di Paolo Mathlouthi
Nemo propheta in patria. Questa antica locuzione latina definisce con precisione l’atteggiamento di diffidenza che la cultura e l’editoria di casa nostra hanno mostrato per buona parte del Novecento nei confronti di Curzio Malaparte (1898 – 1957).
Sulla sua memoria e sulla ricezione della sua opera nel dopoguerra hanno pesato, quasi come una campana a morto, le parole di Pietro Gobetti che, in aspra polemica con lui, sulle pagine di “Rivoluzione liberale” lo apostrofa come “la migliore penna del Fascismo”, sebbene lo scrittore pratese abbia sempre manifestato nei confronti del regime mussoliniano, che pure lo ha colmato di regali favori chiamandolo a dirigere il quotidiano torinese “La Stampa” a soli trent’anni, un atteggiamento di esibita autonomia, tanto da meritarsi l’espulsione dal Partito e la condanna al confino nel 1933 in seguito alla pubblicazione di quel “Don Camaleo” in cui tratteggia con caustica ferocia un’immagine ironica dello stesso Mussolini il quale, per parte sua, non nasconde di apprezzare la schietta franchezza di questo enfant prodige che si è coperto di gloria sui campi di battaglia nei ranghi della Legione Straniera. Lo stile ruvido ed irriguardoso del maledetto toscano, agli occhi dell’uomo di Predappio, è infatti di gran lunga preferibile alle vile quiescenza dei troppi leccapiedi che lo circondano.
Nondimeno il pregiudizio nei confronti di Malaparte permane invariato e anzi si radicalizza dopo il 1945. Le ragioni di questa coriacea inimicizia da parte dell’editoria italiana vanno ricercate, a mio parere, nell’impossibilità di collocare lo scrittore entro gli angusti confini dell’orizzonte culturale e simbolico emerso dalle macerie dell’ultimo conflitto mondiale. Nel saggio “Tecnica del colpo di Stato”, apparso in prima edizione a Parigi nel 1931 e poi ripubblicato presso Vallecchi solo nel 1948, Malaparte dimostra come la Democrazia liberale, nata dai Lumi e basata sul contratto sociale, non abbia retto alla prova del fuoco della Grande Guerra. Dall’oscurità magmatica delle trincee è emerso un tipo umano nuovo, freddo, spietato, che ha elevato la lotta a norma di vita contro le illusioni del mondo borghese. “L’errore delle Democrazie – scrive – “è l’eccessiva fiducia nelle conquiste della libertà, di cui niente è più fragile nell’Europa moderna. Non vi è che un modo per salvare la Rivoluzione: rinunciare alla libertà”. Soldati d’élite e rivoluzionari di professione, commissari del popolo e arditi, Hitler e Trockij, appartengono per lui alla medesima schiera, affratellati nel nome della “mobilitazione totale” evocata negli stessi anni da Ernst Junger.
Un approccio, quello malapartiano, che oggi definiremmo nazionalbolscevico o rossobruno, indisponibile ad adagiarsi sugli ozi capuani di un’Italia che, leggendo Giovanni Guareschi, si culla nell’illusione di una ritrovata quanto chimerica pacificazione nazionale nel segno del piccolo mondo antico. Per fortuna il tempo è galantuomo e grazie a Roberto Calasso, che all’inizio del nuovo millennio ha inaugurato con “Kaputt” la meritoria impresa di ripubblicare le principali opere dello scrittore toscano, Curzio Malaparte è tornato ad occupare il centro della scena culturale italiana ma soprattutto europea, come dimostrano la splendida biografia dedicatagli da Maurizio Serra, uscita in Francia presso Grasset nel 2011 e coronata dal Premio Goncourt, nonché il convegno internazionale dal titolo “Malaparte e la Russia”, organizzato nel novembre del 2021 dalla Fondazione Biblioteca di via Senato, del quale in questi giorni la casa editrice milanese Luni ha raccolto in volume gli Atti, in una bella edizione a cura di Carla Maria Giacobbe e Federico Oneta.
Quello dello scrittore pratese per la patria dei Soviet è un amore di antica data, che risale ai tempi del suo primo viaggio a Mosca, nel 1929. Nei “corsivi cosacchi” redatti in quella occasione per il quotidiano da lui stesso diretto e poi confluiti nel saggio “Intelligenza di Lenin”, Malaparte non fa mistero alcuno della profonda ammirazione che nutre per quel popolo enigmatico che con la Rivoluzione ha fatto il proprio ingresso nella Modernità e anzi si ripromette di tornare in Russia quanto prima per approfondire quegli aspetti della shirokaya dushà, l’immensa anima russa, sui quali, complice la brevità del primo soggiorno, non ha avuto modo di soffermarsi. Sarà la guerra ad offrirgli questa opportunità. Nel 1942 il Generale Eduard Dietl, leggendario vincitore di Narvik e suo buon amico, lo chiama presso di sé come corrispondente dall’estero per conto del “Corriere della Sera” a Petsamo, in Carelia, dove i Tedeschi hanno costituito una testa di ponte in vista dell’assedio di Leningrado.
