Il futuro delle relazioni internazionali dopo l’elezione di Donald Trump | Intervista al gen. Maurizio Boni

Start

A cura di Matteo Pistilli

Dopo il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, il Centro Studi Eurasia e Mediterraneo ha chiesto a tre generali dell’esercito italiano la loro opinione sul futuro delle relazione internazionali dopo il risultato delle elezioni presidenziali statunitensi.

Il dibattito sul futuro delle relazioni internazionali dopo l’elezione di Trump è in pieno svolgimento con uno spettro che inizia dal cambiamento epocale e finisce con la totale coincidenza con l’attuale sistemazione. Che visione geopolitica porta Trump? E che conseguenze avrà secondo Lei?

Gli elementi di valutazione possono oggi basarsi sulle azioni dell’amministrazione nel precedente mandato Trump e sulle dichiarazioni fatte durante la campagna elettorale. In generale in molti concordano sull’imprevedibilità del futuro Presidente, che non ha una tradizione o un background politico consolidato ed è quindi molto guidato da una sorta di improvvisazione. 
 
 Le affermazioni che esprime indicano sempre la volontà di mettere gli interessi degli Stati Uniti prima di ogni altra cosa, bisogna però intendersi su come questi interessi andranno a influire sulle varie questioni oggi aperte.

Per ora sappiamo che manifesta ostilità verso l’Europa, in alcune dichiarazioni ci paragona ai cinesi in termini di competizione strategica ed è abbastanza ostile riguardo alcune organizzazioni internazionali, come UN, NATO e UE. Certamente potremmo assistere ad un aumento della considerazione dei rapporti bilaterali con i singoli stati.

Il confronto strategico con la Cina nei vari scenari e per il momento innestato su una guerra di tipo commerciale e per ora costituisce la priorità e il focus principale. La nomina di Marco Rubio a segretario di Stato è molto eloquente. Rubio è stato già sanzionato dal governo di Xi Jingping in risposta alle sanzioni Usa alla governatrice di Hong Kong Carrie Lam. La sua nomina è un segnale evidente di un seguito alla precedente politica anticinese.

Relativamente alla Russia è noto che Trump e Putin si siano parlati e che Donald rispetti molto l’interlocutore russo; notoriamente lo statunitense ha sempre affermato di voler porre fine alla guerra in Ucraina. Le proposte di cui si parla in questi giorni, le definirei più di armistizio che di un piano di pace che invece dovrebbe essere di maggior respiro. Ciò non toglie che nella Strategia per la Difesa Nazionale del 2018 Trump abbia inserito la Russia come rivale strategico, ora bisognerà capire se ciò rimane come normale dichiarazione di carattere generale o avrà delle conseguenze maggiori. Quello che manca oggi, per un’analisi più compiuta, è il punto di vista russo e degli altri interlocutori inclusa Cina; sono tutti alla finestra in attesa di capire le mosse della nuova amministrazione e decifrarne appunto l’imprevedibilità.

C’è da sottolineare che Trump ha sempre manifestato scarso interesse per l’Africa, direi in continuità con i predecessori, della quale si sono solo messe in risalto soltanto le potenzialità economiche; la strategia per l’Africa del novembre 2018 (quindi amministrazione Trump) parla di prosperità, sicurezza, stabilità che evidentemente non sono concetti innovativi e rimangono nell’ottica del commercio e dei possibili benefici per entrambi.

