniani indicati nel Jcpoa.
La decisione del Presidente USA Donald Trump, nell’agosto 2018, di uscire dall’Accordo e reintrodurre sanzioni economiche “al massimo livello” ha però scombussolato le carte (le prime sanzioni statunitensi contro l’Iran risalgono al 1981); il Governo di Teheran ha quindi annunciato un forte disimpegno nel caso gli altri partner firmatari del JCPOA non riescano a compensare le misure adottate da Washington.
Il problema maggiore riguarda l’extraterritorialità delle sanzioni statunitensi che vanno a colpire indistintamente tutti coloro che direttamente o indirettamente vanno a commerciare con l’Iran, dalle imprese cinesi, alle multinazionali francesi alle banche italiane, mentre nel sistema finanziario le sanzioni sono aggravate dall’impossibilità di effettuare bonifici bancari tramite il sistema SWIFT, storicamente sotto il controllo di Washington.
L’Unione Europea ha varato lo “Special Purpose Vehicle” (SPV), un sistema per supportare gli scambi commerciali da e verso l’Iran, effettuando i relativi pagamenti senza esporre le aziende europee al rischio di ripercussioni da parte degli Stati Uniti. L’SPV funzionerà come una forma sofisticata di baratto, o permuta: le esportazioni iraniane verso l’Europa dovrebbero permettere a Teheran di accumulare un credito che potrà essere utilizzato per l’acquisto di prodotti europei. Per esempio, vendendo merci iraniane a controparti francesi, l’Iran disporrà di un credito corrispondente al valore della transazione da utilizzare per l’acquisto di merci italiane.
L’SPV si chiama ufficialmente INSTEX (“Instrument in Support of Trade Exchanges”) e ha come base “fisica” una società che gestisce il canale finanziario necessario ad effettuare gli scambi, senza il bisogno di transazioni bancarie dirette. Tale società, che ha i Governi di Parigi, Berlino e Londra come azionisti, è registrata in Francia.
L’SPV dovrebbe funzionare come una forma sofisticata di baratto, o permuta: le esportazioni iraniane verso l’Europa permetterebbero a Teheran di accumulare un credito che può essere utilizzato per l’acquisto di prodotti europei. Per esempio, vendendo merci iraniane a controparti francesi, l’Iran disporrebbe di un credito corrispondente al valore della transazione da utilizzare per l’acquisto di merci italiane.
Questa ripartizione di competenze – uno dei nodi più difficili da sciogliere, tanto da concorrere a ritardare il momento del lancio del Veicolo – sembra essere dettata dalla volontà di ripartire la responsabilità dell’SPV tra i principali alleati americani in Europa (nonché i Paesi che hanno partecipato al negoziato sul nucleare con l’Iran), ed evitare dunque di esporre un solo Stato al rischio di ripercussioni statunitensi. Lo scorso settembre, infatti, subito dopo l’annuncio della volontà di creare il Veicolo da parte dell’Alto Rappresentante Federica Mogherini, il Segretario del Tesoro statunitense Steven Mnuchin ha messo in guardia gli europei dal procedere alla sua implementazione, minacciando l’intenzione di punire qualunque meccanismo venga attuato per evitare le sanzioni USA.
L’Unione Europea ha però ritenuto nel suo interesse e in quello degli Stati membri di procedere, allo scopo di assicurare la sopravvivenza dell’accordo sul nucleare raggiunto nel luglio 2015 e messo gravemente a rischio dalla decisione dell’attuale Amministrazione statunitense. Negli scorsi mesi Teheran ha infatti chiarito di essere pronta a riprendere il proprio programma nucleare se non verrà trovato il modo di assicurare i benefici economici che erano stati concordati, ponendo fine al periodo della “pazienza strategica”.
