La precisazione storica che dobbiamo assolutamente ribadire prima ancora di addentrarci in ulteriori disquisizioni, è che in Tibet non c’è stata nessuna invasione cinese. Il termine “invasione” è assolutamente improprio, in quanto non si è trattato di un’invasione, perché si parla di invasione quando uno Stato sovrano ne invade un altro. Il Tibet, nel 1949, non era uno Stato a sé, ma era già parte della Cina continuativamente da almeno il 1720, per quanto i legami tra cinesi e tibetani affondassero le loro radici agli albori del V secolo d.c. Quindi, se proprio si vuole dare una definizione all’avvenimento, dobbiamo casomai affermare che si sia trattato di un cambio di Governo e di amministrazione locale. Infatti, l’ingresso in Tibet e nella capitale Lhasa delle truppe di Mao Zedong fu assolutamente pacifico, datosi che non c’era – perché non poteva esserci almeno nelle masse di contadini poveri – alcuna ragione politica per la quale i tibetani avrebbero dovuto ribellarsi all’esercito della nazione alla quale già appartenevano. Il conflitto di cui si parla sempre, infatti, fu la conseguenza di un’insurrezione che potremmo definire “privata e limitata” avvenuta nel 1959, cioè dieci anni dopo.
Per spiegare meglio, partiamo dunque da un dato che non ha bisogno di interpretazioni, né di dimostrazione alcuna, giacché è semplicemente storia: la regione dello XiZang Zizhi Qu (meglio conosciuta in occidente come Tibet) è sempre stata cinese, mongola o manciù, salvo due periodi assolutamente fugaci e assolutamente insignificanti dal punto di vista storico (1682-1720 e 1914-1949), anche se potremmo addirittura escludere il periodo 1914-1949. Durante quei trentacinque anni, infatti, il Tibet è stato comunque parte della Cina Repubblicana del Kuomintang (dal 1911 al 1949). Quello che accadde, in verità, è che il Tibet, essendo stato, in quel periodo, una regione cinese a statuto speciale, godette di un’indipendenza meramente di fatto, nel senso che le autorità cinesi nazionaliste non interferirono nella gestione del paese, tollerando che l’esercizio del potere fosse nelle mani del clero lamaista e della nobiltà latifondista anche se, politicamente, il Tibet era, in tutto e per tutto, una provincia cinese. Questa non è un’opinione, ma una certezza storica, confortata dalle cartine geografiche dell’epoca e dagli stessi Stati Uniti che riconoscevano il Tibet come parte del territorio cinese. Nel 1949, infatti, il Dipartimento di Stato americano pubblicò un libro sulle relazioni USA-Cina con una mappa che mostrava tutta la Cina, Tibet compreso.1 Non solo. Durante il periodo della seconda guerra mondiale, era il governo della Repubblica di Cina a Nanjing a rilasciare i permessi di sorvolo del Tibet agli aerei alleati. Notoriamente, il permesso al sorvolo di un territorio lo rilascia l’autorità alla quale quel territorio appartiene. Ad ulteriore riprova di questa asserzione, oltre alle già menzionate mappe, c’è la stessa Costituzione della Repubblica di Cina. Nel documento, il Tibet viene citato cinque volte e, più precisamente, agli artt. 26, 64, 91 (due volte) e 120, come provincia parte integrante del territorio cinese. Quindi, benché il Tibet fosse assolutamente parte della Cina, sino al 1949 vi hanno signoreggiato indisturbati i Lama, i nobili ed i proprietari terrieri, forti del fatto che il Tibet/Xizang fosse il distretto più remoto ed impervio dell’Impero e verso il quale, sia l’ormai debole e degenerata monarchia Qing, sia l’altrettanto corrotto Kuomintang, non avevano avuto la forza e forse nemmeno l’interesse di esercitare alcun controllo efficace. Ecco perché, in modo del tutto improprio, si dice che il Tibet fosse “indipendente”. È stata questa situazione di apparente autonomia ad ingannare molti osservatori del tempo, facendo loro supporre – talvolta, persino in buona fede – che il Tibet fosse uno stato a sé, ma l’inconfutabilità dei documenti è innegabile. Poi, negli anni successivi, l’equivoco è stato cavalcato da chi ha avuto interesse a farlo, sino a creare l’abnorme falsificazione storica alla quale tutti siamo stati indotti a credere, almeno da gran parte dei media occidentali fino ad alcuni anni fa. Il Tibet, dunque, era solo una regione cinese autonoma e dimenticata, dove vigevano regole paragonabili a quelle del nostro più cupo medioevo.
