di Andrea Falco Profili

Il Bundestag è frantumato, risuona l’eco di un’egemonia che non c’è più. Le elezioni di febbraio hanno dissolto l’illusione di stabilità che per decenni aveva sedato il cuore pulsante dell’Europa. Più che una mera rotazione di potere, si sancisce il crollo del modello politico che ha dettato gli standard di stabilità all’Europa negli ultimi decenni.

Il panorama tedesco è un campo in macerie: al centro, la CDU vince ma non trionfa (28,5%) e appare come ultimo baluardo di un sistema in disfacimento; a destra, l’AfD ha infranto ogni soglia simbolica con un notevole 20%; a sinistra, una SPD ridotta a simulacro (16%) e una Linke rinvigorita (9%) disegnano i contorni di una polarizzazione che cancella decenni di centrismo. Il crollo dei Verdi e la scomparsa dell’FDP sotto la soglia di sbarramento completano il quadro di una coalizione di governo spazzata via dalla propria inconsistenza. Il progetto di Sahra Wagenknecht manca l’ingresso in Parlamento per un soffio: un mancato terremoto, ma che lascia crepe profonde. L’Est si consegna alla destra, l’Ovest si aggrappa ai fantasmi liberali, mentre l’intero edificio vacilla sotto il peso di una partecipazione quasi plebiscitaria (84%): un affluire alle urne che sa più di rito funebre che di celebrazione democratica.

L’esito delle urne è la materializzazione di uno smarrimento che da tempi vagava nei corridoi dei palazzi berlinesi. La CDU rimane prigioniera di una gabbia dorata, non può essere ignorata ma non ha i mezzi per governare con autorevolezza. Il partito che per decenni ha incarnato la solidità teutonica oggi cerca di trattenere elettori in fuga verso lidi più radicali. AfD non è più un fenomeno marginale e diviene pienamente interno alla struttura della politica tedesca. Per la prima volta dal dopoguerra, un’opposizione marcatamente di destra, non mitigata dalla categoria centrista, siede all’opposizione come seconda forza politica. A prescindere dall’onestà della classificazione politica di AfD, conta la percezione della forza politica agli occhi della massa elettorale germanica, è una barriera psicologica abbattuta, un tabù politico infranto. Lo sfacelo socialdemocratico è l’epitaffio di una via tedesca alla socialdemocrazia, spesso ricalcata in altri contesti europei, che in una gara all’emulazione del suo rivale ne eredita tutti i tratti peggiori e diviene simbolo di governance inefficace. Le analisi sulla Linke sono da farsi cum grano salis, la forza politica intestataria del voto giovanile, rinasce da una scissione che sembrava aver ultimato quell’esperienza politica. Lungi dal parlare di radicalismo, va inteso che la Linke ha chiarito di essersi mitigata ed essere approdata a lidi più – a loro detta – democratici. In altre parole, espansione del consenso attraverso la moderazione, seguendo la strada dell’SPD.

La Germania, locomotiva economica del continente, rischia di diventare l’emblema di una crisi politica europea in cui le formule del passato non funzionano più e quelle del futuro sono ancora tutte da inventare.

La Coalizione del Nulla

Il patto tra CDU e SPD che si profila all’orizzonte non è l’abbraccio di due forze complementari, ma la stretta disperata di due naufraghi. Friedrich Merz, figura algida del capitale finanziario, siederà alla cancelleria non per governare ma per amministrare il declino. La CDU non ha una vera agenda se non il dogma dell’austerità. Scholz, relegato al ruolo di comprimario, porterà il peso di un partito che ha smarrito la propria anima nel compromesso perpetuo.

