articolo originale: http://www.asrie.org/associazione/osservatorio-regionale-mena-la-sicurezza-in-libia/
Il Trattato del 2008 tra il governo italiano e quello libico, all’epoca ancora guidato da Gheddafi, aveva fatto presupporre uno sviluppo delle relazioni economiche e commerciali tra i due paesi interrotto però dallo scoppio della Primavera Araba e dall’uccisione del leader libico. Partner economico importante, in special modo per le fonti energetiche (in primis il petrolio), la Libia sta affrontando un periodo difficile caratterizzato dalla instabilità interna e dallo scontro per la presa del potere. L’analisi della Dott.ssa Buzzetti, Junior Analyst di ASRIE per il Desk Mondo Arabo, si ripropone di studiare i recenti eventi inerenti la sicurezza del paese in modo da comprendere il risvolto sulla economia nazionale e sui rapporti stessi con l’Italia.
La fase estremamente critica che attraversa ormai da mesi la Libia ha cause profonde e origini lontane, che vanno dalla debole identità nazionale libica, ai lasciti della guerra civile del 2011, dalla caduta del regime di Gheddafi alla sua uccisione. Un elemento essenziale che può contribuire a una maggiore comprensione delle dinamiche del paese, diviso oggi in molte fazioni, è il concetto di legittimità. Tutte le forze attualmente in campo tendono a presentarsi naturalmente come le uniche legittime presentando motivazioni differenti.
La prima legittimità, l’unica riconosciuta a livello internazionale, è quella legata all’ultimo risultato elettorale. La Camera dei rappresentanti, eletta nel giugno scorso, era stata dunque in un primo momento considerata come l’unico organismo legittimo. La Camera tuttavia, in agosto, sentendosi minacciata dalle milizie che avevano occupato la capitale, si era spostata dalla capitale Tripoli a Tobruk, situata nella parte orientale del paese, di fatto ponendosi sotto la protezione delle milizie legate al generale Khalifa Haftar e all’indiretta tutela egiziana.
La Corte suprema libica tuttavia, a novembre, ha annullato i risultati delle elezioni, dichiarando incostituzionale la stessa Camera dei rappresentanti. Ciò ha destato preoccupazioni in tutta la comunità internazionale per il rischio che il paese potesse scivolare in una nuova guerra civile.
Il rischio si è concretizzato con l’emersione di gruppi radicali che hanno cercato una propria legittimazione strumentalizzando l’Islam; un processo simile a quello che è avvenuto e continua ad avvenire in nome della lotta al terrorismo islamico. È questo il caso del generale Khalifa Haftar, capace di coalizzare attorno a sè diversi gruppi preoccupati per una possibile preponderanza dei radicali nel quadro politico del paese.
Un primo tentativo del generale di aggregare attorno a sé queste forze era stato compiuto il 14 febbraio 2014, quando, attraverso un video-proclama, aveva tentato di prendere il controllo della capitale, cercando apertamente il supporto delle milizie più laiche come quelle di Zintan. Successivamente spostatosi in Cirenaica, Haftar negli ultimi mesi è stato capace di legare alla propria battaglia il governo stesso, con le poche forze di cui dispone, buona parte dei federalisti, la maggior parte delle forze nel sud della Cirenaica e di ottenere soprattutto l’importante supporto di Egitto ed Emirati Arabi.
L’intervento delle potenze regionali nel contesto libico aggrava così la polarizzazione tra due fronti. Da una parte “i rivoluzionari” e gli “islamisti”, categorie che in parte si sovrappongono, sostenuti da Turchia, Qatar e probabilmente Sudan; dall’altra il parlamento di Tobruk e il governo di Al-Thanni i quali insieme alle forze anti-islamiste di Haftar e alle milizie di Zintan sono certamente aiutate, anche militarmente, da Egitto ed Emirati Arabi. Queste interferenze esterne rendono più complesso avviare una riconciliazione nazionale, tentativo che ha cercato disperatamente di raggiungere l’ONU nelle scorse settimane, sia con una visita del Segretario generale Ban Ki-Moon sia attraverso l’opera di mediazione tra le parti tramite l’inviato speciale Bernardino Leon.
