Charlie Hebdo è divenuto, nel giro di una settimana, il periodico più famoso del mondo. Da quarantacinquemila a sette milioni di esemplari venduti, è presenza fissa nei dibattiti odierni, e una mobilitazione massiccia ha celebrato i suoi redattori e disegnatori, nuovi martiri dell’Occidente e della libertà di espressione: il foglio satirico francese, vittima di un sanguinoso attacco terroristico di matrice (franco)islamica, è oggi simbolo universale del mondo libero e democratico. Così il “giornale irresponsabile”, che ha fatto dell’irriverenza e dello sberleffo verso ogni forma di potere e di settarismo (sia esso politico o religioso) una vera linea editoriale, nonché una forma di reazione al conformismo della stampa dominante, è diventato, suo malgrado, una pistola pronta a sparare in mano proprio ai rappresentanti del potere, un fazzoletto da agitare (vedi Front National) per segnalare ancora la propria presenza e accaparrarsi qualche voto in più. Il pubblico di Charlie Hebdo era ristretto e (forse volontariamente) selezionato, un pubblico, supponiamo, apartitico o quasi, stufo della piattezza di molti quotidiani e voglioso di provocazioni, di umori caustici. Se la linea editoriale rimarrà, molto probabilmente, identica a prima, a modificarsi, e ampliarsi, sarà il corpo acquirenti, in seguito all’esposizione mediatica globale e alle parate di massa. Da periodico di culto a gadget chic, per gli esponenti di spicco dell’Europa che conta: lo vedremo sottobraccio a ministri, dirigenti, cardinali, forse qualche banchiere? Sull’onda irrefrenabile di Twitter, fra hashtag e slogan, prime pagine rilevanti e nuovi conformismi repubblicani da domenica pomeriggio il motto “Je suis Charlie” è ormai il marchio di fabbrica del nostro mondo progredito e tollerante che non compra più i giornali, certo anche a causa della mediocrità degli stessi, ma per Charlie Hebdo ha fatto un’eccezione, ponendolo nel cuore della storia e sull’altare del Buon Cittadino. E che sia giusto o no la metamorfosi del settimanale parigino è già una realtà e chissà per quanto tempo ancora durerà la sua sovraesposizione, chissà per quanto tempo, grazie a lui, si tornerà a parlare di terrorismo, di Crociate, della Fallaci e delle sue tesi “premonitrici”. Nel frattempo l’irresponsabilità di Charlie, pur rivendicata anche nell’ultimo fortunatissimo numero, è in declino, non per colpa dei suoi bravi creatori ma di chi, anche di fronte a una tragedia, non sa contenere il fuoco mercantile e la retorica autocompiaciuta. E per concludere, la grande disgrazia di Charlie Hebdo potrebbe essere non l’assalto omicida dei non-immigrati, i goffi fratelli Kouachi, ma l’esser finito nella bocca onnivora dei comunicatori di partito e nelle case dei benpensanti.
Nicola Serafini
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