In un primo momento l’SPV dovrebbe essere utilizzato per il commercio di beni alimentari e altri beni afferenti al campo umanitario come le medicine, dunque beni non oggetto di sanzioni USA. La vera sfida sarà riuscire a utilizzarlo anche per le transazioni di beni come il petrolio; considerando infatti che l’intero meccanismo si basa su un sistema di accumulazione di credito, non è chiaro quanto l’Iran ne potrà accumulare attraverso l’esportazione di prodotti non petroliferi. Finora Germania, Francia e Gran Bretagna hanno annunciato di aver trasferito alcuni aiuti medici all’Iran per combattere il Coronavirus tramite INSTEX (al quale hanno aderito altri 6 Paesi europei).
Hassan Rohani, leader della fazione dei “riformisti”, ha recentemente presentato in parlamento quella che ha definito la “finanziaria della resistenza” contro le sanzioni imposte dagli Stati Uniti. Il presidente iraniano ha spiegato che nel 2020 il Paese “dipenderà meno dalle entrate del petrolio”. Questa manovra economica, del valore di circa 40 miliardi di dollari, potrebbe anche beneficiare di un prestito della Russia da 5 miliardi di dollari.
L’attuale situazione siriana è favorevole
Il salvataggio di Assad in Siria ha determinato una situazione geopolitica apparentemente favorevole, con la formazione del triangolo eurasiatico formato da Russia, Iran e Turchia, garanti degli Accordi di pace di Astana e del nuovo ordine strategico in Vicino e Medio Oriente. I fattori di incoraggiamento sono in effetti molti, in primis la benevolenza di Stati come Siria, Libano (vista anche la recente vittoria elettorale Hezbollah), Iraq, Yemen, Qatar (il quale, dopo aver rotto violentemente i suoi rapporti diplomatici con l’Arabia Saudita, è sotto tutela delle armi turche e dell’aiuto economico russo-iraniano), Egitto (che pur non avendo un buon rapporto con l’Iran, mantiene stretti contatti con i servizi segreti siriani e coltiva ottime relazioni con Mosca e Pechino) 7.
Una coalizione di questo tipo potrebbe addirittura permettersi di rilanciare diplomaticamente una soluzione per la questione palestinese che, attualmente, può essere solo di tipo politico e non militare; i modelli che vanno presi ad esempio sono quello irlandese e sudafricano. L’unica grande arma a disposizione del popolo palestinese è infatti quella demografica, per cui la sua leadership dovrebbe rilanciare un’estesa campagna diplomatica e mediatica internazionale per un unico grande Stato democratico in Palestina, aperto a tutte le componenti etniche e religiose che vi hanno sempre abitato (profughi palestinesi compresi), basato sul principio “un uomo un voto” 8.
Un altro punto di forza di questo “nuovo ordine mediorientale”, assolutamente contrapposto al progetto neoconservatore statunitense conosciuto come “Grande Medio Oriente” che si basa invece sulla destabilizzazione e sulla frammentazione permanente degli Stati (quale attuazione moderna del Piano israeliano Yinon), è che esso corrisponde perfettamente alle ambizioni geopolitiche ed economiche di Mosca e Pechino: la rinnovata proiezione della Russia sul Mar Mediterraneo e la stabilità di una zona cruciale per la “Nuova Via della Seta terrestre e marittima” voluta dalla Cina (Belt and Road Initiative- BRI) 9. L’Iran ha acquisito una sempre maggiore importanza strategica per la BRI, in quanto la sua posizione geografica consente l’incontro dei corridoi Nord-Sud ed Est-Ovest; la sua partecipazione ai progetti cinesi (per un investimento pari finora a 12,47 miliari di dollari), ha consentito al Paese degli Ayatollah di aumentare la propria connettività del 99%, facendo diminuire i costi dei beni importati ed aumentato la competitività delle sue esportazioni.