La percezione egiziana di accerchiamento rispetto alla minaccia del radicalismo islamico (poiché deve affrontare più fronti contemporaneamente, dal Sinai alla Cirenaica) sta spingendo il governo di Abdel Fattha al-Sisi a richiedere un nuovo e più vigoroso approccio della comunità internazionale e dei paesi occidentali contro l’estremismo islamico. L’Egitto è in prima linea e non è disposto a rinunciare a una battaglia per la propria sicurezza.
Questo orientamento, relativamente alla situazione in Libia, si sta concretizzando in una campagna militare di appoggio nei confronti delle forze anti-islamiste e di supporto alla Camera dei rappresentanti libica a Tobruk. Ciò ha portato, più volte tra agosto e settembre, al bombardamento aereo – seppur mai apertamente dichiarato – delle postazioni dei misuratini, ma anche a un appoggio in termini di mezzi, e probabilmente di uomini, alle forze di Haftar. L’Egitto inoltre ritiene prioritario eliminare qualsiasi presenza della Fratellanza musulmana dai paesi confinanti che hanno offerto ospitalità a diversi membri di questo gruppo, considerato come una minaccia alla sicurezza nazionale e paragonato alle forze terroristiche comunque presenti in Libia, come dichiarato in una recente visita nel Regno Unito del ministro degli Esteri egiziano, Sameh Shukri.
Gli Emirati Arabi condividono sostanzialmente quest’obiettivo. Per la Turchia, e in misura minore per il Qatar, invece, la vittoria degli islamisti nel paese consentirebbe di ottenere un importante alleato, dimostrando come il loro modello inclusivo dell’Islam politico per i paesi che hanno cambiato regime dopo il 2011 sia ancora valido per tutta la regione. Il successo ottenuto dalle forze di Misurata nella riconquista di buona parte di Tripoli, aeroporto compreso, è stato possibile anche grazie all’appoggio di Turchia, Qatar e Sudan, che considerano ormai questo paese come un terreno di battaglia tra interessi strategici di alleanze regionali contrapposte.
I tentativi di mediazione tra le parti, condotti sinora sotto l’egida delle Nazioni Unite, non hanno conseguito i risultati sperati essenzialmente perché hanno come unico presupposto di legittimità le passate elezioni e quindi il riconoscimento della ormai debole Camera dei rappresentanti come solo organo rappresentativo del paese.
Allo stesso tempo le preoccupazioni, non solamente egiziane, ma anche europee e statunitensi, di una Libia in mano a estremisti islamici costituisce un vincolo importante all’azione politica e diplomatica di questi attori che si riverberano fortemente sulla capacità d’indicare un punto di equilibrio tra le forze in campo in Libia. In pratica sembra impossibile conciliare due esigenze percorrendole insieme: un cessate il fuoco con l’attivazione di un dialogo tra le parti e il contemporaneo contenimento della minaccia jihadista.
Il 2011 è stato un anno cruciale per la Libia. La caduta del governo di Gheddafi ha creato, per la prima volta, le condizioni che avrebbero permesso di perseguire quel tipo di riforme economiche e sociali che tanto erano state ostacolate fino a quel momento. Anche se tale cambiamento ha rappresentato di certo un’opportunità, ha portato con sé anche gravi conseguenze economiche e numerose sfide da affrontare.
In particolare, il paese ha temporaneamente interrotto la sua produzione e quindi esportazione di petrolio, che rappresenta la sua principale fonte di reddito, in un momento in cui il congelamento dei beni da parte della comunità internazionale aveva già avuto delle conseguenze disastrose.
