Le sanzioni internazionali: quando la politica estera si fa senza armi

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di Alessandro Marini

Le sanzioni rappresentano uno degli strumenti più utilizzati nella politica estera per esercitare pressione su governi, organizzazioni o individui senza ricorrere all’uso della forza militare. Dall’embargo commerciale alle restrizioni finanziarie, fino ai divieti di viaggio e al congelamento dei beni, queste misure vengono impiegate per scoraggiare violazioni del diritto internazionale, punire azioni ritenute ostili o favorire cambiamenti politici e comportamentali.

Negli ultimi decenni, le sanzioni sono diventate un elemento centrale nelle relazioni internazionali, utilizzate da attori globali come l’Unione Europea, gli Stati Uniti e le Nazioni Unite per rispondere a crisi geopolitiche, violazioni dei diritti umani o minacce alla sicurezza globale. Tuttavia, la loro efficacia e le conseguenze economiche e sociali che ne derivano sono spesso oggetto di dibattito.

In questo articolo esamineremo il ruolo delle sanzioni nella politica estera, analizzando casi concreti, i loro effetti e le controversie che le circondano.

Cosa sono le sanzioni? In diritto, la sanzione è una conseguenza sfavorevole prevista per chi non rispetta una norma giuridica. In generale, una sanzione consiste nella limitazione di diritti per l’inosservanza del comportamento prescritto da una norma, prevedendo una sanzione volta a scoraggiarla.

Allargando il discorso all’ambito delle relazioni internazionali, queste misure sanzionatorie sono divenute uno strumento di pressione che – al verificarsi di determinate condizioni – alcuni paesi possono esercitare su altri.

Spostando l’attenzione sulla natura economica che possono avere le sanzioni nell’ambito delle relazioni internazionali, possiamo definirle, allora, come l’insieme di misure di restrizione o di blocco dei rapporti economici e commerciali da parte di uno o più paesi verso un altro ritenuto colpevole di violazione delle norme previste dal diritto internazionale.

L’imposizione di sanzioni economiche sono, quindi, una tipologia di azione politica considerata meno aggressivo, meno rischioso e meno costoso rispetto ad un intervento armato diretto contro un dato Paese.

Così, agli occhi delle elite – soprattutto quelle occidentali – queste caratteristiche rendono le sanzioni lo strumento di politica estera privilegiato – un’arma vera e propria anche se di natura economica – la cui adozione deriva dal fatto che i costi sociali di una guerra sono spesso ritenuti inaccettabili sopratutto dalle opinioni pubbliche occidentali.

Il ricorso alle misure restrittive è imposto dagli Stati sia in modo autonomo, sia in attuazione di risoluzioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Ripercorrendo una breve storia sulle sanzioni, notiamo che, in una forma ovviamente diversa rispetto ad oggi, fosse una pratica adottata fin dall’antichità come forma di isolamento economico e diplomatico di un determinato soggetto politico; le sanzioni tra stati – o regni – erano spesso legate a conflitti, rivalità politiche o questioni economiche. Anche se non esistevano organizzazioni internazionali come le conosciamo oggi, le sanzioni venivano applicate attraverso accordi bilaterali, blocchi commerciali o azioni militari dirette.

Nell’antichità, le sanzioni erano spesso legate a conflitti militari e avevano un carattere più diretto e brutale rispetto alle sanzioni moderne. Erano strumenti per indebolire il nemico attuate tagliando risorse vitali o isolandolo economicamente e politicamente anche se non erano prive di conseguenze impreviste che potevano portare ad una escalation di conflitti.



Facendo un salto in avanti avvicinandosi ai giorni odierni, arriviamo al XIX secolo quando il ricorso alle sanzioni divenne più sistematico;le sanzioni diventano uno strumento utilizzato dalle potenze europee e da altri Stati per far rispettare accordi internazionali, punire comportamenti ritenuti inaccettabili o esercitare pressioni politiche ed economiche.

Nel XIX secolo, le sanzioni erano spesso legate a contesti di guerra, colonialismo o per esercitare pressioni diplomatiche, con un uso frequente di blocchi navali, embarghi e interventi militari. Tuttavia, rispetto a quanto succederà nel XX e XXI secolo, queste azioni sanzionatorie erano meno strutturate e più legate a obiettivi immediati piuttosto che a strategie internazionali complesse.