Sarà interessante capire come e in quale misura Trump influenzerà i processi africani: gli Stati Uniti hanno a Stoccarda l’Africom, U. S. Africa Command, nato nel 2007 con l’intenzione di bilanciare nell’area l’influenza a quel tempo soprattutto cinese ma oggi anche russa. L’Africom è un braccio militare ma con forte componente civile e questa è una novità assoluta; i nord americani si erano resi conto (non sotto l’amministrazione Trump) della necessità di dotarsi di una forte componente civile, diplomatica, di expertise non militare, per adottare un approccio olistico onnicomprensivo. Questo costituisce una novità assoluta nell’ambito dei Combatant Command perché è l’unico a essere contraddistinto da questa componente mista. Ha già preso varie azioni di concerto con l’Unione Africana per sostenere la politica americana nel continente. Negli ultimi sviluppi tale strategia si è affievolita. Bisognerà quindi analizzare come l’amministrazione reagirà al fatto che i russi sono in Libia già dal 2019, dal primo Trump. Inoltre, sarà interessante capire come organizzeranno priorità e risorse che non sono infinite nemmeno per gli Usa.

Nello specifico vorremmo soffermarci sugli attuali quadranti di crisi. Come influenzerà la guerra in Ucraina questa elezione?

Nello scenario ucraino attualmente le iniziative sono pubbliche, la squadra di Trump sta mettendo a punto la comunicazione strategica dalla quale fuoriesce la proposta di negoziati con i russi (a prescindere dal pensiero russo, ribadisco, ancora non espresso), proposta di armistizio che comporta una situazione molto difficile da affrontare per noi europei. In base a quanto espresso gli americani si tirerebbero fuori dalla possibilità di garantire la fascia di sicurezza, non volendo schierare loro forze. Di certo parteciperanno alla ricostruzione del territorio ucraino, a ovest di un determinato allineamento dove probabilmente il conflitto si fermerà, dico probabilmente perché bisognerà capire dove arriveranno i russi o dove hanno intenzione di arrivare avendo attualmente un grande vantaggio; evidentemente gli obiettivi russi comprendono Dnipro nel Donbass, a nord riprendere Karkiv e a sud riprendere Zaporizzja, quindi assicurando una fascia sicurezza alla Crimea. Questi sono obiettivi operativi militari, bisogna capire quando inizieranno i possibili negoziati per il congelamento del conflitto quanto territorio saranno stati capaci di acquisire i russi.

Anche perché le forze ucraine sono molto deboli in questo momento, stanno cedendo terreno ritirandosi praticamente senza combattere e senza avere tempo per riorganizzare linee difensive. Nel mese scorso ci sono state le più significative avanzate russe dal 2022. Zelensky sorprendentemente sta mandando i reparti più preparati a Kursk, che pare essere diventata più una questione personale perché questa scelta militarmente non ha senso. I russi riprenderanno la zona anche a prescindere della Corea del Nord, intervento amplificato dei quali i russi non hanno bisogno. Non pare razionale il motivo per cui Zelensky faccia dissanguare il proprio esercito a Kursk invece di frenare i russi in Donbass e questo dubbio si è sviluppato anche fra gli ucraini, soprattutto in ambienti militari critici verso il governo. Tali scelte probabilmente saranno pagate da Zelensky nel prossimo futuro.

Per noi europei sarà difficile sostituire gli americani, la soluzione non è particolarmente efficace fra l’altro anche perché i membri del team di Trump indicando questa volontà di lasciare agli europei il controllo, citano polacchi, tedeschi, francesi, inglesi non casualmente i più intransigenti a cercare una soluzione della storia contro i russi a tutti i costi. Da notare che secondo il Council of Foreign Relations il 69% dei polacchi sono contrari al coinvolgimento di proprie truppe in Ucraina, sia diretto che come peacekeeping. Quindi sarà difficile che i polacchi si facciano coinvolgere. Cedere la sicurezza in mano a quei paesi artefici della guerra a oltranza contro la Russia, non è evidentemente un approccio imparziale. E’ una situazione che è avvenuta anche con gli accordi di Minsk, usati per prendere tempo e preparare l’esercito ucraino allo scontro militare contro Mosca. Se si parla di una soluzione coreana le garanzie di sicurezza non possono che essere per tutti e due i contendenti, dal punto di vista russo, ma anche italiano, una soluzione durevole passa obbligatoriamente per forze di contrapposizione credibili. Per garantire neutralità come mediatore vedo bene il ruolo dell’India, che ha rapporti buoni con Russia, Usa e altre forze occidentali così come altri paesi dei Brics (e la Turchia), sempre attendendo le condizioni che può imporre la Russia. In definitiva non può essere un discorso esclusivamente europeo, con una classe politica del vecchio continente che fra l’altro continua imperterrita a parlare di “vittoria ucraina sulla Russia”; la stessa Kaja Kalla, Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri ha affermato che la guerra finirà con la vittoria dell’ucraina: se queste sono le premesse c’è molto da discutere sull’”armistizio”.