Nell’ambito dei protagonisti della vicenda della liberazione del Tibet/Xizang, una figura senz’altro conosciuta risulta essere quella di Ngapoi Ngawang Jigme, nato a Lhasa, il 1º febbraio 1910 e deceduto a Pechino il 23 dicembre 2009. Ngapoi Ngawang Jigme nacque in Tibet, figlio di un potente aristocratico tibetano, studiando poi in Gran Bretagna dove sposò Ngapoi Cedain Zhoigar, un’influente esponente della Federazione Tibetana per le Donne. Si specializzo, nel corso dei suoi studi, anche in letteratura tibetana. Appena tornato dal suo percorso di studi in Europa, nel 1932 fu richiamato nel suo paese. Iniziò quindi la carriera nel 1936, quando, in veste di avvocato riformista del governo del Dalai Lama, massima autorità politico-religiosa tibetana, fu nominato Governatore di Chamdo, nel Tibet orientale, e capo delle sue forze armate. Nell’ottobre del 1950 ebbe luogo anche in Tibet il cambio di Governo, con la neonata Repubblica Popolare cinese desiderosa di affermarsi anche in quest’area interna della nazione. Jigme dichiarò immediatamente la resa di Chamdo di fronte alla potenza incontrastabile delle truppe cinesi. Il successivo 7 dicembre inviò a Lhasa una lettera che conteneva una proposta al Governo del Presidente Mao, un accordo in otto punti, nei quali erano contenute tre delle condizioni proposte in precedenza al giovane XIV Dalai Lama, Tenzin Gyatso. Nella primavera del 1950, in effetti Chamdo si trovava in un momento di grande difficoltà. Sebbene vi fossero ancora alcune sacche di resistenza a Derge e Markham, le truppe dell’Esercito Popolare di Liberazione avevano ormai assunto il controllo di quasi tutto il Kham praticamente senza combattere. L’esercito cinese stava marciando verso il Tìbet proveniendo dalle province dei Xinjiang e del Xikang (oggi Sichuan) seguendo una strategia messa a punto, fra gli altri, dal futuro Presidente Deng Xiaoping. Alcune schermaglie fra truppe cinesi e tibetane ebbero luogo nel maggio 1950, quando l’Esercito Popolare di Liberazione Popolare (EPL) sferrò un attacco contro Dengo, sul Dri-chu (Fiume Yangzi). Qualche mese dopo, il 7 ottobre dello stesso anno, l’EPL decise di mettere in atto una nuova offensiva: 40.000 soldati attraversarono il Dri-chu e assaltarono Chamdo su tre fronti: da Jyekundo, a nord, da Derge, a est e da Markham, a sud. In preda al panico, la popolazione della città rispose alla minaccia militare nella tipica maniera tibetana, con rituali religiosi e veglie di preghiera. Quando il rappresentante locale si mise in contatto radiofonico con il governo di Lhasa per comunicare l’invasione cinese, sembra che gli fu risposto con freddezza che membri del governo locale non potevano essere disturbati perché impegnati “in un picnic”. Pare che di fronte a tale affermazione l’operatore radiofonico di Chamdo abbia risposto a sua volta “skyag pa’i gling kha!”, ovvero “al diavolo il picnic!”. Sarebbe stata questa l’ultima comunicazione intercorsa fra le autorità tibetane locali e quelle di Lhasa. La città fu evacuata, il Governo locale di Chamdo requisì allo scopo quasi tutti i cavalli disponibili), ma l’EPL era ormai inarrestabile. Le truppe maoiste, consapevoli che la velocità d’azione sarebbe stata essenziale (l’operazione militare venne da loro descritta come una tigre che tenta di afferrare una mosca), avevano già isolato il nemico prendendo Riwoche. La resa fu annunciata il 19 ottobre, senza che venisse sparato un solo colpo.