Nel XX secolo, soprattutto dopo la prima guerra mondiale con l’emergere delle organizzazioni internazionali come la Società delle Nazioni, le sanzioni divennero uno strumento sempre più funzionale al conseguimento di obiettivi relativi alle dinamiche di politica estera; proprio con la nascita della Società delle Nazioni che si affermò l’idea che le sanzioni economiche fossero uno strumento alternativo alla guerra.

L’articolo 16 del Patto della Società delle Nazioni, entrato in vigore 10 gennaio 1920 decretava che qualora uno dei Membri della Società ricorra alla guerra, in violazione dei patti di cui agli articoli 12, 13 e 15, sarà considerato ipso facto come colpevole di aver commesso un atto di guerra contro tutti gli altri Membri della Società, i quali si impegnano fin d’ora a interrompere immediatamente ogni rapporto commerciale e finanziario col medesimo, a proibire ogni traffico fra i propri cittadini ed i cittadini dello Stato contravventore, e ad interdire ogni rapporto finanziario, commerciale o personale fra i cittadini dello Stato contravventore e i cittadini di qualsiasi altro Stato, sia o non sia Membro della Società.

E la prima volta che la Società delle Nazioni applicò l’art. 16 (quello riguardante le sanzioni) fu nel 1935 nei confronti del Regno d’Italia all’indomani dell’invasione del Regno di Etiopia, membro della Società dal 1923 e uno dei pochi paesi del continente africano che mai erano stati colonizzati: le sanzioni prevedevano il blocco di tutte le importazioni dall’Italia e dell’esportazione verso Roma di un elenco di beni necessari per la prosecuzione della guerra.

Le sanzioni contro il Regno d’Italia per la guerra in Etiopia (1935-1936) rappresentano uno dei primi esempi di sanzioni internazionali applicate da un’organizzazione multilaterale, la Società delle Nazioni. Queste sanzioni furono imposte in risposta all’invasione italiana dell’Etiopia, un atto di aggressione che violava i principi del diritto internazionale e della Carta della Società delle Nazioni.

Le sanzioni furono approvate il 18 novembre 1935 e includevano un embargo sulle armi (proibizione di esportare armi e materiale bellico verso l’Italia), blocco finanziario (ivieto di concedere prestiti o crediti al governo italiano) e restrizioni commerciali con le quali si voleva imporre il divieto di importare merci italiane, il divieto di esportare verso l’Italia alcuni beni strategici, come metalli, carbone e petrolio (quest’ultimo non fu incluso inizialmente a causa delle pressioni di alcuni Stati membri).

La mancanza di applicazione universale di tali sanzioni rappresentò un forte limite al loro successo: non tutti i membri della Società delle Nazioni, infatti, aderirono pienamente alle disposizioni sanzonatorie contro Roma. Ad esempio, Stati Uniti, Germania e Giappone, che non erano membri attivi della Società, continuarono a commerciare con l’Italia.
Le sanzioni, poi, non includevano inizialmente il petrolio, una risorsa cruciale per lo sforzo bellico italiano. Solo nel 1936 si discusse di estendere le sanzioni al petrolio, ma ormai era troppo tardi.

Durante la seconda guerra mondiale, poi, le potenze alleate utilizzarono sanzioni contro l’Asse, mosse dalla medesima idea, quella di isolare economicamente i nemici, limitandone le risorse: il blocco navale della Germania (1939-1945) – noto anche come guerra economica – si realizzò attraverso una serie di operazioni effettuate durante la seconda guerra mondiale dall’Impero britannico e dalla Francia finalizzate a limitare le forniture di minerali, carburanti, metalli, cibo e tessuti necessari a Berlino per sostenere i propri sforzi bellici. La guerra economica consisté principalmente in un blocco navale, parte della più ampia battaglia dell’Atlantico, ma comprese anche bombardamenti di obiettivi economicamente strategici e l’acquisto preclusivo di materiale bellico da paesi neutrali al fine di impedirne la vendita alle potenze dell’Asse.

Durante la Guerra Fredda, poi, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica utilizzarono sanzioni in modo regolare e sistematico. Gli Stati Uniti, per esempio, imposero sanzioni contro l’URSS e i suoi alleati, mentre l’URSS usò strumenti simili nei confronti dei suoi nemici.

