Articolo originale: http://www.opinione-pubblica.com/tibet-legami-sino-tibetani-lindipendentismo-lamaista/
In questo servizio il Prof. Fabio Massimo Parenti ci illustra la storia millenaria dei rapporti sino-tibetani ed il ruolo tenuto dall’ultimo Dalai Lama, Tenzin Gyatso, in merito alla controversa realtà dell’indipendentismo del Tibet.
Le visite del XIV Dalai Lama in Occidente sono frequenti. L’ultima in Italia è stata a settembre e, recentemente, anche l’Università di Urbino ha avanzato un invito a Tenzin Gyatso per celebrare i cento anni dalla sua fondazione. Viene da chiedersi se il Dalai Lama sia richiesto ed invitato solo per i suoi messaggi di pace, oppure perché è personalità di fama mondiale che dà lustro e visibilità mediatica all’istituzione ospitante. I più ingenui risponderebbero per entrambe le cose. Certo, si combinano, ma spesso è il secondo aspetto quello maggiormente determinante. A ciò si aggiunge un altro elemento: la scarsa conoscenza del ruolo storico svolto dal XIV Dalai Lama.
I cinesi sono molto critici rispetto a questo uso “interessato” da parte straniera del Dalai Lama, in quanto figura al centro di tensioni geopolitiche, ma anche veicolo di contese intra-buddiste (si veda Parenti 2017a). Le sue posizioni indipendentiste, a tratti affievolitesi, ma mai del tutto spente, sono infatti foriere di tensioni più che di armonia.
Di seguito proviamo a presentare alcuni tratti della storia tibetana, al fine di mettere a fuoco i legami storici tra Tibet e Cina, fino a giungere all’individuazione degli elementi che hanno favorito un uso strumentale delle pulsioni indipendentiste veicolate dal Dalai Lama.
I legami con la Cina
La plurimillenaria interazione, e spesso il co-sviluppo, tra civiltà cinese e regno del Tibet è spesso ignorata. Il Tibet ha avuto legami con le civiltà del fiume Giallo e Azzurro che risalgono alla preistoria e che nel corso del tempo si sono intensificati. Interessante ricordare, ad esempio, il matrimonio tra il re tibetano Songtsen Gampo e la principessa cinese Wencheng della dinastia Tang, avvenuto nella metà del VII secolo. A quel tempo il regno del Tibet, Regno Tubo, si era espanso notevolmente, essendo riuscito a unire il plateau Qinghai-Tibet, non senza spargimenti di sangue (Chen, 2017). C’è da dire che questo matrimonio fu parte di un processo di pacificazione con l’impero cinese, dopo che il Regno del Tibet aveva combattuto, senza successo, contro i cinesi per entrare nella regione del fiume giallo (attuale Henan), originaria di molte dinastie cinesi. Tuttavia, è dal XIII secolo, con la dinastia Yuan, che le relazioni tra Cina e Tibet si fecero culturalmente e politicamente più strette. Dapprima i mongoli assorbirono il Tibet, sotto la dinastia Yuan, che diventò, manu militari, un protettorato dell’impero. La netta separazione tra potere temporale, in mano all’impero, e spirituale, lasciato ai tibetani, si affievolì verso la fine del XIII secolo, quando i mongoli affidarono ai lama tibetani quasi tutte le funzioni di governo della regione. Da allora potere temporale e spirituale si cementarono.
Nel XVIII secolo furono i cinesi a giungere in soccorso dei tibetani contro vari tentativi di invasione da parte dei nepalesi e degli inglesi. Questi ultimi riconobbero la sovranità cinese sul Tibet solo nel 1890, in un’epoca in cui la Cina era ancora in una condizione di dipendenza semicoloniale (anche se, come detto, la giurisdizione cinese sul Tibet risale indietro nel tempo ed è chiaramente documentata almeno sin dal XIII secolo).
L’uso strumentale dell’indipendentismo
Stando alla contemporaneità, va ricordato che proprio grazie alla protezione garantita dai cinesi il XIV Dalai Lama ha potuto governare sino alla seconda rivoluzione cinese, quella comunista, benché nei primi anni del Novecento gli inglesi stabilirono un protettorato in Tibet (convenzione di Simla 1914). E’ a partire da questi anni che le potenze straniere cominciarono a volgere l’attenzione verso i movimenti indipendentisti lamaisti.
Quando il PCC ebbe la meglio sui nazionalisti e si concluse la guerra civile, la Repubblica popolare era intenzionata ad operare una liberazione pacifica di alcune regioni ancora fortemente influenzate dalle potenze coloniali. Nel caso del Tibet, fu proprio il X Panchem Lama a chiedere alla Cina la liberazione delle aree tibetane sotto influenza di UK e Usa (esercitata coi collaborazionisti del Kuomintang e poi con alcuni Lama). I tibetani in Gansu, Qinghai, Sichuan e Yunnan erano favorevoli alla fondazione della Repubblica popolare. Il X Panchem Lama spedì un messaggio al presidente Mao Zedong e al comandante in capo dell’Esercito di Liberazione Popolare (ELP) il 1° ottobre del 1949 per mostrare il suo “supremo rispetto e pieno supporto”.