Gli elementi potenzialmente critici di questa alleanza sono rappresentati, al contrario, dalle miopi visioni nazionaliste di alcune delle sue componenti; la Turchia, ad esempio, ha dimostrato in più di un’occasione di essere disposta a cambiare alleanze a seconda dei propri interessi contingenti (in particolare tentando di riproporre il disegno neo-ottomano in Siria e in Libia o attraverso il sostegno agli uighuri cinesi). Lo stesso Iran per la sua riluttanza (la stessa che ha indebolito la Siria baathista nei primi anni di guerra contro l’ISIS ed Al Qaeda) ad accettare basi militari o truppe straniere sul proprio territorio, trattandosi di una condizione che potrebbe presto rivelarsi necessaria, se la crisi dell’accordo nucleare da geopolitica diventerà bellica.
Seconda condizione necessaria per il suo successo è una più rapida implementazione di strumenti economici e soprattutto finanziari alternativi a quelli statunitensi, ai quali Russia e Cina stanno lavorando da anni; essi potrebbero “esordire” proprio nel processo di ricostruzione della Siria. A tal fine l’Iran potrebbe fornire un contributo importante, iniziando a vendere il proprio petrolio in euro, così come ventilato da alcune cancellerie europee dopo la rottura dell’accordo sul nucleare decisa da Donald Trump; lo stesso potrebbe fare il Qatar con il gas naturale.
Ovviamente il progetto eurasiatico è destinato a scontrarsi con l’opposta volontà manifestata dall’alleanza tra USA, Israele ed Arabia Saudita, le quali potrebbero tentare la carta militare prima di perdere completamente il controllo della regione. Il Presidente egiziano Al-Sisi si è detto contrario alla creazione della NATO araba (Il Cairo possiede il più importante esercito della regione) e si è finora opposto all’ “accordo del secolo” sulla Palestina, con il quale l’Amministrazione Trump e i suoi alleati israeliani cercano di utilizzare una parte del suo territorio, in particolare la penisola del Sinai, per espellervi la popolazione palestinese
I documenti pubblicati dal New York Times lo scorso 18 novembre, mettendo in luce la supposta influenza iraniana sull’Iraq, hanno rafforzato le manifestazioni di piazza a Najaf, Bassora, Nassiriya e Kerbala che già avevano provocato le dimissioni a Baghdad del governo di Adel Abdul-Mahdi. Sommate alle pressioni sul Libano, dove si sono registrati scontri tra supporters di Hezbollah e Amal contro gli altri manifestanti, appare evidente come l’asse sciita sia sotto attacco di quanti non hanno gradito gli esiti della guerra siriana (Washington ha più volte intimato alle milizie filo-iraniane di integrarsi nell’esercito iracheno).
La pressione popolare viene esercitata anche all’interno dello stesso Iran, dove la maggior parte della popolazione – anche quando non ne condivide il sistema politico – apprezza però la posizione di indipendenza nazionale raggiunta dal proprio Paese.
Quale sarà l’atteggiamento dell’Europa?
Alla luce della crisi diplomatica scoppiata sulla questione del nucleare iraniano, il ruolo dell’Unione Europea diventa oggi determinante per capire da quale parte penderà la bilancia, perché la posizione di Bruxelles potrebbe cambiare gli equilibri geopolitici ed isolare il trio bellicista Washington-Tel Aviv-Ryad.
Nel 2018 l’Europa era ancora il secondo partner commerciale globale dell’Iran, superato solo dalla Cina; il Governo di Pechino nel 2016 aveva stretto un accordo della durata di 25 anni per 400 miliardi di dollari di investimenti, rinnovato nel 2019 con altri 128 miliardi destinati alle infrastrutture.
Non occorre dilungarsi per sottolineare come Teheran abbia tutto il diritto di sviluppare il programma di arricchimento dell’uranio così come il proprio sistema missilistico, alla luce delle sue necessità energetiche e difensive. A tal proposito la “figuraccia” internazionale rimediata da Benjamin Nethanyau tentando di dimostrare le prove di un inesistente progetto nucleare militare iraniano, somiglia molto a quella di Colin Powell alle Nazioni Unite sulle presunte “armi di distruzione di massa irachene”.