L’Unione Sovietica (URSS) adottò diverse sanzioni economiche, commerciali e politiche nei confronti di paesi rivali, soprattutto gli Stati Uniti e i loro alleati. Queste sanzioni erano spesso una risposta alle misure imposte dal blocco occidentale o un mezzo per esercitare pressione su stati satellite e paesi neutrali. Tra le principali sanzioni e misure restrittive adottate dall’Unione Sovietica possiamo annoverare il blocco di Berlino (1948-1949), l’embargo commerciale contro la Jugoslavia (1948-1955) – dopo la rottura tra Tito e Stalin, l’URSS interruppe tutti gli scambi economici con la Jugoslavia e cercò di isolarla diplomaticamente – restrizioni commerciali contro la Cina (1959-1966) – dopo la rottura sino-sovietica nei primi anni ’60, Mosca ridusse drasticamente l’esportazione di tecnologia e aiuti economici verso la Cina mentre furono revocati contratti di fornitura di macchinari industriali e assistenza tecnica; le sanzioni messe in atto contro paesi del blocco orientale dissidente – l’URSS utilizzò restrizioni economiche per punire stati satellite che mostravano segni di indipendenza, come la Polonia negli anni ’80, quando il regime comunista affrontava pressioni interne dal movimento Solidarność.

Le sanzioni sovietiche, tuttavia, avevano spesso un impatto limitato rispetto a quelle occidentali, poiché l’URSS dipendeva meno dal commercio globale e più dalle economie pianificate interne e dagli scambi tra stati comunisti.

Anche gli Stati Uniti non mancarono di imporre numerose sanzioni economiche, commerciali e diplomatiche contro l’Unione Sovietica (URSS) e altri paesi del blocco comunista al fine di indebolirne l’economia e limitarne l’influenza geopolitica.

Queste misure facevano parte della strategia di contenimento del comunismo e si intensificarono in particolar modo nei momenti di crisi tra le due potenze.

Tra le principali sanzioni e restrizioni imposte dagli USA durante la Guerra Fredda si possono contare l’embargo commerciale contro l’URSS (1949-1991) con cui Washington limitò l’esportazione di tecnologia avanzata e materiali strategici verso l’URSS e i suoi alleati; il COCOM (Coordinating Committee for Multilateral Export Controls), un sistema di controlli sulle esportazioni di beni e tecnologie avanzate verso il blocco sovietico con l’impedimento della vendita di attrezzature informatiche, semiconduttori e tecnologia aerospaziale; le sanzioni contro la Cina comunista (1949-1971) con gli Stati Uniti che imposero un embargo commerciale totale su Pechino che si intensificò maggiormente dopo la guerra di Corea (1950-1953), quando le restrizioni colpirono l’esportazione di petrolio e prodotti industriali verso la Cina; l’embargo commerciale e finanziario alla Corea del Nord con il blocco di beni strategici e congelamento di beni nordcoreani negli USA (queste misure sono in vigore ancora oggi); le sanzioni dopo la Crisi di Suez e contro l’Egitto (1956) con cui Washington sospese aiuti economici a Nasser e cercò di isolare il paese diplomaticamente.

Durante la presidenza di Ronald Reagan, gli USA intensificarono le sanzioni economiche per colpire l’economia sovietica, in particolare il settore energetico. Pressioni sui paesi europei per bloccare il gasdotto sovietico Urengoy-Pomary-Uzhgorod, limitando le esportazioni di tecnologia per l’estrazione di gas mentre una riduzione del prezzo del petrolio negoziato attraverso accordi con l’Arabia Saudita fu attuata con il fine di indebolire le entrate dell’URSS, fortemente dipendente dalle esportazioni energetiche.

Il blocco economico imposto a Cuba nel 1960 da parte degli Stati Uniti è, però, uno degli esempi più noti e più duraturi visto che queste misure sono ancora in vigore. Dopo la Rivoluzione Cubana e l’alleanza tra Fidel Castro e Mosca, gli USA imposero un embargo economico totale su Cuba con il quale si vietava l’importazione di zucchero cubano e l’esportazione di petrolio e tecnologia verso l’isola.