Tra l’altro egli contattò l’ELP chiedendo urgentemente di “spedire le truppe per liberare il Tibet, espellere le forze imperialiste e consolidare la difesa nazionale”. Per di più, i cinesi erano visti con favore dalla maggioranza della popolazione tibetana non appartenente al clero lamaista, soprattutto per l’impegno del PCC a smantellare il sistema di servaggio e schiavitù vigente nella società tibetana prima del 1950. Tutta l’opera diplomatica cinese volta alla liberazione pacifica fu inizialmente bloccata e osteggiata dai governanti locali o gruppi di indipendentisti. Molti inviati cinesi furono arrestati e in alcuni casi uccisi (come nel caso dell’arresto e dell’assassinio a Kamdo dell’inviato cinese, il Budda Garda). Queste vicende non sono generalmente raccontate nelle ricostruzioni edulcorate da parte della propaganda anticinese. Infatti, proprio dalla sconfitta Kuomintang e la vittoria dei comunisti, gli Usa cominciarono un’intensa campagna propagandistica (ma anche militare, tramite l’organizzazione di sabotaggi) per l’indipendenza del Tibet (si vedano, tra gli altri, Losurdo 2010; Costa 2014; Chen 2017).
La figura del Dalai Lama
Il XIV Dalai Lama è una figura storicamente inscindibile dal ruolo politico di supporto ai movimenti indipendentisti sin dalla fine degli anni Quaranta. E non è una questione relativa alla singola persona, ma alla storia della Guerra fredda e, più nello specifico, alle peculiarità del buddhismo tibetano, il cosiddetto “lamaismo”. Praticato anche in Mongolia, Nepal, alcune regioni russe, oltre che in Cina settentrionale e occidentale, la sua capacità storica di controllo sociale, e correlata strutturazione politica, ha favorito numerose strumentalizzazioni interne e internazionali.
Le posizioni politiche del XIV Dalai Lama sono ben lontane dal rappresentare il Tibet nella sua totalità, il cui processo di modernizzazione sta avvenendo nel rispetto e nel sostegno concreto alla pluralità dei culti che ne hanno caratterizzato la storia, spesso incorporata, come dicevamo, o direttamente governata da dinastie imperiali cinesi (per un recente resoconto di viaggio sul Tibet contemporaneo, si veda Parenti 2017b). Non è un caso, dunque, che oggi è possibile assistere al proliferare di studi sistematici sul Tibet, per la prima volta nella storia della Cina, grazie alla creazione di decine di istituzioni dedite allo studio delle peculiarità tibetane, anche per fini turistici e secondo metodologie moderne. Tutto ciò è funzionale a garantire la libertà religiosa prevista dalla costituzione cinese, che non c’entra alcunché con la propaganda politica anti-cinese, usata strumentalmente da alcune componenti del buddismo lamaista e da sette pseudo-religiose come il Falun Gong, sorte sempre in senso al buddismo.
Per costruire, nella sostanza, relazioni pacifiche
Per garantire un sano sviluppo di relazioni bilaterali, la Cina ricorda costantemente la necessità di rispettare la politica di una sola Cina, principio assoluto non solo nella nuova Repubblica popolare, ma fin dalla fondazione della Repubblica cinese nel 1912. D’altronde, mai dimenticarsi che l’unità dello stato-nazione è l’elemento costitutivo di tutti i paesi del mondo, a prescindere dal sistema politico prescelto.
Invitare il Dalai Lama senza conoscerne i trascorsi e le vicende controverse a cui è storicamente legato, e senza considerare, di conseguenza, le legittime posizioni cinesi e la complessa storia di liberazione cinese, non fa altro che minare il nostro rispetto verso la più grande popolazione del mondo. Ed il rispetto è il prerequisito per costruire condizioni internazionali pacificate. Sarà il caso, in Italia, di evitare di prendere lucciole per lanterne, di evitare di soffermarsi sulla superficie delle parole senza realmente saper operare la pace (considerando la sostanza della storia dei rapporti tra i popoli), di evitare di sortire, in ultima analisi, effetti contrari a ciò che si sostiene a parole.
Massimo Parenti
Riferimenti bibliografici
Chen Q. (2017), A History of Tibet, China Intercontinental Press, Beijing.
Costa M. (2014), Tibet. Crocevia tra passato e futuro, Anteo, Reggio Emilia.
Losurdo D. (2010), La non-violenza. Una storia fuori dal mito, Laterza, Bari.
Parenti F.M. (2017a), Il socialismo prospero. Saggi sulla via cinese, NovaEuropa, Milano.
Parenti F.M. (2017b). “Di ritorno dal Tibet, Regione Autonoma cinese: alcune osservazioni”.
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