Tornando a Ngapoi Ngawang Jigme, l’anno successivo guidò una delegazione tibetana per firmare con le nuove autorità cinesi il celebre l’Accordo dei Diciassette Punti, in base al quale il Tibet avrebbe accettato la sovranità cinese in cambio dell’ autonomia amministrativa e della libertà religiosa. La carriera di Jigme proseguì sotto il nuovo corso rivoluzionario, e da Pechino lo chiamarono ad amministrare la regione del Tibet. Servì la Commissione di Liberazione tibetana e la Prefettura di Chamdo, fu membro del Consiglio di Stato per le Cittadinanze Minoritarie tra il 1951 e il 1954, e Deputato Comandante dell’Esercito della Regione del Tibet, mentre fino al periodo della cosiddetta Rivoluzione Culturale fu membro del Consiglio di Difesa Nazionale. Fu il principale sostenitore e guida generale dell’“Ordine di Liberazione” nel 1955. Jigme fu rappresentante del Tibet nelle sette sedute del Congresso Nazionale del Popolo tra il 1954 fino al 1988, e fu presidente onorario dell’Associazione buddhista cinese nel 1980, divenendo poi esponente diplomatico di primo livello ricoprendo le cariche di capo delle delegazioni del Congresso Nazionale del Popolo in Colombia, Guyana, India occidentale, Sri Lanka e Nepal.2 Fu anche eletto presidente dell’Associazione per la Protezione e Sviluppo della Cultura Tibetana, e fu insediato il 21 giugno 2004. Morì a Pechino nel 2009, poco prima del suo centesimo compleanno, per una malattia mai resa nota. Il suo fu un funerale di Stato, a celebrare la straordinaria figura storica di questo personaggio protagonista delle fondamentali vicende sino-tibetane del secolo scorso.
Figura assai meno conosciuta, ma non per questo meno degna di interessa, è quella di un altro protagonista dell’epopea di liberazione del Tibet, il Generale Li Fen-Tzu. Questi, maoista della prima e intimo del Presidente Mao già ai tempi della lunga marcia e della Repubblica Sovietica cinese, nella vicenda sino-tibetana degli anni Cinquanta avrebbe ricoperto un ruolo determinate. Le pagine del suo racconto autobiografico, apparse in Italia per la prima volta nel 1968 grazie al volume titolato “Il diario del Generale Li fen-Tzu” e narrano con una straordinaria immediatezza quelle che sono le principali vicende del percorso rivoluzionario della Cina maoista.3 Egli, eroe della rivoluzione cinese, amico di Mao ai tempi della lunga marcia, uomo di fiducia di Zhou Enlai durante la guerra di Corea, comandante in capo della spedizione volta alla liberazione del Tibet, inviato nel Vietnam durante gli anni della guerra, riveste un ruolo di primo piano nell’epopea dell’emancipazione cinese del secolo scorso. In particolare, risultano essere utili ai fini del nostro lavoro le pagine che il generale ha dedicato alla spedizione in Tibet, avendo seguito egli stesso in prima persona le trattative con l’allora Governo locale ancora presieduto dalle forze teocratiche del Dalai Lama. Arrivato a Lhasa nel 1957 a bordo di un vecchio DC-4 partito dalla città di Xining, capitale della provincia del Qinghai (allora a collegare i capoluoghi delle due provincie vi era solamente una strada carrabile completata nel 1955 dopo tre anni di lavoro, mentre oggi