Il blocco economico fu rafforzato nel 1962 dopo la crisi dei missili, ha avuto pesanti conseguenze economiche per l’isola limitandone le possibilità di commercio e sviluppo, incidendo su settori chiave come l’agricoltura, l’industria e la sanità. Tra le principali conseguenze economiche annoveriamo la riduzione del commercio internazionale con perdita totale del mercato statunitense – prima della rivoluzione, gli Stati Uniti erano il principale partner commerciale di Cuba. Con l’embargo, l’isola perse l’accesso a un mercato cruciale per l’esportazione dello zucchero, tabacco e rum – e limitazione alle importazioni – Cuba non ha potuto acquistare macchinari, farmaci e beni di consumo dagli USA, dovendo rivolgersi a mercati più costosi e lontani. Questo scenario ha portato ad una forte dipendenza dagli aiuti provenienti da Mosca e, nel 1991, ad una crisi economica dopo la fine dell’Unione Sovietica: durante tutta la Guerra Fredda, infatti, l’Unione Sovietica sostenne l’economia cubana con sussidi, acquisti garantiti di zucchero a prezzi gonfiati e petrolio a basso costo.

Dopo la fine dell’URSS, Cuba perse circa 80% del commercio estero e affrontò una grave crisi economica conosciuta come il “Periodo Speciale”, caratterizzato da scarsità di cibo, energia e beni essenziali. Il settore agricolo fu quello che ne risentì in maggior misura con una produzione che fu ridotta dalla mancanza di fertilizzanti, pesticidi e macchinari che provocò carenze alimentari diffuse su tutta l’isola.

L’embargo imposto all’isola dagli Stati Uniti ebbero un forte impatto anche sull’industria, sullo sviluppo infrastrutturale e tecnologico, sul settore sanitario e nel campo degli investimenti esteri.



Dopo la fine della Guerra Fredda e fino a tempi più recenti, le sanzioni sono state utilizzate in modo sempre più mirato per affrontare conflitti regionali, il terrorismo, le violazioni dei diritti umani e per frenare le ambizioni nucleari di Stati ritenuti ostili dal campo occidentale; per queste differenti ragioni, gli Stati Uniti – seguiti in modo ossequioso dall’Unione Europea – hanno spesso applicato sanzioni a paesi come Repubblica Islamica dell’Iran, Corea del Nord, Federazione Russa e Siria.

Le sanzioni all’Iran sono state imposte da vari paesi e organizzazioni internazionali nel corso degli anni, principalmente in risposta a preoccupazioni relative al programma nucleare iraniano, alle violazioni dei diritti umani, al sostegno al terrorismo e alle attività destabilizzanti nella regione del Medio Oriente. Le sanzioni contro Teheran sono state, dunque, uno strumento chiave adottato dalla comunità internazionale per cercare di influenzare il comportamento del paese ma, tuttavia, il loro impatto è stato mitigato dalla resilienza interna dell’Iran e dalla complessità delle relazioni internazionali del Paese.

Tra il 2006 e il 2010, il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato diverse risoluzioni (tra cui la 1696, 1737, 1747, 1803 e 1929) che imponevano sanzioni all’Iran per il suo programma di arricchimento dell’uranio, considerato un potenziale percorso verso lo sviluppo di armi nucleari; tra queste, un embargo sulle armi, il congelamento dei beni di individui e entità coinvolte nel programma nucleare, restrizioni finanziarie tra cui il divieto di concedere prestiti o assistenza finanziaria all’Iran; un embargo tecnologico con cui si imponeva il divieto di fornire tecnologia legata al nucleare e ai missili balistici.

Oltre alle sanzioni dell’ONU, gli Stati Uniti e l’Unione Europea hanno imposto sanzioni aggiuntive, tra cui l’embargo sul petrolio e sul gas (restrizioni sull’importazione di petrolio e gas iraniano), l’esclusione dal sistema finanziario internazionale con il divieto per le banche iraniane di operare nel sistema finanziario globale e l’adozione di sanzioni settoriali che prevedevano restrizioni su settori chiave come l’energia, i trasporti e l’industria.

Dopo un allentamento di queste sanzioni seguito all’Accordo sul nucleare (Joint Comprehensive Plan of Action, JCPOA) trovato nel luglio 2015, quando l’Iran e il P5+1 (Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Russia, Cina e Germania) hanno raggiunto un accordo storico che prevedeva la limitazione del programma nucleare iraniano in cambio della rimozione delle sanzioni economiche, nel 2018, il ritiro dal JCPOA degli Stati Uniti ha visto il ripristino delle sanzioni da parte di Washington.

