di Matteo Marchioni
A differenza della più grave crisi del 1973, che vide uno scontro diretto tra le parti, quella iniziata il 7 ottobre 2023 è una guerra asimmetrica, cioè coinvolge simultaneamente attori statuali e non e si concretizza su diversi ambiti spaziali, distanti anche geograficamente tra loro – si pensi ai danni causati dalle scorrerie degli Houthi al traffico marittimo nel Mar Rosso. Dal punto di vista della diplomazia, è evidente che la maggior parte della comunità internazionale supporti in sede ONU un cessate il fuoco a Gaza.
Tuttavia, questo non è nell’interesse di Israele, al contrario degli Stati Uniti, i quali loro malgrado rischiano di essere trascinati in una guerra di logoramento a media intensità che sta già mettendo a dura prova le loro truppe in Iraq.
Prima dell’operazione “diluvio Al-Aqsa”, le autorità di sicurezza israeliane relegavano Hamas ad una minaccia di secondo piano, dietro ai proxies iraniani di Hezbollah, in Libano, e della resistenza irachena di Kata’ib Hezbollah. È chiaro che, sia per ragioni di sicurezza interna sia per motivazioni di prestigio politico personale di Netanyahu dopo la catastrofe del 7 ottobre, Israele non possa fermarsi ad un cessate il fuoco, che non contempli una soluzione definitiva per la striscia di Gaza – cioè un’occupazione militare.
L’importanza per Israele di tutelare la propria incolumità a tutti i costi pone un’altra questione essenziale, il cui sviluppo nelle prossime settimane potrebbe decretare un climax in Medio Oriente: il fronte con il Libano meridionale si sta scaldando sempre di più. Si tenga presente che nel caso di Hezbollah non si tratta di un gruppo di resistenza armato di kalashnikov, RPG e forza di volontà, ma di un vero e proprio esercito dotato di decine di migliaia di razzi e missili e specializzato nella guerra difensiva d’attrito – lo dimostrò il conflitto del 2006. Nello specifico, si parla di circa 130.000 testate conteggiate al 2018. Quella contro il “Partito di Dio” potrebbe rivelarsi una sfida fondamentale per Israele, data l’intensità degli attacchi subiti negli insediamenti nel nord del Paese e le avvisaglie su una possibile apertura del nuovo fronte provenienti dagli spostamenti di truppe dell’IDF da Gaza verso il confine con il Libano.
Eppure, come si evince dalla rappresaglia statunitense di venerdì 2 febbraio contro i proxies iraniani in Iraq e Siria, è assai improbabile che si assista ad una conflagrazione in Medio Oriente. Infatti, con i loro attacchi violenti e precisi, ma di brevissima durata (appena 30 minuti) e comunque preannunciati, così da lasciare alle milizie coinvolte il tempo per evacuare parte dei loro asset dai siti colpiti dai bombardamenti, gli USA dimostrano di non volere affatto un’escalation generale. L’obiettivo fu e rimane l’affermazione della propria presenza nell’area – separata dall’azione militare di Israele a Gaza – nonché una dimostrazione di forza rivolta più agli attori di prossimità gestiti da Teheran che non all’Iran stesso, sul cui territorio Washington si è ben guardato dal colpire obiettivi sensibili.
Questo non può che compiacere la Repubblica Islamica, che certamente teme un conflitto generalizzato tanto quanto gli USA e può cogliere l’occasione per slegare la propria condotta da quella degli Houthi o delle milizie sciite in Iraq e Siria. Inoltre, a riprova del fatto che Stati Uniti e Iran non vogliono davvero lo scontro diretto, Washington ha recentemente imposto delle sanzioni a quattro coloni israeliani accusati di violenze in Cisgiordania, dimostrando di volersi sganciare, almeno in parte, dalla linea oltranzista di Netanyahu e accennando a una qualche forma di distensione sulla questione palestinese.
Su questa base e alla luce degli ultimi sviluppi nel Levante, gli scenari più plausibili sono i seguenti.
1) Il proseguimento della situazione a Gaza e nel Medio Oriente nel complesso, con la consueta guerra a media intensità su tutti i fronti, in cui né gli USA né l’Iran arriveranno probabilmente allo scontro diretto.
2) De-escalation su Gaza con contatti informali tra le parti e tregua tra Hamas e Israele, con il beneplacito americano. Però, ciò non impedirebbe a Tel Aviv di risolvere il “problema Hezbollah” con la forza, approfittando della circostanza per cui, con la chiusura del fronte di Gaza, i proxies iraniani sarebbero meno motivati ad impegnarsi in azioni ostili, le quali, come si è visto, sarebbero comunque gestite dagli USA e non direttamente da Israele.
3) Inizio di distensione e ricomposizione del conflitto su iniziativa dell’amministrazione Biden, che potrebbe indurre Netanyahu a più miti consigli, nella consapevolezza che, in una guerra asimmetrica come quella in corso, il tempo è dalla parte di chi si si difende e non di Tel Aviv, su cui la guerra sta pesando tanto militarmente quanto dal punto di vista della stabilità politica interna.
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