È la politica dell’arginamento: un cordone sanitario intorno all’AfD che però non offre alcuna visione alternativa. Il sistema tradizionale si barrica nel fortino delle istituzioni, mentre fuori infuria la tempesta del malcontento. L’AfD, esclusa dal potere formale ma investita di una forza simbolica inedita, potrà recitare il ruolo che più le si addice: quello del profeta apocalittico che denuncia la casta mentre il sistema implode. Il partito di Alice Weidel sfrutterà ogni difficoltà del governo per consolidare la narrazione di una “dittatura dei vecchi partiti”, un blocco CDU-SPD-Verdi che difende più sé stesso che il paese. Anche la sinistra avrà il suo spazio, ma resterà divisa: Wagenknecht fuori dal Parlamento lascia un vuoto nel campo di chi voleva una critica antiliberista senza appiattirsi sulla retorica progressista. La frattura politica è solo l’epifenomeno di una crisi più profonda: il modello economico tedesco, fondato sull’export e sulla disciplina fiscale, si è inceppato. Dal 2019 al 2024, l’economia tedesca annaspa, la crescita del PIL è stata inferiore a quella di quasi tutti i partner occidentali, superata marcatamente anche da quelli un tempo considerati minori. L’affanno economico è appesantito dai costi energetici esplosi dopo la guerra in Ucraina e dalla deindustrializzazione, che avanza inesorabile: il settore automobilistico emigra verso est, gli investimenti fuggono oltreoceano. L’ironia storica è lampante: la Germania che ha imposto l’austerità all’Europa ora ne diventa vittima. Il dogma ordoliberale che doveva garantire prosperità eterna si rivela gabbia in un mondo dove gli Stati Uniti e Cina investono massicciamente nel futuro.

Il voto di protesta – sia quello nazionale dell’AfD che quello sociale della BSW – è l’urlo di una popolazione che vede sgretolarsi certezze materiali. Ma la risposta del nuovo governo sarà prevedibilmente asfittica: gestione dell’esistente, senza alcuna rottura paradigmatica.

Si riesumerà il cadavere della Grosse Koalition come baluardo antipopulista a trazione ex BlackRock, un’alleanza che non ha nulla da offrire se non la propria sopravvivenza. Il matrimonio di convenienza allargato ai Verdi domesticati si regge sull’unico collante disponibile: la paura dell’Alternativa. Il paradosso è lampante: per “salvare la democrazia” si costruisce un governo privo di reale legittimazione popolare e troppo eterogeneo per promulgare alcun cambiamento in grado di intervenire sulle condizioni che lo hanno posto in essere, fondato sull’aritmetica parlamentare piuttosto che su un reale progetto politico.

L’era Merz si profila come l’era dell’immobilismo tedesco. L’ex banchiere non mostra alcuna volontà di distaccarsi dal feticcio della disciplina fiscale che ha trasformato la Germania nel gendarme contabile d’Europa. Il costituzionale Schuldenbremse (freno al debito) resta intoccabile come un totem animista, mentre l’economia reale soffre sotto il peso della dismissione. La SPD, decimata dalla sua ala più timidamente socialdemocratica, si accontenterà di qualche contentino simbolico, assumendo una postura neoliberista più realista del Re.

La grande coalizione arroccata sotto gli strali contro “l’élite berlinese” lanciati da AfD è in altre parole un sistema a tempo determinato, tenuto in piedi più dai meccanismi di preservazione dello Stato Tedesco da una percepita radicalità di destra che non da una stabilità democratica. Si sentirà il peso dell’assenza del BSW, unica forza apertamente pacifista e anti-austerità. Le questioni fondamentali – dalla guerra in Ucraina alla rinascita economica del paese – sono catapultate fuori dal Bundestag integralmente e rischiano di non godere di nuova vitalità fino alla prossima legislatura. Bruxelles tira un sospiro di sollievo mentre nei sobborghi di Berlino Est e nelle valli deindustrializzate della Sassonia, il malessere continua a covare, in attesa della prossima, inevitabile deflagrazione.

Un modello economico in declino

La stabilità economica tedesca, si sta sgretolando sotto il peso delle proprie contraddizioni. I numeri parlano con eloquenza spietata: la locomotiva d’Europa diviene fanalino di coda, superata in termini di crescita persino da quell’Italia che Berlino ha per anni trattato con sufficienza tecnocratica. Per il 2025, l’anemico +0,1% previsto per il PIL tedesco è la diagnosi di una malattia terminale. Al cuore di questa agonia si trova il paradosso energetico germanico: il paese ha sacrificato la propria sicurezza sull’altare dell’ideologia atlantista. La fine delle forniture di gas russo a basso costo ha inferto un colpo mortale al modello industriale teutonico. Oggi, la manifattura tedesca paga l’energia cinque volte più degli Stati Uniti, perdendo ogni vantaggio competitivo. Lo spettro della deindustrializzazione si incarna in una realtà quantificabile: due aziende su tre hanno già delocalizzato attività produttive, colossi come Volkswagen scelgono la Carolina del Sud per i loro nuovi impianti invece della Baviera o della Sassonia.