Le sanzioni hanno avuto un impatto significativo sull’economia iraniana, causando inflazione, svalutazione della moneta, disoccupazione e difficoltà nell’accesso ai mercati internazionali, ma nonostante ciò, l’Iran ha cercato di adattarsi attraverso l’autosufficienza economica (autarchia) e il commercio con paesi non allineati; così, l’impatto delle sanzioni è stato mitigato dalla resilienza interna dell’Iran e dalla complessità delle relazioni internazionali di un mondo globalizzato e sempre più interconnesso.

Le sanzioni alla Siria sono state imposte da vari paesi e organizzazioni internazionali in risposta alla repressione violenta delle proteste popolari del 2011, che ha portato a una guerra civile, e per il presunto sostegno del governo siriano al terrorismo e alle violazioni dei diritti umani.

L’UE ha imposto un embargo sulle importazioni di petrolio dalla Siria nel 2011, privando il governo di una fonte cruciale di entrate mentre sono stati congelati i beni di individui e entità legate al regime di Bashar al-Assad, inclusi alti funzionari governativi e membri delle forze di sicurezza, sono stati imposti divieti di viaggio per i leader siriani e i loro sostenitori ed è stato disposto il divieto di investimenti e di fornire assistenza finanziaria al governo siriano.

Le sanzioni europee si sono aggiunte quelle volute dagli Stati Uniti che già nel 2004, attraverso il Syria Accountability and Lebanese Sovereignty Restoration Act – quindi molto prima della guerra civile – avevano imposto sanzioni alla Siria per il suo sostegno al terrorismo e l’occupazione del Libano.
Nel gli Stati Uniti hanno ampliato le sanzioni, includendo il congelamento dei beni di individui e entità legate al regime, il divieto di esportazione di tecnologia e servizi statunitensi verso la Siria e sanzioni contro il settore energetico siriano.

Nel 2019, il Caesar Syria Civilian Protection Act ha imposto sanzioni aggiuntive contro individui, entità e paesi che forniscono supporto al regime siriano, con l’obiettivo di proteggere i civili e promuovere la responsabilità per le violazioni dei diritti umani.

Anche il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha adottato diverse risoluzioni che imponevano sanzioni mirate, tra cui embargo sulle armi, congelamento dei beni e divieti di viaggio per individui e entità legate al regime.

Le sanzioni alla Corea del Nord sono state imposte dalla comunità internazionale, principalmente in risposta al programma nucleare e missilistico del paese, alle violazioni dei diritti umani e alle attività destabilizzanti nella regione. A più riprese, il Paese è stato colpito di sanzioni votate dalle Nazioni Unite: la Risoluzione 1718 (2006) imposta dopo il primo test nucleare nordcoreano, includeva un embargo sulle armi, il congelamento dei beni di individui e entità coinvolte nel programma nucleare, e restrizioni finanziarie; la Risoluzione 1874 (2009), rafforzata dopo un secondo test nucleare, includeva un divieto di esportazione di armi e un divieto di importazione di armi, ad eccezione di armi leggere; la Risoluzione 2087 (2013), imposta dopo il lancio di un missile balistico, includeva ulteriori restrizioni finanziarie e tecnologiche; la Risoluzione 2094 (2013), rafforzata dopo un terzo test nucleare, includeva sanzioni più severe sulle transazioni finanziarie e sul commercio di beni di lusso; la Risoluzione 2270 (2016), imposta dopo un quarto test nucleare, includeva un embargo completo sulle esportazioni di carbone, ferro e minerali, e restrizioni sul settore bancario; la Risoluzione 2321 (2016), Rafforzata dopo un quinto test nucleare, includeva limiti alle esportazioni di carbone e ulteriori restrizioni finanziarie; la Risoluzione 2371 (2017), imposta dopo un sesto test nucleare, includeva un divieto totale sulle esportazioni di carbone, ferro, piombo e frutti di mare; la Risoluzione 2375 (2017), rafforzata dopo un lancio di missile balistico, includeva limiti alle esportazioni di petrolio e ulteriori restrizioni finanziarie; la Risoluzione 2397 (2017), Imposta dopo un settimo test nucleare, includeva un divieto totale sulle esportazioni di petrolio e ulteriori restrizioni sulle importazioni di beni di lusso.

 Gli Stati Uniti hanno imposto sanzioni aggiuntive contro la Corea del Nord, tra cui il congelamento dei beni di individui e entità coinvolte nel programma nucleare e missilistico, il divieto di esportazione di tecnologia e servizi statunitensi verso la Corea del Nord, sanzioni contro il settore finanziario e bancario nordcoreano.

