di Paolo Mathlouthi
Trascinato al cospetto degli agenti del NKVD e interrogato circa le sue presunte capacità di assumere sembianze animali, uno sciamano, arrestato dai solerti funzionari del servizio segreto sovietico in una sperduta località dell’estremo oriente siberiano nell’inverno del 1944, nega risolutamente di essere in possesso delle abilità che gli vengono attribuite e tuttavia, dinnanzi agli occhi sbigottiti del Giudice Istruttore, il suo corpo comincia improvvisamente a moltiplicarsi: nel volgere di qualche istante, l’omino apparentemente inoffensivo vestito di pelle di lupo è diventato legione e l’angusta sala degli interrogatori nel penitenziario di Kyzil, cittadina di frontiera lungo il confine tra Russia e Mongolia, pullula di suoi cloni.
In preda al terrore, il magistrato inquirente decide di sospendere l’interrogatorio e predispone affinché il prigioniero sia ricondotto in cella. Il secondino, con gran sferragliare di chiavi e serrature, si assicura che le sbarre siano ben chiuse. Ma al mattino la segreta viene trovata vuota: dell’enigmatico ospite rinchiusovi la sera prima non vi è più alcuna traccia. Se Vladimir Arsen’ev (1872 – 1930) avesse potuto ascoltare questo apologo dalla viva voce del suo meno illustre ma non meno talentuoso compatriota Vasilj Golovanov, che ce ne offre testimonianza scritta in una delle sue più evocative prose di viaggio, non è da escludere che si sarebbe offerto di testimoniare circa la veridicità dell’episodio narrato.
Geografo e militare di carriera dilaniato nel profondo da quell’inesausta dialettica tra Oriente ed Occidente che è l’essenza stessa del russkij mir, come il misterioso protagonista dello splendido romanzo di Antoinette Peské e Pierre Marty “Qui il sentiero si perde”, che si rivelerà poi essere nientemeno che lo Zar Alessandro I celato sotto mentite spoglie, Arsen’ev sceglie di voltare le spalle a Mosca, a San Pietroburgo, alla parte europea del suo grande Paese scosso dai sussulti tellurici della Rivoluzione d’Ottobre, e s’inoltra nelle insondabili vastità della Siberia, regione che si estende ad Est degli Urali fino alle sponde del Pacifico, senza più guardarsi indietro. Ammaliato dalla laconica semplicità del mondo primordiale che gli si para dinnanzi, dove la presenza umana è cosa rara e incontrastata domina una Natura che è insieme madre e matrigna, l’esploratore russo vi s’immerge a più riprese nell’arco di vent’anni, tra il 1906 e il 1927, affidando le proprie impressioni ad una serie di diari l’ultimo dei quali, “Attraverso la taiga”, viene ora dato alle stampe nella prima traduzione italiana dalla casa editrice milanese Aspis, in una bella edizione impreziosita dai contributi critici di due slavisti di chiara fama come Filippo Boscolo Gioachina e Aldo Ferrari.
Addentrandosi in quello che in tutta evidenza gli appare come un Paradiso perduto, lo scrittore russo scopre un’umanità primitiva, essenziale, fedele alla terra e alla legge del sangue, della quale si rende conto con rammarico di non riuscire a penetrare intimamente il profondo, palpitante mistero. Uomini come Dersu Uzala, immortalato dalla penna di Arsen’ev e reso celebre dal regista giapponese Akira Kurosawa, sono indifferenti allo spirito del tempo e alla burocratica ostinazione della Civiltà. Figli superstiti dell’alba del mondo, intrattengono con una sterminata coorte di divinità zoomorfe un dialogo costante intessuto di formule magiche e preghiere propiziatorie, secondo i dettami di un alfabeto senza memoria che è allo stesso tempo antidoto alla paura e chiave d’accesso all’invisibile. I balenieri coriachi e i cacciatori tungusi, con i loro tratti severi cesellati dalle intemperie, appartengono ad un’epoca troppo distante, troppo diversa, perché gli occidentali, afflitti dal disincanto, possano comprenderli davvero. E’ curioso constatare, per inciso, come le atmosfere evocate Vladimir Arsen’ev in questo suo diario trovino numerosi punti di contatto con le descrizioni affidate alla pagina scritta da un altro virtuoso giramondo di