Il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream – operazione sulla quale il governo Scholz ha mantenuto un silenzio complice, preferendo non interrogarsi sulle responsabilità dei propri alleati d’oltreoceano – ha rappresentato il colpo di grazia simbolico a quel patto energetico con Mosca che aveva garantito decenni di prosperità tedesca.

Tuttavia, sarebbe riduttivo attribuire il declino tedesco al solo fattore energetico. La crisi è sistemica e colpisce le fondamenta stesse del modello economico germanico: export ossessivo, surplus commerciali abnormi e rigore fiscale interno elevato a dogma costituzionale. L’equilibrio è precario e ha funzionato solo finché le condizioni globali lo hanno permesso, ma oggi la regionalizzazione geopolitica e commerciale si rivela incompatibile con questo modello e ne causa l’implosione. L’austerità costituzionale tedesca impedisce gli investimenti massicci necessari per ricovnertire l’apparato produttivo. Nel mentre che gli Stati Uniti varano piani industriali da miliardi con l’Inflation Reduction Act, attirando come calamite gli investimenti tedeschi, Berlino stringe il cappio al collo servendosi della propria ortodossia fiscale. Il dramma finale della Germania è che nessuno, nell’establishment politico, sembra avere il coraggio intellettuale di nominare la crisi per ciò che è: il fallimento del modello delle politiche di austerità. I partiti tradizionali, avvinghiati alle loro certezze neoliberali, non osano mettere in discussione i dogmi che hanno guidato la politica economica degli ultimi decenni, l’ombra del rigore di Angela Merkel pesa ancora ancora sui palazzi del potere e nessuno ha davvero il coraggio di riconoscerle di aver distrutto l’economia tedesca. La loro incapacità di immaginare alternative li condanna all’irrilevanza storica.

Illusione Bellica

Nell’arena internazionale, la Germania post-elettorale affronta un dilemma esistenziale. La guerra in Ucraina persiste come ferita aperta, ma l’America trumpiana ricalibra il proprio impegno. Berlino, che ha costruito la propria identità post-1945 sulla pace perpetua, si ritrova ora a dover considerare un ruolo militare autonomo.

È la nemesi storica di un paese che ha rinnegato la propria vocazione imperiale per abbracciare il pacifismo mercantile: ora che il mercato vacilla, cosa resta? Merz, atlantista pragmatico, naviga acque troppo scosse per le proprie competenze: dipendenza strategica dagli USA e necessità di una nuova postura europea indipendente. Il rischio è quello di una convergenza Berlino-Parigi-Varsavia, più spese militari, più coinvolgimento diretto, rischio di una tensione cronica ai confini con la Russia. Berlino potrebbe trovarsi in prima linea senza “l’ombrello protettivo americano”, in uno scenario che l’Europa non ha mai davvero preparato. Ma quanto può durare questa postura aggressiva? Senza il gas russo, con una Cina sempre meno accomodante e con un’industria in crisi, la Germania scopre di essere un gigante dai piedi d’argilla. Il futuro è incerto, il nuovo governo è messo all’angolo e deve decidere se continuare sulla strada della rigidità germanica o se aprire un nuovo capitolo nella politica estera europea.

Il sisma tedesco è un monito per l’intero continente: l’era della stabilità prevedibile è giunta al termine. Berlino non è più il faro della via all’integrazione europea, ma una luce intermittente che segnala pericolo. L’Europa, costruita sul mito della convergenza al centro, si ritrova ora priva della sua ancora. Se la Germania continuerà ad aggrapparsi ai fantasmi del rigore fiscale e dell’immobilismo politico, rischia di trasformarsi da guida in zavorra dell’Unione. Il voto del 23 febbraio non fa solo da cesura alla storia tedesca, ma segna l’inizio di una nuova fase nell’equilibrio continentale: l’era in cui Berlino dettava le regole è finita. Resta da vedere se la Germania saprà reinventarsi come forza propulsiva o se si limiterà a gestire il proprio malinconico declino nel concerto di un’Europa dissonante.

La Germania si trova così a un bivio: proseguire sulla strada dell’atlantismo e dell’austerità autolesionista fino al collasso definitivo, o rivoluzionare radicalmente la propria visione politica. Il governo Merz-Scholz, nato vecchio, stanco e – francamente – morto, appare drammaticamente inadeguato di fronte a questa sfida. La Germania assume i connotati del malato d’Europa che fu l’Impero Ottomano del XIX secolo: un gigante dalle fondamenta corrose, destinato a un lento, inesorabile declino. 

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