Giacomo Gabellini – “Israele: geopolitica di una piccola, grande potenza”

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Articolo originale: https://www.macrolibrarsi.it/speciali/introduzione-israele-geopolitica-di-una-piccola-grande-potenza-libro-di-giacomo-gabellini.php

Una introduzione al libro di Giacomo Gabelli su Israele pubblicato da Arianna Editrice.

Giacomo Gabellini (1985) è redattore di “Scenari Internazionali” e collaboratore di “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”. È autore di diversi volumi in cui si analizzano questioni storiche ed economiche, il più recente dei quali (2015) è Eurocrack. Il disastro politico, economico e strategico dell’Europa, pubblicato da Anteo Edizioni.

Come spesso capita ai libri, pure a qualche libro di storia – salvo ai polizieschi, evidentemente – anche questo dovrebbe essere letto “a ritroso”, cominciando dal fondo o quanto meno dalle ultime pagine, quelle che di solito l’autore dedica alle considerazioni di sintesi. In questo specifico caso, tuttavia, francamente non me la sentirei granché di suggerire tale metodo.

Il capitolo 8 del libro alla lettura del quale qui si invita, denominato “Conclusioni”, si apre con una citazione dello storico Benny Morris che, intervistato da «Haaretz», insiste sul fatto che la fondazione dello Stato di Israele «non è ragionevole» e si chiude su una frase pronunziata da Tony Judt durante un’intervista resa, ancora una volta, ad «Haaretz» al principio del maggio 2006:

«… occorrerebbe quindi ammettere che Israele non ha alcun diritto alla solidarietà o all’indulgenza internazionale; che gli Stati Uniti non ci saranno per sempre; che le armi e le mura non possono preservare Israele più di quanto abbiano fatto con la Repubblica democratica tedesca o il Sud Africa bianco; che le colonie saranno condannate a meno che non si sia disposti a espellere o sterminare la popolazione indigena».

È ovvio che, paragonata a quanto in genere si ricava dai media e dalle dichiarazioni dei politici occidentali e soprattutto italiani, questa conclusione, se letta immediatamente, ex abrupto, è suscettibile di procurare la reazione che in un autore italiano (mi pare fosse Vittorio Alfieri) fu provocata da un libro che cominciava con un improponibile “Conciossiacosaché”: colui che ne aveva appena avviata la lettura lo buttò subito dalla finestra.

Tuttavia, a questa perentoria conclusione bisogna avere la costanza e la pazienza di arrivarci, e i sette capitoli che la precedono costituiscono un certo non comodo, certo non o non sempre o non del tutto condivisibile, comunque un solido contesto, all’interno del quale essa acquista un ben più ragionevole – e a modo suo perfino pacato – significato.

D’altronde, Gabellini è evidentemente fatto così: non ama granché né preamboli, né epitomi. Difatti non premette alcuna Introduzione o Prefazione al suo scritto: getta il lettore nel mare tempestoso dei suoi scomodi argomenti, cominciando con l’impartirgli nel capitolo 1 una ruvida lezione su genesi e realizzazione del progetto sionista (e accidenti se questo non è un allegro fregarsene del politically correct…) per congedarsi da lui con quel non meno brusco nella sostanza – ancorché diffuso e articolato nella forma – capitolo 8, conclusivo.

In mezzo, altri sei capitoli eloquentemente intitolati, i contenuti dei quali sembrano lasciare ben poco spazio all’ambiguità (“La potenza militare israeliana”, “Realpolitik”, “La presa della Israel Lobby sugli Stati Uniti”, “L’alleanza sciita nel mirino di Israele”, “La ragnatela israeliana”), per finire con Energia e geopolitica, che significano petrolio, metano e nucleare da una parte, muraglie di cemento armato e fili elettrificati dall’altra: più chiaro di così…

Si tratta, in effetti, di un menu invitante e allarmante al tempo stesso: come in uno di quei bei ristoranti da gourmet beatamente esenti da scrupoli salutisti o ipocalorici, quegli inferni/paradisi che sono croce-e-delizia di chiunque sia in sovrappeso e abbia colesterolo e pressione alti.