Difficile fare previsioni sulle reali capacità militari di una coalizione guidata dagli Stati Uniti, la quale negli ultimi anni ha dimostrato tutti i suoi limiti in una serie di guerre locali dall’esito pressoché fallimentare, tuttavia non bisogna sottovalutare come le varie aggressioni belliche intraprese da Washington nella regione dal 1990 ad oggi abbiano come fine ultimo proprio l’annientamento dell’Iran rivoluzionario e il completamento di una storica strategia anti-eurasiatica.
L’analoga manovra a tenaglia condotta dagli USA contro Mosca e Pechino è temporaneamente frenata in Corea grazie all’abile diplomazia cinese; una guerra all’Iran rischierebbe di tramutarsi ora in un conflitto mondiale e non è dato sapere quanto le lobby neo-cons siano disposte a spingersi nella loro pressione su Trump in tale direzione. L’Europa, che ha ammesso il sostanziale rispetto dell’Iran all’accordo sul nucleare “stracciato” dagli USA, potrebbe far venire meno il proprio sostegno alla NATO, rendendo oltremodo difficoltoso un conflitto.
Da una parte pesano gli evidenti interessi economici messi a rischio dalle nuove sanzioni statunitensi contro l’Iran scattate il 6 agosto 2018; la Total francese, ad esempio, ha rinunciato allo sfruttamento del gigantesco giacimento di gas a South Pars, l’Italia per ammissione della stessa Confindustria, potrebbe perdere fino a 30 miliardi di euro già previsti dall’interscambio commerciale italo-iraniano dei prossimi anni (i dati del 2019 dimostrano che nel periodo 21 marzo- 20 aprile tra l’Iran e l’Italia vi è stato uno scambio di risorse non petrolifere pari a 21.156 tonnellate, rendendo Roma il 12esimo maggiore partner commerciale di Teheran ma il secondo per prodotti petroliferi), la Germania (primo partner economico europeo dell’Iran) è ancora furiosa per le dannose sanzioni anti-russe volute da Washington e avallate da Bruxelles 10.
Un’eccezione è finora rappresentata dal porto di Chabahar, l’unico porto oceanico dell’Iran e punto di snodo commerciale tra India, Pakistan, Afghanistan, Russia ed Europa, situato lungo la costa Sud-orientale del Paese, sul Golfo di Oman; sebbene esso sia stato esentato dalle sanzioni statunitensi, il suo ruolo è stato al centro di accordi riguardanti l’India (il commercio bilaterale tra le due nazioni è cresciuto nel 2019 fino a 17 miliardi di dollari), l’Afghanistan e, da ultimo, l’Italia. In particolare, risale al 30 settembre scorso un rapporto dell’Organizzazione marittima e portuale dell’Iran (PMO), secondo cui delegati italiani e iraniani hanno discusso delle possibilità di creare una nuova rotta commerciale che colleghi Venezia e Chabahar, in grado di promuovere gli scambi tra Roma e Teheran. In particolare, il capo della PMO, Mohammad Rastad, si è detto pronto a promuovere tale iniziativa, in modo da sfruttare il potenziale del porto iraniano e renderlo un hub commerciale sul Golfo di Oman.
I Paesi europei subiscono però in maniera pesantissima il condizionamento dell’Alleanza Atlantica e potrebbero essere costretti, se non a fornire direttamente basi e soldati in caso di guerra, quantomeno a rompere i rapporti diplomatici e gli accordi con Teheran.
L’Unione Europea si è finora limitata ad approntare meccanismi tecnici economici e finanziari necessari a garantire alle proprie imprese il commercio con l’Iran ma ponendo “singolari” condizioni; Bruxelles ha infatti chiesto a Rohani di unirsi al GAFI (un organismo intergovernativo per contrastare il riciclaggio di denaro sporco) ed avviare i negoziati sul suo programma missilistico prima dell’entrata in vigore di INSTEX.