Che conseguenze avrà nella guerra in Palestina, Libano e Vicino Oriente?

Nel quadrante palestinese la questione è relativamente più semplice, Netanyahu considera Trump il “migliore amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca”, lo stesso Rubio ha definito Hamas l’unico responsabile di tutto quello che sta accadendo è quindi lo stesso atteggiamento di Trump nei confronti del premier israeliano a far capire che questo avrà carta bianca. C’è qui un’opportunità per gli Stati Uniti di usare Tel Aviv per tornare a essere una potenza importante in Medio Oriente, lasciato nelle mani dei russi dopo l’Iraq. Tramite Israele gli Usa provano a porre le mani anche sull’Iran, dopo che gli accordi di Abramo avevano già avvicinato l’asse sunnita alla potenza sionista. In questo contesto è necessario chiedersi cosa faranno Iran e Russia? E’ interessante notare come in un articolo pubblicato sul Newsweek il 2 novembre  si metta in risalto il possibile ruolo che la Russia stessa potrebbe avere nel conflitto mediorientale, ruolo che gli stessi israeliani potrebbero ricercare, secondo il parere di una ex consulente della sicurezza nazionale israeliana, perché Mosca a differenza di Washington riesce a parlare con tutte le parti in causa anche con Hamas (tramite l’Egitto), Hezbollah (tramite l’Iran), Houthi e Israele. Questo capitale di influenza della Russia è condiviso con l’Iran, i quali sono stati protagonisti anche durante la crisi siriana, Siria dalla quale più volte è stato annunciato il completo e totale ritiro Usa (sono presenti al nord), che però ancora non avviene proprio per il confronto strategico con Teheran.

Che effetti avrà sulla situazione di Taiwan?

Ci sono molte dichiarazioni in cui Trump, che con il suo solito stile, si riferisce agli Usa come la miglior assicurazione per Taiwan, che a sua volta dovrebbe pagare per questa assicurazione. Taiwan dovrebbe spendere almeno il 10% del PIL per la difesa, perché un attacco cinese è inevitabile; queste sono affermazioni di facciata, più comunicazione strategica che legate a prassi politica. Ma come interpreta la Cina questo discorso? C’è un grande dispiegamento di forze cinesi, un gran manifestarsi di muscoli, ma Pechino è molto cauta su questo argomento, potrebbe mirare a un assorbimento graduale per convincimento sul lungo termine. I cinesi hanno un’altra cognizione del tempo rispetto a noi, probabilmente non sono interessati a un confronto militare di quel tipo; potrebbero essere in grado di prendere Taiwan in 24 ore e nessuno se ne accorgerebbe, per quanto sarebbe immediato e fulmineo, ma probabilmente guardano con attenzione il conflitto ucraino dove i russi pensavano di chiudere la partita entro una settimana e invece sono ancora impantanati. Quindi da qui a parlare di guerra lampo, ce ne passa, probabilmente aspettano che maturino determinate condizioni, è quindi da chiedersi fino a che punto agli Usa interessa provocare l’intervento cinese. Il tempo gioca a favore della Cina, la letteratura specializzata americana mette in risalto gap capacitivi che hanno gli Stati Uniti in termini di capacità militari per un confronto con la Cina, essendo questo un teatro operativo del tutto diverso da quello continentale, con capacità dinamiche del tutto diverse. Inoltre, è assolutamente da prendere in considerazione che Taiwan è il primo produttore mondiale di componentistica e microchip: alla prima avvisaglia di invasione da parte della Cina, Taiwan bloccherebbe tutto. E’ un’industria, quella dei microchip, costosa e bisognosa di tempi lunghi. Lo sanno bene i cinesi (tutta la componentistica viene da lì) così come gli occidentali.

