di Giulio Chinappi
Dopo aver perso influenza in Africa occidentale, la Francia deve affrontare la questione della Nuova Caledonia, collettività d’oltremare nel Pacifico. Qui emergono movimenti per l’indipendenza o maggiore autonomia, tra tensioni storiche e interessi economici strategici.
Dopo aver perso gran parte della sua influenza in Africa Occidentale, in seguito ai colpi di Stato anti-occidentali che hanno avuto luogo in Mali, Burkina Faso e Niger, la Francia si trova ora a dover affrontare la questione della Nuova Caledonia, collettività d’oltremare situata nell’Oceano Pacifico, che a sua volta rappresenta un retaggio dell’epoca coloniale, dove di recente sono emersi nuovi moti che rivendicano l’indipendenza – o quanto meno una maggiore autonomia – per la popolazione locale.
A lungo contesa tra britannici e francesi, l’isola della Nuova Caledonia entrò ufficialmente a far parte dell’impero coloniale di Parigi nel 1853, venendo poi trasformata in colonia penale dal 1864 al 1904. Nonostante alcuni timidi moti per l’indipendenza, è solamente dal 1985, con l’attività politica del Front de Libération Nationale Kanak Socialiste (FLNKS), che la rivendicazione dell’indipendenza ha assunto un ruolo cruciale nella politica dell’isola principale e delle altre isole minori che si trovano sotto la sua amministrazione (l’arcipelago delle Isole della Lealtà – Maré, Lifou, Ouvéa, Tiga, Mouli e Faiava – e l’Isola dei Pini).
Sotto la guida del leader Jean-Marie Tjibaou, morto assassinato nel 1989, il FLNKS ha formulato la proposta dell’indipendenza della Nuova Caledonia con l’assunzione del nome di Kanaky, che secondo i suoi sostenitori sarebbe la denominazione originariamente data dalla popolazione autoctona, chiamata in francese “kanake“. Nel frattempo, preoccupata per il mantenimento della propria sovranità sulla Nuova Caledonia, fondamentale soprattutto per la produzione di nichel (qui si trova il 25% delle risorse mondiali), la Francia ha concesso un’ampia autonomia a questo territorio, stipulando gli Accordi di Matignon nel 1988 e l’Accordo di Nouméa nel 1998.
Proprio quest’ultimo prevedeva lo svolgimento di un massimo di tre referendum per l’indipendenza della Nuova Caledonia, che hanno avuto luogo nel 2018, nel 2020 e nel 2021. Il primo referendum per l’autodeterminazione vide una partecipazione abbastanza importante (80.63% di affluenza alle urne), pari a quasi 139.000 elettori sui 175.000 aventi diritto, ma il 56.67% si espresse contro la soluzione indipendentista; la seconda consultazione ha fatto registrare una partecipazione ancora più elevata rispetto a quella del 2018 (85.69% di affluenza alle urne), ma, anche in questo caso, i contrari (noti anche con la denominazione di lealisti) hanno ottenuto la maggioranza dei voti (53.26%), confermando lo status quo.
Si è così arrivati al terzo ed ultimo referendum: al contrario delle due consultazioni precedenti, però, questa volta le forze indipendentiste dell’isola hanno deciso di boicottare il referendum, portando la partecipazione solamente al 43,87% degli aventi diritto, comunque decisamente superiore al quorum del 25%, necessario per considerare valido il risultato. Senza sorpresa, il 96,50% dei votanti si è espresso contro l’indipendenza, verdetto che dal punto di vista dell’Accordo di Nouméa avrebbe dovuto chiudere per sempre la disputa.
Già in occasione del terzo referendum, alcuni analisti avevano sottolineato il risultato discusso e le forti tensioni interetniche avrebbero potuto esacerbare la situazione a danno della comunità indigena più povera, il che potrebbe anche portare al risorgere di attentati e violenze come nel corso degli anni ‘80. Il FLNKS, infatti, aveva definito l’insistenza del governo per portare avanti il referendum contro il parere del movimento indipendentista “una dichiarazione di guerra”, ed ha minacciato di non riconoscerne e di appellarsi alle Nazioni Unite per la sua cancellazione.
La Francia, dal canto suo, teme fortemente di perdere la Nuova Caledonia non solo per le riserve di nichel dell’isola e per i diritti allo sfruttamento delle acque dell’Oceano Pacifico che derivano dalla sovranità su questo territorio, ma anche perché un evento di questo tipo assesterebbe un nuovo duro colpo al neocolonialismo francese, ed una Nuova Caledonia indipendente potrebbe entrare nell’orbita della politica cinese per la regione Asia-Pacifico, che di recente ha fatto grandi passi in avanti tra gli arcipelaghi dell’Oceania.
Come detto in apertura dell’articolo, la perdita di influenza su una parte del continente africano ha rappresentato un vero e proprio shock per Parigi, che ora punta ad aumentare la propria presenza nell’Oceano Pacifico, dove, oltre alla Nuova Caledonia, controlla anche i territori della Polinesia Francese e di Wallis-et-Futuna. Nel settembre dello scorso anno, infatti, il capo di stato maggiore dell’Aeronautica e dello Spazio, il generale Stéphane Mille, aveva affermato che la Francia ridurrà il numero del suo contingente militare in Africa (espulso da Mali, Burkina Faso e Niger), ma aumenterà la sua presenza nella regione Asia-Pacifico. Mille ha aggiunto che i grandi aerei da trasporto e le basi aeree in Polinesia Francese e Nuova Caledonia giocheranno un ruolo chiave nella strategia del Pacifico che Parigi sta attualmente sviluppando, sottolineando dunque la posizione geostrategica importante della Nuova Caledonia.
Indubbiamente, la crisi in Nuova Caledonia rappresenta il risultato di sforzi di decolonizzazione incompleti e dimostra l’inadeguatezza delle politiche applicate da Parigi in questo territorio, dove la popolazione locale gode di una posizione economica e sociale decisamente inferiore rispetto a quella dei francesi bianchi provenienti dalla madrepatria. Le rivolte, innescate dall’approvazione da parte del parlamento francese di un disegno di legge che concederebbe il diritto di voto nelle elezioni regionali alle persone che hanno vissuto in Nuova Caledonia per oltre dieci anni, derivano invero da un disagio più profondo, motivo per il quale la popolazione indigena vorrebbe prendere in mano la gestione della vita politica e delle risorse economiche dell’isola.
Ricordiamo che, in precedenza, solo le popolazioni indigene dell’arcipelago e coloro che vi avevano vissuto per più di 10 anni al momento della firma dell’Accordo di Nouméa del 1998 avevano il diritto di voto. La modifica legislativa darebbe dunque il diritto di voto a migliaia di francesi europei giunti nell’isola dopo la firma dell’Accordo di Nouméa, mettendo la popolazione indigena in perenne minoranza in occasione di elezioni e referendum, e rendendo di conseguenza l’indipendenza praticamente impossibile.
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