le due città sono agevolmente collegate dalla celebre “ferrovia del cielo”), venne affiancato nella spedizione dal maggiore Fun Wu e da altri funzionari tibetani già fedeli al nuovo Governo. Prima dell’arrivo in terra tibetana, il generale ebbe modo di prepararsi alle intricate vicende locali, e dalla sua analisi emerge con evidenza quanto fosse consapevole del ruolo che le forze imperialiste avevano esercitato nel periodo di vacanza di poteri intercorso tra le due guerre mondiali: “Avevo cognizioni scolastiche di quel Paese, sapevo tutto della nostra politica e negli ultimi giorni avevo letto tutto quel che mi era passato tra le mani. Il Tibet era uno dei nostri più antichi territori e la sua storia era antica. Durante la guerra civile, nel 1950 gli elementi reazionari tibetani, illusi che gli imperialisti avrebbero loro fornito aiuti, decisero di resistere all’avanzata dell’armata popolare cinese e ordinarono alle proprie truppe di combattere. La battaglia avvenne a Chambo [Chamdo o Qamdo o Changdu] e dopo qualche duro combattimento, il 19 ottobre, l’armata popolare cinese sconfisse le forze tibetane conquistando Chambo. Gli americani lanciarono in tutto il mondo un’accanita propaganda contro il governo di Pechino, accusandolo di soggiogare un popolo innocente. Nel Tibet intanto un pugno di reazionari e traditori con a capo il reggente Taggha, d’accordo con gli anglo-americani, sequestrarono il quattordicesimo Dalai Lama e lo portarono a Yatung per condurlo poi in esilio in India. I tre principali monasteri tibetani si opposero subito a questa manovra influenzando l’opinione pubblica tibetana; pertanto, tutti, persino alcuni suoi consiglieri e collaboratori, consigliarono al Dalai Lama di accordarsi con la Repubblica Popolare Cinese. Ma non riuscirono a smuoverlo dalla sua intransigenza. Il governo di Lhasa allora rimosse il traditore Taggha trasferendo, nella primavera del 1951, i suoi poteri al Dalai Lama, che nominò come suo successore il Kaloon Ngabou quale plenipotenziario del governo per trattare con il governo di Pechino. Così fallirono gli intrighi degli anglo-americani e il Dalai Lama poté esaudire i desideri del Tibet per un accordo fraterno col popolo cinese. I negoziati della missione tibetana a Pechino ebbero immediato successo e lo stesso presidente Mao Tse-tung ne prese parte attiva; dopo un mese si giunse a un modus vivendi formale tra i due Paesi e il 22 maggio 1951, si raggiunse l’accordo. Dopo la ratifica, il 17 agosto 1951, il Dalai Lama lasciò Yatung e fece ritorno a Lhasa. Il governo cinese aiutò il popolo tibetano nel suo progresso politico, economico e culturale. Fu subito costruita una rete stradale che unì le principali regioni tibetane, furono creati diversi ospedali, aperte scuole elementari, medie e professionali, istituiti centri agricoli, statali e centri artigianali per preparare una nuova classe operaia che avrebbe fornito la mano d’opera per la nascente industria. Il governo di Pechino fece del suo meglio per migliorare le condizioni di vita del popolo tibetano. Al governo tibetano fu riconosciuta un’autonomia regionale, che aveva poteri sovrani in seno alla grande famiglia cinese”.