casa nostra innamorato della Russia, Luigi Barzini, che nel resoconto del suo periglioso viaggio attraverso la Siberia di ritorno dal Giappone, compiuto nel 1908, così descrive la taiga: “Una folla d’alberi ha un’anima, come una folla di uomini. La foresta vive di qualcosa di più della semplice vegetazione. Chi attraversa un bosco sente intorno a sé il mistero di questa vita incomprensibile; prova l’impressione di non essere più solo. Abbiamo la percezione istintiva di questa vita favolosa che ci fa restare trepidanti ad ogni stormir di foglie e ad ogni sospiro del vento tra i rami, quasi aspettandoci di vedere, senza troppa meraviglia, le piante muoversi e agire. E’ così vero che gli uomini hanno sentito il bisogno d’immaginare degli spiriti abitatori dei boschi; spiriti buoni e spiriti cattivi, fate e streghe, ninfe e gnomi”. Non ci è dato sapere se i due esploratori abbiano avuto modo d’incrociare i propri passi nel corso delle loro peregrinazioni eurasiatiche. Nondimeno sembrano essere legati nel profondo da un idem sentire, convinti come sono che a tenerci sotto scacco, scavando tra noi e i nomadi abitatori della taiga un solco diventato incolmabile nel corso dei secoli, siano in definitiva la nostra pervicace ostinazione a voler determinare il corso degli eventi, il dinamismo luciferino che ci consuma regalandoci notti insonni, l’illusione di poter dispiegare la volontà nel divenire storico per conciliare gli opposti, sublimandoli in una palingenesi immanente che possa fare a meno di Dio. La stessa che ha alimentato la forza divorante dell’Ottobre Rosso. Come gli astrologi di Rodolfo II sapientemente evocati da Max Brod in un suo celebre romanzo da poco ripubblicato, invece di sottometterci ai verdetti del Cielo, seguendo l’esempio dei nobili vagabondi siberiani immortalati in queste pagine, preferiamo appoggiare scale al firmamento per afferrare gli astri e misurarne la traiettoria, salvo constatare che essi seguono spesso percorsi diversi da quelli auspicati. Viviamo cioè costantemente in bilico tra il desiderio, sempre inappagato, di poter recuperare l’innocenza perduta, ricomponendo la frattura tra individuo e realtà della quale siamo stati i principali artefici e la convinzione che ci sia concesso il raro privilegio di forzare la mano al Destino, interpretandone i segni a nostro esclusivo vantaggio: l’anelito all’azione che segretamente ci sprona e ci corrode si rivela vano al cospetto delle leggi della Necessità e tuttavia è impossibile per noi reprimerne l’impulso, resistere alla sua trascinante forza di seduzione. Questa insanabile dicotomia è il nostro cuore di tenebra, in essa risiede l’essenza stessa dell’Occidente, il nodo di Gordio dell’anima faustiana che ciclicamente riaffiora e mai trova soluzione.
IL LIBRO
Vladimir Arsen’ev, Attraverso la taiga, Aspis Edizioni, Milano 2024; pag. 231 € 22,00
Citazione del retro: “Un tempo, molto tempo fa, nell’alto corso del fiume Kopi vivevano un uomo di nome Kangėj e due donne, Atyniga e Omoko. Vissero a lungo, per diverse centinaia di anni, invecchiarono e si pietrificarono. Per molti secoli rimasero in perfetta armonia, ma un giorno litigarono su chi di loro fosse il padrone delle montagne locali. La loro controversia si trasformò in un litigio e in una terribile lotta, a causa della quale tremarono le colline e gemette la taiga. Kangėj ne uscì vittorioso e mantenne il suo posto. Una vecchia, Atyniga, scappò e si stabilì sulla riva destra del Kopi, tra i fiumi Byapali e Tepty, mentre l’altra, insieme alla sua famiglia, si trasferì sulla riva sinistra del fiume, vicino alla foce dello Ioli, e divenne nota come Omoko Mamača. Da allora, gli oroci, udege e i gol’d, quando passano davanti alle rocce, si fermano e vi depongono le loro offerte: brandelli di stoffa, pezzi di zucchero, foglie di tabacco, o versano qualche goccia di vodka e chiedono un buon esito della caccia e una felice conclusione del loro viaggio. Questa usanza viene osservata ancora oggi”.
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