Per un reale cambiamento, l’annunciato progetto di esercito europeo dovrebbe rompere la sua dipendenza dalla NATO e divenire il primo nucleo militare autonomo dagli Stati Uniti, anche in considerazione del fatto che i contrasti tra Bruxelles e Washington sono attualmente parecchi: una condizione, tuttavia, che ad oggi appare quanto meno irrealistica.
Conclusioni
La manovra a tenaglia condotta da Stati Uniti, Israele ed Arabia Saudita contro l’Iran tenta, da una parte, di provocare l’implosione interna del Paese attraverso un regime sanzionatorio sempre più stringente (con conseguenti manifestazioni antigovernative di piazza), dall’altra di destabilizzare lo stretto di Hormuz al fine di ricattare economicamente la Cina. Dopo gli incidenti navali degli scorsi mesi – sequestro di una petroliera iraniana e di una petroliera britannica nell’area – Trump ha proposto il varo di una coalizione internazionale nella zona del Golfo Persico e del Mare di Oman per evitare future rappresaglie iraniane; il Governo di Teheran ha già risposto che nel caso vi dovesse partecipare Israele, la guerra sarà inevitabile 11.
Se l’Iran invece coordinerà la propria strategia di potenza regionale, insieme a Russia e Cina, la loro alleanza diverrà sempre più importante per mantenere l’indipendenza della Repubblica Islamica e salvaguardarne l’enorme potenziale geopolitico. L’esercitazione militare congiunta tra queste tre nazioni, denominata “Naval Security Belt”, del 27 dicembre 2019 allo scopo di garantire e rafforzare la sicurezza del traffico marittimo nelle acque dell’Oceano Indiano settentrionale contro il terrorismo e la pirateria, è un chiaro segnale in tale direzione.
Andranno perciò rafforzati sia i legami con i Paesi BRICS (fautori di un nuovo sistema multipolare) e l’Unione Economica Eurasiatica, sia con l’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (della quale l’Iran è già membro osservatore).
Infine un ruolo importante potrà essere rivestito dall’Iran a livello culturale, vista la sua presenza militare a tutela dei cristiani d’Oriente in Siria e in Libano: la sconfitta dell’ISIS e dei gruppi legati alla dottrina wahabita e salafita, potrebbe dimostrare all’Europa che esiste un modello di Islam alternativo a quello propagandato dal terrorismo takfiro, scongiurando così quello “scontro di civiltà” più volte auspicato dai sostenitori della strategia geopolitica atlantista.
L’uccisione del generale Qassem Soleimani sembra aver rigettato l’area mediorientale in un tunnel senza via d’uscita. La rappresaglia iraniana contro le basi statunitensi in Iraq avrebbe causato il ferimento di oltre cento soldati nordamericani, successivamente trasportati negli ospedali militari in Kuwait e in Germania. Secondo alcune fonti non ufficiali, l’abbattimento del Boeing 737 ucraino avvenuto a Teheran poche ore dopo l’attacco missilistico alle basi statunitensi sarebbe servito a smantellare la rete di spie che ha portato al delitto dell’ex comandante dei Pasdaran. Il governo iraniano ha invece confermato che Mahmoud Mousavi Majd, accusato di spionaggio a favore di Stat Uniti ed Israele nel caso Soleimani, è stato condannato a morte.
Gli attacchi con razzi da parte delle milizie filo iraniane si susseguono abbastanza regolarmente ora che la tregua imposta dall’emergenza epidemiologica sta per terminare e seguendo il ragionamento dell’Ayatollah Khamenei la guerriglia antiamericana potrebbe presto estendersi alla Siria. Uno degli attuali obiettivi della leadership iraniana è infatti l’evacuazione delle basi militari statunitensi dal Medio Oriente e se ciò comportasse un alto tributo di sangue le difficoltà nella rielezione di Donald Trump alla Casa Bianca aumenterebbero notevolmente 12.