L’Autore di questo che non è affatto un pamphlet, bensì un dossier zeppo di fatti e di dati, è uno che – come si direbbe a Firenze – “non te la manda a dir dietro”, non parla per sottintesi e per allusioni, non teme né inquisizioni dietrologiche né linciaggi mediatici o peggio. Sillogizza “invidiosi veri” e lo fa alla luce del giorno, senza circonlocuzioni.

Quando è il caso, utilizza anche le argomentazioni di autori che il conformismo imperante ha tacitamente messo all’index librorum prohibitorum, come Ilan Pappé o Shlomo Sand.

E ora parliamoci chiaro. Moltissimi miei colleghi, ricevendo l’invito ad apporre una loro Prefazione o Introduzione a un libro di questo genere, avrebbero fatto orecchie da mercante e/o politica dello struzzo. La cosa migliore, in questi casi, è cestinare e tacere, o affermare di non avere mai ricevuto plichi o missive che con esso avessero a che fare, o negarsi al telefono e al web. Se poi si è timidi o si hanno scrupoli morali, la gamma delle risposte disimpegnanti è altissima.

La più efficace, deterrente e cinicamente “pulita” è la seguente: «Caro Amico, la Sua proposta è molto interessante e mi riservo di valutarla. Per gli aspetti pratici, La prego di rivolgersi al mio agente editoriale al seguente indirizzo ecc.»; nel contempo, si telefona all’agente editoriale e lo si incarica di “sparare” un onorario ad almeno cinque zeri in cambio di due cartelline da 2000 caratteri ciascuna (se poi l’Autore è tanto ingenuo o testardo o danaroso da starci, le due cartelline saranno evasive e implicitamente molto critiche).

Se si è meno perfidi, le alternative restano comunque molteplici: dal bugiardo «Mi perdoni, ma non sono d’accordo con Lei nemmeno su una virgola» all’ipocrita «Scusi, lo farei volentieri, ma sono incompetente e ho tanto lavoro arretrato…», al falso-sembiante «La consiglio di rivedere attentamente il Suo scritto, nel quale riscontro alcune inesattezze e alcune imprudenze, e rivolgersi poi a uno specialista dell’argomento: le suggerisco ad esempio l’amico e collega ecc. ecc.», al lamentoso «Ma abbia pazienza, si rende conto? E poi, che cosa crede?, io tengo famiglia!», allo pseudo-ingenuo «Lei scrive cose straordinarie, ma anche al limite dell’incredibile! Guardi, io sono con Lei, ma La invito caldamente a ricontrollare tutto e a pesare bene ogni frase!», al tranciante «Ti conosco mascherina! Tu sei un antisemita travestito da antisionista in cerca di complicità, ma non mi freghi!».

Eppure, incredibile ma vero, c’è anche il caso-limite opposto. Il caso dell’incosciente-facinoroso-autolesionista. O, se preferite gli eufemismi, il caso della persona intellettualmente onesta, tanto sicura della propria buonafede da non temere attacchi velenosi, rispettosa della propria dignità e del lavoro altrui quanto basta per non chiedere compensi pecuniari a chi ha dimostrato fiducia e considerazione rivolgendosi a lei, e convinta che affrontare con lealtà argomenti spinosi sia un servizio civico reso alla comunità sfuggire al quale sarebbe vile e disonesto.

Tale è, ohimè, il mio caso. «Io son per mia disgrazia uom di buon cuore », a dirla con Mozart e Da Ponte: mi vergognerei a deludere chi ha pensato a me, sperando di avere a che fare con una persona dotata di un minimo di correttezza e di coraggio. E ritengo di essere anche abbastanza esperto da saper distinguere tra i vaneggiamenti di un fanatico, le provocazioni di un maniaco e le argomentazioni di uno che cerca la verità e denunzia crimini ed errori senza curarsi se ciò sia prudente o no, vantaggioso o meno.

