Sintesi del seminario tenuto da Lorenzo Salimbeni (presidente del Centro Studi Eurasia-Mediterraneo) lunedì 24 novembre agli allievi del corso di Storia dell’Europa Orientale dell’Università di Udine.
Del saggio di Samuel Huntington poi diventato un volume, The clash of civilizations, è ben nota la parte inerente lo scontro di civiltà a partire da presupposti religiosi che contrappone l’occidente atlantista al mondo islamico. Tale prospettiva, incapace di cogliere le differenze e le varietà insite in ciascuno dei due blocchi, è stata tuttavia tanto propagandata e ripetuta che sono finiti in secondo piano altri spunti interessanti contenuti in quest’opera. Ad esempio il concetto di “paesi faglia”, vale a dire solcati da distinzioni e contrapposizioni tali da metterne a rischio l’integrità territoriale qualora posti sotto pressione. Uno di questi è l’Ucraina, distinta nella sua parte occidentale, maggiormente sensibile alla cultura europea, e nella porzione orientale, intimamente legata all’ecumene russo. Le due edizioni della cosiddetta “rivoluzione arancione” nonché il separatismo della Crimea e del Donbass affondano le loro radici proprio in questa linea di rottura.
Prima ancora di essere Mosca o San Pietroburgo, la Russia fu Kiev, una località importantissima dal punto di vista religioso e simbolico, poiché proprio nell’allora capitale dei Rus’ il principe Vladimir il Grande decise nel 988 di abbandonare i culti pagani degli avi e di farsi battezzare. Il cronachista Nestor narra che la scelta della nuova fede venne presa in base alle relazioni che i messi del sovrano avevano esposto riguardo le tre religioni monoteiste: l’Islam non venne ritenuto adeguato per i propri sudditi in quanto vietava le sostanze alcoliche, la perdita di Gerusalemme con la contestuale distruzione del Tempio era interpretata come un segno di cattivo auspicio che gravava sull’ebraismo (che invece le tribù kazare avevano scelto in un sorteggio tra le tre confessioni rivelate), le cattedrali teutoniche avevano incupito gli osservatori regi, rimasti altresì estasiati dalla Cattedrale di Santa Sofia a Costantinopoli, al cui interno non riuscivano a comprendere se si trovavano ancora in terra o se erano già assurti ad una dimensione celeste. Tale profondo legame con Bisanzio, ove Vladimir fu battezzato, darà immediata prova di saldezza nel 1054, allorché lo scisma d’Oriente (o d’Occidente, secondo i punti di vista) creò la distinzione tra la Chiesa di Roma e quella Ortodossa, e suggellerà il passaggio di consegne avvenuto nel 1453 tra la Seconda e la Terza Roma in seguito alla conquista turca della vecchia capitale dell’Impero Romano d’Oriente. Nel frattempo il potere in Russia aveva spostato il suo baricentro sulle rive della Moscova e Kiev e l’Ucraina erano diventate oggetto dell’espansionismo polacco-lituano, il quale contemplava pure un risvolto missionario cattolico, teso a riprendere le crociate dei Cavalieri Teutonici che Aleksandr Nevskij aveva arrestato nel 1242 al lago Peipus.