Lo scambio di prigionieri degli scorsi giorni (il ritorno a Teheran di un medico iraniano-americano rilasciato da un carcere Usa dov’era detenuto, insieme a quello di uno scienziato iraniano accusato di spionaggio industriale, Cyrous Asgar e la liberazione di un ex ufficiale della US Navy, Michael White) non avrebbe perciò stemperato le tensioni tra i due Paesi, al punto che stando all’agenzia di stampa araba AMN (che cita un rapporto dell’esercito iraniano), unità missilistiche nonché forze dell’aviazione e della marina della Repubblica Islamica dell’Iran sarebbero in piena allerta per un attacco alle navi statunitensi nelle acque del Golfo Persico: la situazione geopolitica è molto tesa e potrebbe portare ad un conflitto militare di vasta scala nella regione.
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Vicedirettore di “Eurasia” rivista di studi geopolitici, è coordinatore del Centro Studi Eurasia Mediterraneo.
Note
1 Che cos’è al Qaida e perché la CIA l’ha usata in Chi sono davvero i ribelli libici?, “Eurasia sito”, 30 marzo 2011. Che il legame non si sia spezzato nemmeno in Siria, è dimostrato dall’appoggio degli Stati Uniti al gruppo qaedista Al Nusra, cfr. Elson Concepción Pérez, Al Nusra, un altro figlio adottivo di Washington, “Granma Internet Cu”.
2 Senato della Repubblica, Commissione parlamentare di inchiesta sulla utilizzazione dei finanziamenti concessi all’ Iraq dalla filiale di Atlanta della Banca nazionale del lavoro. (Deliberazione del 17 novembre 1992), www.senato.it
3 Silvia Cattori, L’omicidio di Rafik Hariri: un’inchiesta di parte, “Voltairenet.org”, 15 novembre 2006.
4 Naoki Tomasini, Patto con il diavolo, “peacereporter.net”, 20 dicembre 2005.
5 The Global Intelligence Files, BOSNIA – Iranian agents infiltrated Bosnian intelligence service, Wahhabis could hit US, NATO in Bosnia – report, “Wikileaks”, 27 febbraio 2012.
6 Gh. Ali Pourmarjan, L’influenza della Rivoluzione Islamica iraniana sulle teorie politiche delle relazioni internazionali, in particolare riguardo alla definizione di Islam politico, “www.cese-m.eu”, 13 febbraio 2015. Nonostante i recenti dissidi tra Ankara e Teheran per le azioni del PKK curdo e per la crisi di Idlib in Siria, in Libia l’esecutivo iraniano continua a manifestare comprensione per la massiccia intrusione militare della Turchia. Cfr. Cesem, La crisi di Idlib, una guerra per procura, 6 marzo 2020.
7 La Russia nel Vicino Oriente, intervista ad Aleksandr Dugin a cura di Stefano Vernole, in “Eurasia Rivista di studi geopolitici”, 3/2018.
8 Romolo Gobbi, Irlanda del Nord, Sudafrica, Israele: tre piccoli popoli eletti, www.lulu.com.
9 Cina in Medio Oriente: un nuovo protagonista? “Intervista de L’Indro – Quotidiano indipendente a Stefano Vernole”, 8 agosto 2017. Sui risultati bellici statunitensi: «Dalle testimonianze – scrive il Wp – emerge come era comune nei quartier generali militari a Kabul, ma anche alla Casa Bianca, alterare e manipolare le statistiche per far apparire che gli Usa stavano vincendo la guerra, mentre non era così», Afghanistan, il Washington Post accusa: «Stati Uniti hanno mentito sulla guerra, “Il Messaggero”, 10 Dicembre 2019.
10 Prende il via INSTEX, Il meccanismo di pagamento europeo che consente all’Iran di evitare le sanzioni statunitensi, “L’Antidiplomatico”, 26 giugno 2019.
11 “Marina iraniana: Rischio di guerra se Israele si unirà a coalizione americana in Golfo Persico” – www.sputniknews.com, 12 agosto 2019.
12 “Khamenei: Gli USA non resteranno in Siria e Iraq, saranno cacciati via”, www.lantidiplomatico.it, 18 maggio 2020.
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