di Stefano Vernole – Vicepresidente Centro Studi Eurasia e Mediterraneo
La transizione dall’amministrazione di Donald Trump a quella guidata da Joe Biden ha portato a un significativo cambiamento della politica estera statunitense.
Il miliardario newyorkese è stato formalmente issato alla Casa Bianca per soddisfare le richieste della classe media americana impoverita e delusa dall’eccessiva esposizione militare degli Stati Uniti nel mondo, sfruttando un sentimento di frustrazione che, non a caso, era già stato evidenziato da uno dei massimi analisti dei circoli di potere a stelle e strisce, Samuel Huntington.
FONTE ARTICOLO: https://www.geopolitika.ru/it/article/la-sinergia-tra-le-forze-del-multipolarismo
In realtà, si è trattato dell’ennesimo “bait and switch” della geopolitica statunitense; Trump – il candidato ideale per raccogliere le proteste di questa componente risentita della società americana – è stato utilizzato per cercare di bloccare l’ascesa pacifica della Repubblica Popolare Cinese e soprattutto il suo progetto di Nuova Via della Seta terrestre e marittima che stava trasformando il processo di globalizzazione da unipolare a multipolare (facendo perdere agli Stati Uniti il loro dominio universale). Da qui la retorica della Casa Bianca sull’America First, sul protezionismo e sulle tariffe commerciali, metodi che si sono però rivelati inefficaci vista la stretta interconnessione tra le prime due economie del mondo.
Al protagonismo di Pechino, basato sui principi BRICS di non ingerenza negli affari interni degli Stati sovrani, di rispetto delle differenze culturali-religiose dei singoli Paesi (anche per quanto riguarda il modello di sviluppo) e di sostegno all’economia reale ma non speculativa, si è ovviamente unita anche Mosca, soprattutto dopo le sanzioni euro-atlantiche del 2014 per la questione della Crimea; il Cremlino ha reagito ad esse con un più intenso riavvicinamento economico alla Cina e con un intervento militare in Siria che ha sconvolto i piani statunitensi per il “Grande Medio Oriente”, secondo una logica che si potrebbe definire di “divisione internazionale del lavoro eurasiatico”. (La Russia usa lo strumento militare, la Cina quello economico). Fallito il tentativo trumpiano di staccare la Russia dalla Cina, con il pretesto della pandemia si è via via riproposto il vecchio schema della “guerra fredda”, della divisione del mondo in blocchi, dello scontro anche ideologico tra “autocrazie” e “democrazie”. A quel punto, il candidato naturale per l’establishment statunitense è diventato Joe Biden, il presidente che più probabilmente recupererà l’Europa all’interno del blocco guidato da Washington attraverso la NATO dopo le tribolazioni dell’era Trump.
Prima di insediare la Cina – considerata dagli Stati Uniti il vero rivale strategico per la governance mondiale – Washington cerca di sbarazzarsi del principale alleato di Xi Jinping, ovvero Vladimir Putin, per sostituirlo con un “fantoccio” disposto ad accettare il ruolo marginale di Mosca all’interno dell’ordine unipolare statunitense e la frammentazione della Federazione Russa.
A questo punto è necessario un ulteriore chiarimento. Molti parlano già di multipolarismo come di un processo pienamente avviato, in realtà siamo ancora in una fase di transizione che la diplomatica russa Marija Chodynskaja Goleniščeva ha brillantemente definito qualche anno fa come “dualismo policentrico”: “L’unipolarismo e l’unipolarismo pluralista (quello che gli americani chiamano multilateralismo), modelli tipici degli anni Novanta e dei primi anni Duemila, cominciano a cedere il passo all’ordine mondiale policentrico. Questo processo, difficile e irregolare, incontra la resistenza di Stati abituati a dominare la scena mondiale e che hanno perso la capacità di negoziare per raggiungere compromessi che tengano conto degli interessi delle altre parti e presuppongano la disponibilità a fare concessioni. D’altra parte, la crescita del peso politico specifico degli “attori non convenzionali” (in primo luogo dei Paesi della regione) sulla scena internazionale, il loro desiderio di partecipare più attivamente al processo decisionale su questioni mondiali fondamentali porta a un profondo coinvolgimento di questi Stati nei conflitti che riguardano i loro interessi nazionali. Tutto ciò rende la situazione imprevedibile, porta alla “frammentazione” dei conflitti in aree di intersezione degli interessi degli attori politici globali e regionali e rende la risoluzione delle crisi mutevole in assenza di una metodologia adeguata alla realtà odierna.