 L’Unione Europea, invece, ha imposto un embargo completo sulle armi verso la Corea del Nord oltre ad aver disposto il congelamento dei beni di individui e entità legate al regime nordcoreano, il divieto di investimenti e di fornire assistenza finanziaria al governo nordcoreano e il divieto di viaggio per i leader nordcoreani e i loro sostenitori.

Le sanzioni moderne si sono fatte, spesso, più mirate e “chirurgiche”, ovvero colpiscono individui, entità o settori specifici e nevralgici dell’economia del Paese che si vuole colpire (come il settore energetico o finanziario) anche se queste vengono declinate, praticamente, con i medesimi strumenti.



Presupposti politici: un Paese A impone sanzioni al Paese B per motivi politici quando c’è un forte attrito di natura politica tra le parti.
Tale tensione è spesso caratterizzata dall’incompatibilità ideologica tra due regimi in conflitto.

Presupposti militari: un Paese A impone sanzioni al Paese B per motivi militari quando il Paese B sta conducendo un’operazione militare condannata dal Paese A; le sanzioni, allora, cercano di ostacolare la capacità militare del Paese B prendendo di mira la sua logistica e organizzazione produttiva in modo da diminuire le possibilità di raggiungere gli obiettivi militari desiderati, oppure rendendo il loro conseguimento più costoso.
Un esempio di ciò sono le attuali sanzioni economiche che l’Occidente ha imposto alla Russia dopo l’inizio della sua cosiddetta operazione militare speciale
in Ucraina.

Sebbene le sanzioni economiche siano state utilizzate nel corso di tutto il secolo scorso, è dal crollo del muro di Berlino – momento che ha segnato convenzionalmente l’inizio del momento unipolare della Storia e della globalizzazione – l’utilizzo di tale strumento è aumentato esponenzialmente, in stretta relazione con l’apertura dell’economia mondiale. In particolare, come mostra il grafico sotto riportato, questo aumento nell’utilizzo delle sanzioni a fini politici e di politica internazionale è avvenuto in due ondate distinte successive: la prima ondata si registrò negli anni ’90, decennio che vide un aumento globale delle sanzioni del 59% rispetto al decennio precedente, mentre la seconda ondata ebbe luogo nel secondo decennio degli anni 2000 (2010 – 2020) quando si è registrato con un aumento del 73% rispetto al decennio degli anni 2000.

Si potrebbe dire che la prima ondata di sanzioni coincise con la fase ascendente della globalizzazione, quando, cioé, soprattutto l’Occidente a guida statunitense si era illuso che la Storia fosse finita e che la sua dialettica avesse definitivamente fatto trionfare la civiltà occidentale e la sua potenza egemone che si apprestava, così, a diventare civiltà globale e globalizzante e nella quale agli Stati Uniti era assegnato il compito di polizia mondiale. In questo periodo, la maggior parte di questa ondata di sanzioni colpì la Jugoslavia e l’Iraq.

Al contrario, la seconda ondata coincise con la fase discendente della globalizzazione, che oggi sembra, avviarsi verso la sua fine in favore della nascita di un mondo multipolare; (non a caso la maggioranza delle sanzioni del secondo decennio del 2000 ha colpito la Russia e la Cina).

L’efficacia delle sanzioni dipende da vari fattori tra i quali i legami commerciali e i rapporti diplomatici preesistenti e precedenti, la durata delle stesse, la dimensione delle economie, la salute economica e stabilità politica dei Paesi sanzionati, il costo per il Paese sottoposto a sanzioni e il grado di isolamento o di integrazione nel sistema internazionale del Paese da colpire.

Maggiore è la porzione di scambi commerciali che il Paese sanzionato ha con il Paese sanzionante relativamente alla quantità totale di scambi commerciali con il resto del mondo, maggiore sarà l’impatto delle sanzioni. Nella maggior parte dei casi di successo delle sanzioni economiche, il Paese sanzionante ha rappresentato quasi il 33% del commercio totale del Paese sanzionato.

Viceversa, se la quota di scambi commerciali che il Paese sanzionante ha nei confronti del Paese sanzionato è trascurabile, le sanzioni non avranno alcun effetto.