Origina a quest’epoca la spaccatura confessionale dell’Ucraina, in seguito alla nascita di una terza sfumatura del cristianesimo legata all’Unione di Brest: nel 1595 tale località ospitò un sinodo di vescovi ucraini, i quali scelsero di mantenere le forme ed i riti ortodossi e al contempo riconoscevano l’autorità pontificia. La chiesa uniate si sarebbe radicata in Galizia e la sua nascita ben testimonia il momento di crisi politica e spirituale che la Russia stava attraversando. Di lì a poco sarebbe in effetti cominciata la “stagione dei torbidi” (1598-1613), nella quale le beghe dinastiche e l’arrivismo dei boiardi s’intrecciarono con i progetti espansionistici polacchi. La caotica situazione si sarebbe risolta con la cacciata del presidio polacco-lituano di Mosca (4 novembre 1612: tale data è da poco tornata a essere festa dell’Unità Nazionale in Russia) e la successiva presa del potere da parte dei Romanov. La nuova casa regnate avrebbe proiettato il proprio impero sempre più verso occidente, recuperando gradatamente il controllo dell’Ucraina (risale al 1654 l’accordo in funzione antipolacca tra Kiev e Mosca, interpretato da una parte contraente come una semplice alleanza, dall’altra come un vero e proprio atto di vassallaggio), arrestando a Poltava l’espansionismo svedese che stava seguendo le antiche vie di infiltrazione dei Variaghi (1709) e spostando infine la capitale a Pietroburgo (1712). Risentendo delle successive spartizioni della Polonia tra Russia, Austria e Prussia, la Galizia e le province ucraine limitrofe avrebbero finito per trovarsi sotto la corona degli Asburgo, mentre Kiev ed il resto dell’Ucraina restavano legati a Mosca.
Nell’Ottocento i nascenti nazionalismi europei avrebbero fatto sentire i loro influssi anche nel regno degli Zar, sicché pure in Ucraina cominciò a svilupparsi un movimento identitario che auspicava la fine della dominazione russa e si radicò nella parte occidentale del paese, agricola ed uniate, mentre la parte orientale, ortodossa e ricca di giacimenti minerari, veniva interessata dai primi timidi progetti industriali del governo. I catastrofici esiti della Prima Guerra Mondiale che portarono al governo Kerenskij vennero sfruttati dai maggiorenti ucraini per riunire nel febbraio 1917 la Rada (ancor oggi è questa la denominazione del parlamento) e proclamare la federazione con il nuovo governo russo. La via dell’indipendenza sarebbe stata imboccata pochi mesi dopo, in seguito a quei dieci giorni che fecero tremare il mondo, nella nota definizione del giornalista statunitense John Reed. Mentre Kiev proclamava unilateralmente la propria indipendenza, a Kharkov si insediava una Repubblica Sovietica Ucraina, la quale godeva del sostegno degli operai delle fabbriche e delle miniere. Nel febbraio 1918 si costituì un’altra repubblica dei soviet, proprio nella oggi separatista Donetsk, ancora in contrapposizione al governo di Kiev: ben presto si sarebbe fusa con la repubblica di Kharkov, località che nei primi anni dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche avrebbe mantenuto il ruolo di capitale ucraina.
Il 3 marzo 1918 Lenin accettò di firmare le pesanti condizioni di pace imposte dalla Germania e dall’Austria-Ungheria, rinunciando alle propaggini occidentali dell’impero russo che si avviavano all’indipendenza (Finlandia) ovvero all’entrata in varie forme nella sfera d’influenza tedesca (stati baltici, Polonia, Bielorussia e Ucraina) in base ad un progetto di Drang nach Ost che sarebbe tornato d’attualità nell’ambito dell’edificazione del Lebensraum in seguito ai trionfali esordi dell’operazione Barbarossa (estate 1941). Le deboli autorità kievane cercarono sostegno nelle baionette tedesche, le quali imposero il governo collaborazionista di Pavlo Skoropadskij. Costui proveniva dai ranghi militari cosacchi ed aveva assunto il potere in qualità di Hetman (“atamano” è in effetti un termine che indica un grado di comando nella cavalleria cosacca e deriva dal tedesco Hauptmann, comandante) al termine di una cerimonia religiosa che ne aveva consacrato il ruolo. La sua estrazione militare appariva agli occhi dei protettori tedeschi come una garanzia di ordine e di affidabilità, ma la carriera nell’esercito zarista lo aveva di fatto russificato e questo avrebbe creato malumori nella popolazione, malumori da cui sarebbe scoppiata nell’estate 1918 la rivolta contadina capeggiata dall’anarchico Nestor Makhno.