Infine, una necessaria domanda sulle conseguenze nel nostro Paese. Trump alla presidenza (con la sua squadra del quale fa la parte del leone Musk) avrà ripercussioni sulle politiche della nostra difesa, sul nostro ruolo (e quello della UE) nel continente?

La nostra politica di difesa nazionale ed europea è tutta rivolta al confronto strategico con la Russia. Quindi sarà un’agenda non europea, almeno fino al 20 gennaio (quando scadrà il mandato di Biden); l’attuale sovrapposizione fra la postura strategica Usa e dell’Unione è unica nella storia di quest’ultima. Fino a dopo l’annessione della Crimea (2014) e di parte del Donbass (2015) l’Unione Europea cercava di sviluppare una propria agenda soprattutto nel campo della politica di sicurezza.

Dopo l’avvio dell’operazione speciale, c’è stata invece una sovrapposizione dell’agenda e del linguaggio: Borrell dice le stesse cose del segretario della Nato riguardo il colpire la Russia con armi a lungo raggio. Prima di questo l’Europa aveva un potenziale negoziale di alternativa non militare alla Nato, la difesa era complementare (anche se non è mai stato sviluppato in maniera chiara) ma c’era questo dualismo fra la potenzialità dell’Europa (componente non militare) e quella della Nato (sbilanciata sulla componente militare e priva di quella civile). Ora invece la sovrapposizione è totale, sul linguaggio, linee guida, temi, sviluppo industriale di difesa, tutto finalizzato al confronto/scontro strategico.

A mio avviso questo deve cambiare, non vorrei passasse a noi europei il testimone di sostenere il confronto strategico militare con la Cina. Per l’Europa non avrebbe senso, bisognerebbe invece sostenere la vocazione economico commerciale dei rapporti con Pechino, come europei e come italiani. La nuova leadership europea è assolutamente focalizzata su questo confronto con la Russia, ma se Trump lo facesse cadere, può o deve l’Europa andare in solitaria a sostenere il confronto, quando da un punto di vista industriale non abbiamo neanche un centesimo di quelle possibilità? Bisogna ri-orientare l’agenda, soprattutto tenendo presente che siamo nel Mediterraneo. Bisogna riportare il discorso su questo mare, dove esistono visioni contrastanti fra i Paesi che possono esserne possibile guida: Spagna, Francia, Turchia, Grecia, sono almeno cinque le visioni differenti su come affrontare i problemi. La Turchia, che è in Libia con i russi, quindi è forse la potenza più forte del Mediterraneo in questo momento. Quindi c’è bisogno di una prospettiva più completa, capacità di analisi, di valutazioni che non sono scontate e che bisogna ricercare, creare: il messaggio di fondo è che bisogna dotarsi di capacità intellettuali e concettuali per capire cosa succede intorno a noi e studiare tanto. Gli Usa faranno sempre i loro interessi, noi dobbiamo capire come valutare questi trend e prendere quello che più ci fa comodo sviluppando una nostra visione, avendo tutte le carte per giocare una partita importante di questo tipo.

Iscriviti alla nostra Newsletter
Enter your email to receive a weekly round-up of our best posts. Learn more!
icon

Progetto di Ricerca CeSE-M

Dispacci Geopolitici

MATERIALI CORSO ANALISTA GEOPOLITICO 2023

Il CeSE-M sui social

Naviga il sito

Tirocini Universitari

Partnership

Leggi anche