Il conflitto ha rappresentato una grave battuta d’arresto all’economia libica, che però sembrava essere solo momentanea. Infatti il rapido ritorno delle compagnie petrolifere a fianco del fronte libico ha fatto registrare subito un trend positivo. In pochi mesi, il paese era stato infatti in grado di tornare a livelli di produzione molto vicini a quelli pre-conflitto. Ma dall’estate 2013 l’estrazione di idrocarburi ha cominciato a subire nuove interruzioni. Il governo centrale è infatti stato incapace di garantire una rapida ripresa dell’estrazione e della produzione. Le multinazionali del petrolio e del gas presenti in Libia hanno progressivamente manifestato preoccupazione per il calo della produzione. Se dovesse proseguire l’instabilità libica, i paesi maggiormente esposti come quelli europei, e in particolare l’Italia, sarebbero costretti a far fronte a revisioni strategiche strutturali.
La Libia è per l’Italia un partner economico molto importante per via dei massicci investimenti della compagnia petrolifera nazionale ENI e degli approvvigionamenti di petrolio di qualità (a basso tenore di zolfo) e gas naturale; degli investimenti finanziari potenziali del governo libico, accanto a quelli già esistenti; delle esportazioni commerciali; e in genere dei rapporti di affari delle imprese italiane di ogni dimensione.
Il Trattato di Amicizia, partenariato e cooperazione del 2008 aveva consolidato il carattere di fatto privilegiato delle relazioni italo-libiche assicurando un ampliamento della loro prospettiva.
Caduto il regime di Gheddafi, il Governo italiano si è posto come priorità il recupero di tale livello di privilegio, con un non trascurabile successo grazie ai contatti del passato e agli ottimi rapporti stabiliti col nuovo governo Zeidan. Tuttavia, il livello di perdurante instabilità che si è appena sottolineato potrebbe rendere questo obbiettivo troppo ambizioso e quindi rischioso. Inoltre, la politica italiana appare troppo legata al campo conservatore – come quella dell’insieme degli altri paesi dell’Occidente – e corre quindi il rischio di trovare prima o poi seri limiti e incorrere in danni o costi considerevoli
Gli approvvigionamenti energetici sono stati interrotti varie volte nel corso del 2013, sia nella parte orientale del paese sia in quella occidentale a causa del blocco dei terminali da parte di fazioni diverse. Questa situazione, difficilmente destinata a chiudersi presto, pone un problema di sicurezza energetica.
Il Trattato del 2008 aveva inoltre posto le premesse per una solida esternalizzazione delle politiche italiane di contenimento e limitazione delle immigrazioni da sud.
La Libia non è infatti un paese di emigranti ma è uno dei principali passaggi dei flussi di emigrazione dal Sahel e dall’Africa a sud del Sahara. Questi flussi, insieme ad altri minori, sono quelli che alimentano l’immigrazione irregolare e di quanti cercano rifugio politico arrivando nel sud d’Italia. La rivoluzione e gli eventi successivi, mettendo capo a un governo centrale debole come quello che siede attualmente, ha messo in questione non tanto la buona volontà del governo libico a collaborare quanto la sua capacità.
Il Governo italiano, parallelamente ad altri governi europei e agli Usa, ha iniziato programmi di rafforzamento delle forze di sicurezza della Libia per il controllo delle frontiere meridionali e marittime. Tuttavia, la perdurante instabilità del paese, riflessa nella debolezza del governo, è destinata a diminuire l’efficacia degli sforzi volti ad un’efficace stabilizzazione da parte del governo italiano con costi la cui entità è difficile prevedere.
Pilar Buzzetti – ASRIE. Osservatorio Regionale MENA
Analisi a cura di Pilar Buzzetti. Laureata in Relazioni Internazionali, ha successivamente conseguito un Master in Studi Diplomatici coltivando contemporaneamente una grande passione per le lingue e le culture straniere, in particolare quelle relative all’area mediorientale. Junior Analyst – Desk Mondo Arabo presso la OSINT Unit di ASRIE, Pilar Buzzetti svolge progetti di analisi e ricerca per Eurasia – Rivista di Studi Geopolitici nel settore sicurezza e difesa e attività di volontariato con Amnesty International.
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