Il filosofo geopolitico eurasiatico Aleksandr Dugin ha giustamente separato e distinto il concetto di multilateralismo – una comoda situazione di facciata che serve solo a distinguere la disuguaglianza tra l’egemone (gli USA) e i suoi vassalli (le nazioni dell’Alleanza Atlantica) – da quello di multipolarità, concetto caro a chi non accetta l’egemonia unipolare statunitense sul pianeta. Non ci possono essere compromessi tra i sostenitori dei due campi, tanto più che l’enunciazione di principi guida da parte di Putin e la sistematizzazione di strumenti militari ed economici alternativi (CSTO, Banca dei BRICS, OCS…) ha ulteriormente ampliato il divario tra le rispettive parti. Tornando a Dugin, egli sostiene che “un mondo multipolare non è un mondo bipolare perché nel mondo di oggi non c’è nessuna potenza che possa resistere con le proprie forze al potere strategico degli Stati Uniti e dei Paesi della NATO, e inoltre non c’è nessuna ideologia generale e coerente in grado di unire gran parte dell’umanità in chiara opposizione ideologica all’ideologia della democrazia liberale, del capitalismo e dei diritti umani, su cui gli Stati Uniti fondano ora una nuova, unica ideologia. Né la Russia moderna, la Cina, l’India o qualsiasi altro Stato possono pretendere di essere un secondo polo in queste condizioni. Il ripristino del bipolarismo è impossibile per ragioni ideologiche e tecnico-militari…”. In realtà, proprio il rispetto da parte dei BRICS e dei loro alleati dei principi condivisi di non ingerenza negli affari interni degli Stati sovrani, unito all’affermazione delle specificità culturali, dei modelli economici specifici (produttivi contro finanziari) e delle diverse visioni del mondo (basti pensare al concetto di “famiglia”), ha già diviso lo scacchiere geopolitico tra due poli in costante competizione tra loro in tutte le aree del pianeta. L’accelerazione della competizione tra i due campi negli ultimi anni ha infatti costretto in un modo o nell’altro tutti gli Stati nazionali a schierarsi da una parte o dall’altra. In conclusione, se è vero che attualmente non viviamo ancora in un sistema geopolitico multipolare, è altrettanto vero che la conditio sine qua non del suo completamento è il passaggio a una nuova fase bipolare che, pur non basandosi più sulla storica contrapposizione ideologica tra capitalismo e marxismo, conserva comunque differenze epocali di visione del mondo. Non si tratta quindi solo di proporre una riorganizzazione delle relazioni internazionali o di interpretare l’attuale fase storica come il passaggio dalla competizione geopolitica a quella geoeconomica, ma di approfondire ulteriormente la sinergia già esistente tra le forze che tendono a favorire il multipolarismo per far capire che l’attuale precario equilibrio bipolare può essere rotto solo con il ridimensionamento strategico degli Stati Uniti d’America. Solo quando Washington accetterà o sarà costretta a rinunciare al suo tentativo di egemonia mondiale, di fronte all’evidenza della sua incapacità di guidare il pianeta, si realizzerà l’agognato sistema multipolare; nel frattempo, la fase intermedia non potrà che essere sempre più bipolare, come gli ultimi avvenimenti stanno evidenziando: il trinceramento del mondo atlantico, Europa compresa, a difesa della supremazia del dollaro statunitense.
Allo stesso tempo, la fine dell’eurocentrismo richiede una nuova idea-forza da parte dei sostenitori del mondo multipolare che imponga la fine dell’assunto di occidentalizzazione-modernizzazione-liberismo-democrazia-diritti umani/individuali come unico progresso possibile dell’umanità. Un processo di cambiamento culturale che dovrebbe essere coordinato con i Paesi BRICS, ai quali potrebbero presto aggiungersi almeno altre 20 nazioni di varie parti del globo.
Dovrebbero poi riconoscere il ruolo della Russia come Piemonte d’Europa e cercare di coagulare tutte quelle forze genuinamente antiamericane presenti all’interno del Vecchio Continente (tenendo presente la subordinazione e la complicità dell’Unione Europea con l’imperialismo statunitense).
Una transizione pacifica dall’unipolarismo al multipolarismo potrebbe essere più conveniente per tutti. Il mondo sarebbe diviso in zone d’influenza in cui le potenze regionali e vicine si attivano per risolvere eventualmente le varie questioni in modo pacifico: è il modello che ho definito globalizzazione multipolare, perché si basa su diversi attori-civiltà e sulla composizione possibilmente win-win degli interessi. Ma la vittoria militare russa in Ucraina e il completamento del processo di dedollarizzazione già in atto costituiscono le premesse indispensabili.
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