Le capitolazioni dell’Austria-Ungheria prima e della Germania subito dopo avrebbero provocato ricadute sensibili sull’assetto ucraino. La porzione orientale restava nell’orbita di Mosca ed era teatro della guerra civile tra “bianchi” e “rossi”; la Galizia e altre province asburgiche avrebbero proclamato la propria indipendenza da Vienna, costituendosi in Repubblica Popolare Ucraina Occidentale; un colpo di stato militare avrebbe posto fine all’inefficiente governo di Skoropadskij ed affidato il potere ad un direttorio in cui sarebbe ben presto emersa la figura del nazionalista Semyon Petljura, già uomo forte della prima Rada. La repubblica galiziana vantava un potenziale bellico di cui Kiev difettava, poiché vi erano rimasti in armi, ben equipaggiati, inquadrati da ufficiali autoctoni e forgiati dagli anni di guerra, interi reggimenti del disciolto imperialregio esercito, di modo che la fusione tra i due Stati sarebbe avvenuta in tempi rapidi: ancor oggi l’Ucraina celebra come festa nazionale il 22 gennaio, giorno in cui nel 1919 si celebrò l’atto di unificazione che dette vita alla Repubblica Popolare Ucraina. Emergeva nel frattempo l’arrembante Polonia di Jòzef Piłsudski, il quale, mentre ancora la Conferenza di Pace di Parigi doveva fissarne definitivamente i confini, avviava un ampio progetto espansionistico che avrebbe interessato territori tedeschi (Prussia e Slesia), ex asburgici (Galizia) e sovietici, nell’ambito di una vera e propria crociata contro il bolscevismo, proprio nel momento in cui venivano ritirate dai fronti russi le truppe dell’Intesa, logorate da anni di massacri e di privazioni, non più disposte a combattere a fianco delle Armate bianche e a rischio di ammutinamenti di stampo comunista. Mentre nell’Ucraina orientale le armate controrivoluzionarie di Anton Denikin e Pëtr Vrangel’ non riuscivano a capitalizzare i successi iniziali e, causa le rivalità tra i due generali, disarticolavano la manovra e venivano costrette a ritirarsi in Crimea, ove avrebbero capitolato a fine ’19. Ricordiamo incidentalmente che la penisola di Crimea, con l’importantissima base navale di Sebastopoli, entrò a far parte dell’Ucraina appena nel 1954, allorché il neoinsediato Primo Segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica Nikita Chruščëv ne fece dono all’Ucraina (che godeva assieme alla Bielorussia di un seggio all’Assemblea delle Nazioni Unite) per suggellare i 300 anni del patto russo-ucraino di cui sopra. Quella che poteva sembrare una piccola variazione di carattere amministrativo all’interno dell’imponente compagine sovietica, avrebbe creato difficoltà dopo il crollo dell’URSS, sia per la composizione etnica prevalentemente russa, che restava suddita di Kiev, sia con riferimento alla base della flotta sovietica (poi russa) del Mar Nero: quest’ultimo problema era stato inizialmente risolto con contratti di affitto, l’altro avrebbe portato alla secessione con conseguente unione alla Repubblica Federativa Russa pochi mesi or sono.
Eliminata la minaccia reazionaria nel settore occidentale, l’Armata Rossa avrebbe potuto dedicarsi a recuperare quei territori che le esigenze interne del consolidamento della rivoluzione avevano fatto sacrificare a Brest-Litovsk, sicché Petljura non si peritò di cedere la Galizia con il Trattato di Varsavia (aprile 1920) pur di avere la protezione delle armi polacche. Tale baratto destò forti malumori, poiché la Galizia rappresentava agli occhi di molti la culla non solo della religione uniate, ma anche dell’indipendentismo, nella misura in cui l’atmosfera asburgica di fine impero, meno oppressiva di quella zarista e maggiormente aperta alle riforme ed alla costituzione di forme di decentramento con effettivi poteri sul territorio, aveva consentito la formazione di una classe dirigente ruteno-ucraina. Dopo i sorprendenti successi iniziali, l’esercito polacco fu costretto a retrocedere sino alle porte della propria capitale, ove nell’estate 1920 si arrestò l’altrettanto sorprendente controffensiva sovietica. La pace di Riga del marzo 1921 fissò il confine tra Mosca e Varsavia, la quale abbandonò qualunque sostegno nei confronti dell’Ucraina indipendente, rapidamente assorbita nell’orbita sovietica. Di questa prima esperienza indipendentista si sarebbe conservata traccia anche in ambito religioso, poiché si era costituita, al fine di rimarcare il distacco da Mosca, una Chiesa Ortodossa Autocefala Ucraina, che poi sarebbe sopravvissuta in esilio, mentre in territorio ucraino l’uniatismo godette di un iniziale e per certi versi sorprendente appoggio da parte delle autorità sovietiche, intenzionate a scardinare il potere ortodosso facendo leva su questa confessione dal seguito relativamente ridotto e pertanto facilmente controllabile.
