Un anziano signore, vestito elegantemente, con postura curata e voce posata da perfetto borghese, si rivolge al numeroso pubblico presente nella sala conferenze dell’Archiginnasio di Bologna, scrigno di memorie del glorioso passato dell’Università cittadina. La sala reca sui muri gli stemmi di centinaia, forse migliaia di ex-studenti provenienti da ogni parte d’Europa e d’Italia, venuti a frequentare l’Ateneo più prestigioso. Secoli prima di Harvard, rivaleggiava, la piccola Bologna, con Parigi, Oxford, Londra, oggi pare un miraggio.
L’anziano signore è lo scrittore Alberto Arbasino, classe 1930, uno degli ultimi rappresentanti viventi di una grande stagione culturale e letteraria che il nostro Paese, in un sussulto di fierezza, indipendenza e vivacità, stritolato da tensioni e violenza, seppe offrire al mondo nella seconda metà del secolo passato.
Arbasino conosce, e ha conosciuto, tutti i maggiori esponenti di quel periodo della nostra storia nazionale, non politica: artisti, scrittori, critici, registi. Ne racconta, con un pizzico di malinconia, nel suo ultimo libro. Imbarazzato, poi, si trova a dover tracciare un breve quadro della situazione attuale, almeno per quanto riguarda il suo campo prediletto, l’humanitas.
Non usa mezzi termini, Arbasino: dice che la vecchia generazione non verrà sostituita, che mancano veri intellettuali con mordente, e che gli scrittori di oggi sono omologati, mediocri, privi di personalità.
Lo stesso discorso si potrebbe estendere ad altri campi, ad esempio quello musicale: chi non è appassionato, in balia delle mode, delle radio e delle televisioni finisce per sorbirsi ore e ore di terrificanti “hits” d’importazione, strimpellatori, e insopportabili talent show, cioè, tecnicamente, spettacoli di talenti, dove i talenti non ci sono o meglio si esprimono attraverso gli stilemi e i gusti della musica commerciale anglosassone che il nostro Paese ha cooptato in modo acritico.
Che fine ha fatto, poi, il grande cinema italiano? Non basterà certo la minestrina riscaldata felliniana di Sorrentino (pur buona) a tirarci su.
Ora, se è evidente che un discorso così demolitore deve comprendere anche un certo margine di errore, e ammettere l’esistenza di qualche mela buona insieme alle tante mele marce, a chi s’interessa, come il sottoscritto, di queste “futilità”, sembra proprio che la condizione delle arti, in Italia, sia ormai, fondamentalmente, di basso profilo.
Se bisogna abbandonarsi al recupero di dischi impolverati e di vecchie pellicole, per ascoltare e vedere qualcosa di significativo proveniente dai nostri confini, lo sconforto per la nostra triste post-modernità mondializzata, che i confini vorrebbe proprio abolire, per lasciare spazio a un improponibile, astorico, finto “villaggio globale”, si acuisce e si mescola alla malinconia e anche, un poco, all’orgoglio. L’orgoglio di chi prova godimento della sua ignoranza curiosa che scava nel ventre dei decenni e dei secoli e cerca la bellezza volgendo la testa all’indietro, l’orgoglio del passatista che non si adegua ai tempi. L’orgoglio del vero scrittore che davanti a una platea calda e viva, sebbene non più giovane, ma a lui coetanea o quasi, si trova a dover difendere senza remore “i vecchi tempi”, i tempi di Pasolini, Gadda, Longhi, Benedetti Michelangelo, e a rappresentare una categoria, gli artisti, ormai priva di senso, annacquata, spoglia, accoccolata, fasulla.
La demolizione della cultura nazionale italiana, prezioso bagaglio identitario che ha preceduto e favorito la creazione dello Stato unitario, e che è fonte di comprensibile autostima per chi è nato sotto il nostro stesso cielo, si sta concretizzando, e solo le vecchie generazioni sembrano possedere, saltuariamente, uno spirito genuinamente patriottico (non nazionalista né razzista, badate bene) mentre la gran parte dei giovani è vittima di una pubblicistica internazionalista, o meglio occidentalista, basata sulla propaganda dei diritti e sulla “democrazia”, sulla tolleranza e sul buonismo a ogni costo. Dietro questo buonismo stanno l’ammorbidimento della critica, il crollo del buon gusto e la sostituzione del “popolare” con il “pop”, la rimozione, dal dibattito pubblico, dei provocatori, degli iconoclasti e dei dissidenti.
Se appare evidente la volontà da parte di alcune gerarchie politiche occidentali, e di centri di potere come l’Unione Europea, di abbattere le frontiere, soprattutto economiche e politiche, e di convogliare competenze riservate, dapprima, agli Stati nazionali, verso entità sovranazionali (a dir il vero intimamente non democratiche), meno evidente, e forse più pericoloso, è il progetto di ridurre a ricordo del felice passato le autentiche culture europee, rappresentanti i popoli, in favore di un inesistente europeismo senza barriere, moderato e liberista, che con il pretesto della pace e della prosperità vuole un Europa sbiadita, asservita agli interessi dei grandi poteri economici, e dell’Italia solo un museo a cielo aperto, il Paese dove “si mangia bene”.
Nicola Serafini
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