In generale, maggiore è la durata delle sanzioni, minore è la loro efficacia. Infatti, le sanzioni producono la loro massima efficacia nei momenti iniziali, mentre tendono a perdere la loro efficacia con il prolungarsi nel tempo poiché il Paese sanzionato riesce, solitamente, sul lungo periodo a trovare metodi efficaci per aggirare le sanzioni trovando nuovi fornitori o nuovi clienti per le sue merci o supporto esterno.

Di solito, migliori sono i rapporti tra il Paese sanzionante e il Paese sanzionato prima delle sanzioni, maggiore sarà l’efficacia di queste ultime. Infatti, se i rapporti prima delle sanzioni fossero già compromessi, è molto probabile che il Paese colpito avesse previsto azioni sanzionatorie e, conseguentemente, elaborato un piano per aggirarle o diminuirne l’impatto sulla propria economia. 

È stato, inoltre, osservato che è più probabile che i grandi Paesi utilizzino le sanzioni economiche come strumento di politica estera, ma il rapporto tra le grandezze delle economie del sanzionante e del sanzionato non sembra essere significativo per l’efficacia delle sanzioni. Si può comunque sostenere, in generale, che un Paese piccolo e povero di risorse naturali, e pertanto obbligato ad avere un’economia aperta, sia più vulnerabile alle sanzioni.

La salute economica e la stabilità politica del Paese sanzionato sono una variabile chiave, così come appare importante il costo delle sanzioni sostenuto da entrambe le parti, sia chi le impone sia chi le subisce: se le sanzioni sono più costose per il primo, allora non hanno senso.

Determinante è anche l’isolamento del Paese sanzionato: se si crea un “cordone sanitario” attorno al Paese colpito, attraverso il quale viene attuato un isolamento internazionale, diventa più difficile aggirare le sanzioni.

In breve, maggiore è il numero di Stati che aderiscono alle sanzioni, maggiormente queste sono efficaci.

Le sanzioni veramente funzionano? Il tasso di successo delle sanzioni è molto basso e le sanzioni imposte alla Federazione Russa per la condotta della guerra in Ucraina ne sono una conferma.

Secondo il saggio “Economic Sanctions Reconsidered” (2009), che utilizza una banca dati che prende in considerazione quasi 200 casi storici di sanzioni economiche, si attesta attorno al 20%. Inoltre, dato forse più importante, dopo gli anni ‘60 nessun tentativo di fermare una guerra attraverso le sanzioni economiche ha avuto successo. L’ultimo caso che vide misure economiche coercitive fermare con efficacia l’impegno bellico di un Paese infatti risale al 1963-65 quando gli Stati Uniti riuscirono a dissuadere la Repubblica Araba Unita dal continuare le sue operazioni belliche in Yemen e in Congo.

La dottrina oggi prescrive di usare le sanzioni non tanto come alternativa alla guerra, bensì nell’ambito di guerre di procura o come preludio alla guerra vera e propria. 

Se invece l’obiettivo delle sanzioni è solamente quello di inficiare l’operatività e l’efficacia dell’apparato bellico del Paese sanzionato, in questo caso la percentuale di successo è più alta, raggiungendo il 33% dei casi.

Quando le sanzioni si prefiggono lo scopo di causare un regime change, il tasso di successo si attesta al 34%. L’obiettivo di un regime change era molto frequente nel corso della guerra fredda nel contesto delle tensioni tra Mosca e Washington: più di un terzo dei casi di sanzioni durante l’era della Guerra Fredda, infatti, interessò tentativi di rovesciare i regimi alleati della potenza rivale.

Nel post-Guerra Fredda la maggior parte delle sanzioni inflitte allo scopo di provocare un regime change è stata imposta da Paesi democratici nel tentativo di esportare o ripristinare la democrazia nei Paesi sanzionati, per la maggioranza Paesi africani. Nel caso in cui le sanzioni abbiano l’obiettivo di indurre piccoli cambi di politiche adottate dai Paesi sanzionati, il tasso di successo è molto elevato, probabilmente perché il costo delle sanzioni per il Paese colpito è maggiore rispetto al vantaggio che l’adozione della politica controversa avrebbe portato.

Nel caso di sanzioni inflitte allo scopo di indurre un Paese a cambiare una linea politica molto rilevante (per esempio l’occupazione di un territorio), il tasso di successo è molto minore, attestandosi al 30%.

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