Altro passaggio di particolare interesse, è quello in cui Li Fen-Tzu illustra la composizione del dispiegamento militare delle truppe maoiste di stanza nella regione tibetana, di stanza a Lhasa e dintorni al fine di completare la riconquista dello Xizang nonché al fine di garantire l’ordine. In articolare, sottolinea il ruolo centrale di un altro generale, Lung Pen: «Il corpo d’armata della Repubblica Popolare nel Tibet era composto di tre divisioni con nove brigate e ventisette reggimenti, e una forza totale di circa quarantacinquemila uomini provenienti dalle province dello Shensi, Chinghai e Szechuan. Il comando di corpo d’armata era a Lhasa ove era di guarnigione la Prima divisione; la Seconda divisione era a Shigatse e la Terza a Gyantse. Ogni divisione controllava militarmente circa un terzo del territorio tibetano. A Lhasa c’erano anche una brigata di artiglieria, un reggimento di genieri e tre squadriglie di aerei. Dall’armata dipendevano diecimila funzionari civili, sparsi in tutto il Paese: ingegneri, dottori, infermieri, veterinari, farmacisti, meccanici, insegnanti, artigiani e ufficiali fiscali. Il generale Lung Pen, oltre a comandare il corpo d’armata, fungeva anche da consigliere militare presso il governo regionale e era responsabile della difesa, dell’ordine nel Paese e delle comunicazioni. In effetti Lung Pen era il governatore generale del Tibet per mandato della Repubblica Popolare Cinese. Io stesso, quale commissario politico del corpo d’armata, godevo di un potere quasi assoluto avendo sotto il mio controllo tutti i commissari politici militari. L’unica persona libera da qualsiasi controllo era il compagno Long Ya che nel Tibet rappresentava il direttorio supremo del partito e era considerato pari grado col generale Lung Pen. Come commissario politico controllavo anche il generale Lung Pen che era allo stesso tempo mio superiore gerarchico. Il compagno Long Ya aveva un ufficio separato con una cinquantina di subordinati e un centinaio di membri della polizia politica che dipendevano soltanto da lui e che comandavano le prigioni. Il compagno Long Ya era un vecchio attivista sindacale delle cellule operaie di Canton; era stato da giovane commissario politico con Borodin, durante le insurrezioni del 1925, e aveva servito sotto Sun Yat-Sen sino alla sua morte. Aveva passato una decina di anni di detenzione nelle prigioni del Kuomintang, era sfuggito per caso al plotone di esecuzione a Amoy prima della fuga dei nazionalisti a Formosa. Subito dopo la liberazione era stato nominato commissario politico di Mukden, in Manciuria. Si trovava da tre anni nel Tibet e era considerato dal direttorio del partito un esperto di affari tibetani. Long Ya aveva circa sessant’anni ma ne dimostrava meno essendo di statura media, magro e nervoso con una folta massa di capelli scuri. Aveva fama di uomo molto capace, furbo e buon diplomatico negli intricati dedali della politica e religione tibetana. Era amico del Pancen Lama e benvisto dal Dalai Lama, era sospettato di essere un forte simpatizzante del Paese. Il corpo di generali era composto di tre generali di divisione e nove di brigata, oltre al generale di brigata Chi Thai che fungeva da capo di stato maggiore; inoltre v’era un generale di brigata che comandava l’artiglieria e un altro addetto ai servizi: compreso me eravamo ben diciassette generali dei quali otto a Lhasa. Dal mio comando dipendevano sei colonnelli, trenta maggiori e un centinaio tra capitani e tenenti appartenenti tutti al corpo dei commissari politici militari. Ne conoscevo alcuni che avevano servito a Pechino».
Un particolare significativo, riportato poco oltre nel diario del Generale, è quello riguardante il permarere nella popolazione locale di un vero e proprio retaggio ancestrale legato alle caste, essendo i tibetani fino ad allora abituati ad un regime di servitù della gleba in un sistema teocratico: «Quel che principalmente urtava il morale del soldato era la differenza di classe, direi di casta nella popolazione tibetana, incomprensibile alla mentalità semplice dei nostri soldati che avevano combattuto per distruggere proprio tali differenze di classe; la nostra politica tollerante non andava loro giù e non riuscivano a comprendere la politica del nostro governo».