Negli anni fra le due guerre mondiali lo iato tre le due componenti dell’Ucraina si sarebbe ampliato ulteriormente: il Donbass e la parte orientale avrebbero beneficiato del vorticoso processo di industrializzazione avviato da Stalin, laddove la porzione contadina occidentale sarebbe stata colpita, in seguito alla politica di collettivizzazione agraria, da carestie, conseguenza delle quali sarebbe stato il cosiddetto Holodomor. La spartizione della Polonia nell’estate del 1939 tra Germania e URSS avrebbe consentito al Cremlino di riprendersi ampie porzioni di territori abitati da popolazioni russofone e di reintegrare i territori ucraini passati a suo tempo sotto l’egemonia di Varsavia. L’invasione tedesca del 1941 avrebbe visto tuttavia sorgere fenomeni di collaborazionismo da parte di molteplici ucraini della parte occidentale, i quali volevano liberarsi di Mosca, ma non si rendevano conto di essere considerati Untermenschen dalle autorità di occupazione. Appena dopo la sconfitta di Stalingrado Stepan Bandera e la sua Armata Nazionale Ucraina sarebbero stati tenuti in maggiore considerazione e sarebbero sorte addirittura nuove unità di SS ucraine. Pur di rimpolpare le esangui file della Wehrmacht, si costituivano reparti tipicamente d’elite da un punto di vista “razziale” arruolando personale non ariano, ma che aveva già dato atroce prova di sé nelle persecuzioni ebraiche. Banderisti e affini seguirono in parte la ritirata delle truppe dell’Asse, parte rimasero sul territorio dando vita ad una resistenza di matrice anticomunista, che sarebbe stata sostenuta dagli Stati Uniti d’America nei primi anni della Guerra Fredda nell’ambito dei vari progetti Stay behind collaterali alla NATO.
Da questo rapido excursus possiamo comprendere non solo i precedenti delle attuali divisioni in seno alla società ucraina, ma anche i riferimenti simbolici che le varie fazioni hanno deciso di adottare. Se le formazioni ultranazionaliste ucraine hanno rispolverato l’apparato iconografico e ideologico afferente all’esperienza banderista, dall’altra parte della barricata i russofoni sfoggiano bandiere ed espliciti richiami ai vari precedenti storici che ribadiscono il legame con Mosca, vuoi tramite la bandiera zarista, vuoi tramite quella sovietica: l’Ucraina, insomma, non costituisce soltanto il campo di battaglia tra il popolo di piazza Majdan ed i separatisti, ma anche tra due mondi e due concezioni diametralmente agli antipodi.
Lorenzo Salimbeni
Riferimenti bibliografici:
Filippo Bovo, Massimiliano Greco, Alessandro Lattanzio, Battaglia per il Donbass, Anteo, Cavriago 2014;
Ivelina Dimitrova, “Il pilastro ortodosso dello Stato russo” in Eurasia. Rivista di studi geopolitici – La geopolitica delle religioni, XXXV 3/2014;
Andrea Forti, “La prima Ucraina indipendente” in Eurasia. Rivista di studi geopolitici – La Seconda Guerra Fredda, XXXIV 2/2014;
François Thual, Geopolitica dell’Ortodossia, Società Editrice Barbarossa, Milano 1995.
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