Non so chi sia Giacomo Gabellini, non ho neppure verificato se il suo indirizzo postale è o no autentico. Per quel che mi riguarda, potrebbe essere tranquillamente un agente della CIA, un emissario del Mossad, un provocatore di al-Qaeda, un terrorista del Da’ish. Potrebbe essere anche lo pseudonimo di Tariq Ramadan, o di Renzo Guolo, o di Gad Lerner, o di Magdi Allam, o di Fiamma Nirenstein, che avessero deciso di “tentarmi”.

Il punto è che scrive cose interessanti; che dalle verifiche fatte da me e da qualche amico molto competente in materia le sue informazioni sono esatte e i suoi rilievi sono pertinenti; che quel che dice viene ordinariamente taciuto o distorto dai media, mentre sarebbe degno e meritorio di venire discusso e valutato, non foss’altro che per confutarlo.

E se fosse confutato in tutto o in parte – lo confesso, anzi lo dichiaro – mi farebbe un gran piacere, pur mettendomi in imbarazzo se non nei guai: in quanto molto di quel che qui si dice qui magari non sempre mi sorprende, comunque mi dispiace, mi fa sentire a disagio, preferirei non parlarne e volger lo sguardo altrove. Sed oportet ut scandala eveniant.

D’altronde, lo “scandalo” di questo libro consiste anzitutto nella sua rigorosa pacatezza: il suo è uno stile asciutto, mai però retorico o accusatorio. Gabellini non è affatto antiebraico, né antisionista, né antisemita. O comunque, se lo è, peggio per lui, ma in fondo sono fatti suoi.

Le cose che dice sono comunque dirette non già a mettere sotto accusa Israele, bensì a sottolineare gli elementi che ostano alla sua vita sicura e serena, la quale, a sua volta, non può essere conseguita soltanto se fondata sulla sua legittimità storica e morale che si radica nella shoah; né sul carattere mitico-religioso del nesso tra racconto biblico, vicende della diaspora, ebraismo storico (in tutti i suoi aspetti e con tutte le sue ramificazioni) e “Stato ebraico” attuale; né sulla qualità politica della sua “esemplare democrazia” che è piuttosto un’etnocrazia (anche perché, com’è stato dimostrato pure dal vivo recentissimo dibattito in materia, “l’esemplare democrazia” non esiste); né sulla sua forza, che si fonda sull’appoggio offertole da potenti lobby internazionali del persistente “ombrello diplomatico” che gli Stati Uniti dispiegano sul suo governo, sulla sua potenza militare, nucleare e tecnologica, sul cemento armato e le linee elettrificate che difendono i suoi confini e le sue interne bandiere. Vincere non basta, anche perché nulla al mondo è eterno, tanto meno le vittorie.

Accusare indiscriminatamente di antisemitismo chiunque avanzi critiche può essere un espediente tattico efficace, ma alla lunga non paga; anzi, è un’arma che si sta visibilmente usurando e che rischia di diventare svantaggioso. Eludere, rimandandola sine die, qualunque soluzione del problema palestinese che non comporti la pratica scomparsa dei palestinesi come soggetto politico, non è solo criminoso: è controproducente.

Rilevare tutto ciò non è una scelta anti-israeliana o antisionista e tantomeno antisemita: al contrario, è un atto di profonda e sincera amicizia, dal momento che vero amico è chi ti corregge e chi ti ammonisce, non chi ti adula ed è disposto a darti sempre ragione, salvo poi abbandonarti e tradirti alla prima difficoltà.

Salvo pochissime maniacali eccezioni, tutti apprezziamo Israele. Il coraggio e la costanza dei coloni sionisti prima, dei coloni-soldati israeliani poi, sono stati e restano encomiabili e commoventi. Il diritto del Popolo Eletto a rientrare in Eretz Israel e a possedere Gerusalemme per sempre (e in esclusiva?) restano cose che riguardano solo il rapporto tra Dio e chiunque ebreo si senta e si definisca; ma il diritto di esistere e di vivere in pace, da parte di una compagine umana che se lo è duramente guadagnato perché da quasi due secoli è animata dalla volontà profonda di farsi popolo e alla sua volontà deve la costruzione di una patria territoriale, di una lingua antica ma rinnovata, di un’originale cultura e di una robusta dignità, quello non può essere negato da nessuno.