Dalle preziose pagine di Li Fen-Tzu, si evince anche un altro aspetto su cui abbiamo insistito in più occasioni; all’arrivo delle truppe del Governo di Pechino, molti contadini locali, ormai angustiati dalle insopportabili condizioni di vita fatta di vessazioni e schiavitù, si unirono entusiasticamente alle truppe di liberazione: «Esisteva un gruppo di tibetani di idee moderne dissidenti dal governo regionale che noi incoraggiavamo, e cercavamo di istruire per formare i nuovi quadri che avrebbero nel futuro governato il Paese, secondo i nostri sistemi, e che vi avrebbero apportato quelle necessarie riforme che noi auspicavamo. Questo gruppo ancora senza gran forza politica era formato da membri della classe dei servi che al nostro arrivo nel Paese nel 1951, erano fuggiti rifugiandosi presso di noi. Avevamo dato loro un impiego presso le nostre amministrazioni civili e militari, dopo averne pagati i riscatti ai padroni e ai monasteri. Dopo sette anni di rieducazione, la maggior parte di questi ex servi, oltre a divenire nostri preziosi collaboratori, avevano sviluppato una straordinaria capacità di lavoro tecnico e intellettuale. A questo gruppo appartenevano molti membri cadetti di famiglie nobili e abbienti che erano in disaccordo con le famiglie o che erano stati attirati dalle nostre ideologie. Questo gruppo era naturalmente molto mal visto dal governo regionale tibetano, ma godeva della nostra protezione. Nel l95l, dopo la nostra vittoria sciogliemmo l’esercito tibetano, ma mantenemmo con poche eccezioni il corpo di polizia. Integrammo molti di questi ex soldati tibetani nei nostri battaglioni di lavoro che contribuirono alla costruzione e al mantenimento della rete stradale del Paese; disgraziatamente, però, molti di questi sfuggirono al nostro controllo e si riunirono in bande brigantesche o in gruppi di guerriglieri iniziando azioni di disturbo in molte parti del Paese, obbligandoci a impiegare più della metà delle nostre forze armate in operazioni di polizia e repressioni. Oltre alla rete stradale, tutti i centri più importanti del Paese erano sotto il nostro controllo, ma nel Sud, dove non esistevano strade ma soltanto sentieri e mulattiere, la guerriglia non era stata ancora domata. Noi sospettavamo che i membri della classe nobile e gli stessi monasteri rifornissero i guerriglieri ma non eravamo ancora riusciti a scoprire i responsabili. Gli agenti cinesi e tibetani del compagno Long Ya erano insufficienti, inefficienti e soggetti a rappresaglie ovunque andassero, l’omertà che esisteva tra i contadini e i pastori non permetteva loro di ottenere nessuna informazione. Nella polizia tibetana lavoravano molti consiglieri cinesi che pur parlando correntemente la lingua tibetana e benché fossero gente pratica del mestiere, non potevano agire efficacemente, poiché anche loro urtavano contro la barriera d’omertà che esisteva nella stessa politica tibetana con la quale collaboravano».
Il Generale ha poi occasione di addentrarsi nel delicato ed intricato clima delle relazioni instauratesi tra il potere religioso locale e le forze di liberazione: «Il primo ministro civile del Dalai Lama era Tserapse, un vecchio politicante, capo di una delle dieci più importanti famiglie del Paese; era un buon diplomatico ma anche un trafficone e si barcamenava con le due parti. Suo figlio, Tsorong Tserapse, fungeva da supervisore fiscale generale, una specie di ministro del Tesoro: era un giovane intelligente ma effeminato e corrotto, capace di qualsiasi intrigo. Il ministro degli Interni e capo della polizia era un certo Tzai Tilang, proveniente dalla classe nobile, fanatico religioso, molto devoto al Dalai Lama, amante però della vita comoda e delle sue numerose concubine. Il capo dell’Industria e Agricoltura era lo Strong Oropong, ex proprietario terriero, amministratore delle proprietà private del Pancen Lama; benché fosse molto fedele al suo padrone era un sincero ammiratore dei nostri sistemi e faceva del suo meglio per collaborare con la nostra amministrazione per riformare il suo Paese su basi industriali. Era un uomo onesto e nonostante che avesse molti nemici tra la classe dominante restava al suo posto per l’appoggio e la fiducia del Pancen Lama. Il segretario del Dalai Lama, il gran Lama Ptorong Getsi, era forse l’uomo politico più potente del Tibet e capo consigliere del governo regionale. Il Pancen Lama, con la sua piccola corte, risiedeva a Lintang e era considerato il secondo capo religioso del Tibet e pur non esercitando poteri esecutivi aveva un grande ascendente dominando un terzo dei monasteri tibetani. Il Pancen era molto più anziano del Dalai Lama ed era stato due volte a Pechino, ospite personale del presidente Mao Tse-tung di cui si diceva amico; era considerato un furbo intrigante e si diceva che cospirasse contro il Dalai Lama, che conoscendolo bene, lo teneva sotto sorveglianza. Questi cinque uomini dominavano la scena politica del Tibet ed erano tutti fedeli al Dalai Lama. Nel primo anno che passai nel Tibet li conobbi tutti e potei farmi un’idea della situazione politica interna e della nostra posizione nella complessa scena politica tibetana. Quel primo anno ebbi molto da fare, dovevo infatti assicurare il maggior benessere possibile al nostro corpo di spedizione, cercando al tempo stesso di non entrare in conflitto con usi e costumi del Paese».