A dieci chilometri dal circolo polare artico, nella desolata vastità lunare della taiga attanagliata dal ghiaccio dell’inverno siberiano, Malaparte assiste in prima persona al titanico scontro tra i due grandi totalitarismi del Novecento, costretti a fronteggiarsi e divorarsi a vicenda perché diversamente uguali. Un amletico, tormentoso quesito fa da motivo conduttore delle corrispondenze redatte sul fronte dell’Est: chi vincerà in questa ferale partita a scacchi tra giganti? Malaparte non ha dubbi: il suo cuore batte senza riserve per i Russi. La superiorità del modello sovietico emerge nitidamente in queste pagine, raccolte in volume a formare “Il Volga nasce in Europa” e date alle stampe presso Bompiani nel 1943, forse le più audaci che lo scrittore abbia mai pubblicato durante il Fascismo, tanto che le copie della prima edizione saranno sequestrate dalla polizia politica di Salò e il libro dovrà attendere il dopoguerra per vedere nuovamente la luce, dapprima in Francia nel 1948 e poi in Italia nel 1951. Malaparte scorge nella poderosa macchina da guerra bolscevica i segni di una dedizione totale, assoluta, alla Causa, che poco o nulla ha a che spartire con la tradizione democratica del Socialismo riformista occidentale, il quale ha abdicato alla Rivoluzione preferendo il quieto alternarsi delle dinamiche parlamentari, né tantomeno con i Fascismi europei, minati alla radice dalla miopia sciovinista di un pregiudizio antislavo che in un’ottica come quella di Malaparte, paneuropea ed eurasiatica ante litteram, non ha ragion d’essere.
“L’esemplare umano forgiato dalla Rivoluzione,” – scrive – “la macchina uomo creata da circa vent’anni d’intransigenza leninista, ha sempre suscitato in me un grande interesse. Mi ha colpito la sua violenza, la sua astrattezza, la sua totale indifferenza al dolore e alla morte. Il destino del popolo russo e della Civiltà europea si decidono qui”. Ecco allora che il difensore di Stalingrado diventa l’incarnazione stessa dell’Arbeiter jungeriano, molto più dell’uomo nuovo vagheggiato dalle dottrine eugenetiche del Terzo Reich: è lui infatti che porta all’estremo limite l’idea della vita intesa come mobilitazione permanente. Se le SS sono per Malaparte “Nibelunghi armati di razzi”, votate inevitabilmente alla sconfitta in ragione di quella religio Mortis nella quale si riverbera l’anima tragica dei Tedeschi, i Russi vinceranno perché sorretti da una doppia fede, nel passato e nell’avvenire. Scrive ancora Malaparte: “Bisogna ricordare questa verità alla vigilia della grande lotta che potrebbe concludersi con il crollo della Russia sovietica. Molti si abbandonano al pregiudizio semplicistico che la guerra contro l’Unione Sovietica, quella di ieri come quella di domani, sia semplicemente una lotta dell’Europa contro l’Asia, contro ideologie asiatiche. E’ invece contro ideologie europee che la Germania ha combattuto ieri la sua guerra contro l’URSS; ed è contro ideologie europee che l’America combatterà domani, nella sua guerra inevitabile contro l’altra Europa”. La Russia è per Malaparte il cuore pulsante del nostro mondo: agire contro la Russia significa in definitiva agire contro noi stessi. Parole profetiche che sembrano preannunciare, con sconcertante lungimiranza, l’essenza più autentica del conflitto attualmente in corso.
Carla Maria Giacobbe – Federico Oneta (a cura di), Malaparte e la Russia, Luni Editrice, Milano 2024; pag. 352 € 25,00.
Volume pubblicato in collaborazione con Fondazione Biblioteca di via Senato
Il rapporto tra Curzio Malaparte e la Russia, in termini storici, ideologici e letterari, rappresenta un campo d’indagine vasto e incredibilmente composito. Non solo se inteso come termine altro di un rapporto con l’Europa e le culture e ideologie europee, ma nella stessa specificità dell’esperienza malapartiana come viaggiatore nell’Urss del 1929 e del 1956/57, della sua interpretazione di quel mondo post-Rivoluzione d’ottobre, e dell’interpretazione che l’Unione Sovietica prima e la Russia poi hanno reso di Malaparte, autore e personaggio.
Il CeSE-M sui social