Il cammino di Israele è cosparso di sudore, di lacrime, di sangue; è costato sacrifici, e anche errori e ingiustizie che non potranno mai del tutto essere cancellati o riparati; ma è irreversibile e incrollabile. Questo conta.

Il che non toglie che ad altri errori, ad altre ingiustizie, si possa e di debba invece porre rimedio.

La Legge del Ritorno e la proclamazione di Gerusalemme “eterna e indivisibile capitale di Israele” possono e debbono essere oggetto di un ripensamento, che tenga conto anche dei diritti e delle aspirazioni di altre comunità etnoculturali e di altri valori storico-religiosi non meno validi e irrinunziabili.

I confini debbono essere rimessi in discussione e corretti, così come la comunità internazionale non può restare ancorata a risoluzioni Onu formulate oltre mezzo secolo fa, che hanno ormai fatto il loro tempo. Le istanze e le pulsioni neo-ipernazionaliste o neo-criptorazziste vanno combattute e sconfitte, in Israele come in qualunque altro Paese del mondo, così come purtroppo in Israele e in molti altri Paesi del mondo si vanno viceversa pericolosamente affermando.

Affidare il futuro alla solidità dei muri e alla protezione diplomatica statunitense sarebbe miope e rischioso; contare sulle sue sole forze, sia pure appoggiate a un’extrema ratio nucleare, sarebbe folle.

Dice bene Gabellini: Israele resta un punto fermo nel caos vicino-orientale, e forse ancor più lo sarà tra non molto, allorché la mappa di quella tormentata regione sarà modificata in modo da ridefinire o addirittura sopprimere gli “Stati nazionali” arabi inventati alla fine della prima guerra mondiale – quando per gli arabi, che ignoravano il concetto di “nazione”, la parola stessa watan (“patria”) era ancora un recentissimo neologismo – e da far emergere nuovi Stati a carattere etno-religioso, che quasi sicuramente costituiranno, confrontati con il precedente assetto, un rimedio peggiore del male.

Ma per svolgere sul serio il suo compito di garante di un precario eppur necessario equilibrio, le sarà necessario trovare un’equa soluzione al problema palestinese, risolvere definitivamente il contenzioso del Golan e cessare di confidare nel sostegno diplomatico unilaterale statunitense e nell’impiego della memoria della shoah come strumento atto a stroncare sul nascere qualunque contestazione.

Lo Stato ebraico ha vinto la sua battaglia destinata a ottenere e mantenere il proprio diritto ad affermarsi come “piccola grande potenza”: ora deve però convincere la comunità internazionale della sua intenzione e della sua capacità di sciogliere i nodi ancora irrisolti, di annullare ingiustizie e contraddizioni.

L’impietosa diagnosi di Tony Judt, sulla quale si chiude questo libro, merita l’avvio di un percorso terapeutico, che Israele può e deve intraprendere nell’interesse della sua stessa sicurezza. Riguardo alle sue intenzioni e alle sue capacità di farlo, per quanto magari forse non in tempi brevi, personalmente sono più ottimista di Gabellini.

Questo libro è una denunzia, che, come qualunque altra denunzia al mondo, dev’essere anzitutto sottoposta al vaglio di una verifica attenta e puntuale. Ci saranno errori da correggere: credo che l’Autore non chieda di meglio che di esser corretto, e dal canto mio lo auspico. Ma nella sostanza ritengo che esso offra ai suoi critici una granitica resistenza e che il suo contenuto sia degno di venire divulgato, specie nelle scuole.

In realtà, non è soltanto una storia di Israele: è un saggio di politica internazionale e di world history, tanto più utile a chi, sulle prime, se ne sentirà ferito o infastidito.

Franco Cardini
Storico italiano di fama internazionale, autore di numerosissimi saggi, tra i quali ricordiamo Il califfato e l’Europa (Utet 2016), L’ipocrisia dell’Occidente (Laterza 2015) e Europa e Islam. Storia di un malinteso (Laterza 2007).

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