Infine, il Generale li Fen-Tzu ha occasione per trarre un bilancio finale della sua esperienza nella regione del Tibet/Xizang: «I due mesi successivi furono pieni di eventi e di lavoro; mentre le nostre truppe ristabilivano l’ordine nel Paese spingendo sempre più le bande dei guerriglieri verso i confini del Nepal e della Mongolia, il nostro ufficio politico fu molto occupato a ristabilire la situazione interna e a studiare le riforme per cambiare il vecchio governo regionale che doveva essere incorporato nel nostro sistema amministrativo regionale. Giunsero da Pechino alcune nostre commissioni; fu instaurato un tribunale rivoluzionario per giudicare colpevoli e traditori. All’ufficio politico venni sostituito da Che Ceng, ex sottosegretario agli Affari Esteri, che venne a prendere il posto del compianto compagno Long Ya. Allora soltanto ebbi il tempo di occuparmi del mio ufficio che era stato diretto nel frattempo dal colonnello Ong Pi. Alla fine dell’anno fu eliminato il governo regionale autonomo del Tibet e nostri esponenti presero le redini del Paese; la polizia tibetana fu riformata e i comandanti sostituiti da membri del corpo di polizia cinese; le scuole elementari e professionali vennero poste sotto il controllo di insegnanti cinesi e divennero obbligatorie; furono creati i primi sindacati di lavoratori industriali e agricoli e fu imposto l’insegnamento obbligatorio della lingua cinese insieme a quella tibetana. Furono liberati gli ultimi servi e si iniziò lo smembramento delle grandi proprietà terriere laiche ed ecclesiastiche, che furono distribuite al popolo e alle cooperative agricole e zootecniche. Il Dalai Lama che con la sua corte si era rifugiato in India, a Kalimpong, fu sostituito quale capo religioso dal Pancen Lama Erdeni; molti aristocratici e grandi proprietari terrieri fuggirono in India e quelli che restarono accettarono di collaborare con la nostra amministrazione. Finì così la falsa autonomia del Tibet che divenne una provincia della Cina Popolare».
Quello che è certo, che le pagine di questo diario risultano essere un documento tanto prezioso quanto unico, non essendo presenti almeno in lingua italiana contributi di analogo valore rispetto alla vicenda sino-tibetana. Certamente, esso è pur sempre un documento parziale, tanto nei punti di vista quanto nella fetta temporale di riferimento. Tuttavia, risultano anche in esso elementi e temi di centrale importanza nella vicenda della liberazione del Tibet, quali il ruolo delle diplomazie, le manovre militari, gli aspetti fondamentali della vita locale come il retaggio oscurantista, il ruolo oppressivo e vessatorio dei grandi Lama, il favorevole incontro tra le istanze di emancipazione dei contadini locali e le truppe sopraggiunte da Pechino.
Marco Costa
NOTE
1 Vedi Herbert Aptheker, America Foreign Policy and The Cold War (1962), Krauss Reprint Millwood, New York, 1977.
2 Vedi Mackerras Colin; Yorke Amanda, The Cambridge Handbook of Contemporary China. Cambridge University Press, 1991, p. 100.
3 Vedi Il diario del Generale Li fen-Tzu, a cura di Renato Spera, Longanesi, Milano, 1968. Tutte le citazioni nelle seguenti pagine sono tratte nel volume da pp. 116 a pp. 160.
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