LA GUERRA IN SUDAN E L’EREDITA’ DEL GOVERNO DI BASHIR

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di Gabriella Agyei

La guerra in Sudan, in corso da ormai quattro mesi, continua a dispiegarsi imperterrita, e all’orizzonte non sembra esserci alcun segnale di una possibile risoluzione pacifica; questo a causa dell’inabilità della comunità internazionale di mediare alla pace e dell’indisponibilità al dialogo da parte dei leader coinvolti nella guerra.

Il Paese africano nord-occidentale sta affrontando un conflitto scoppiato il 15 aprile scorso tra le forze paramilitari di supporto rapido (RSF), guidate dal generale Mohammed Hamdan Dagalo (conosciuto come Hemedti), e l’esercito sudanese nazionale, guidato da Abdel Fattah al-Burhan, attuale presidente del Paese.

Le due fazioni hanno collaborato nel 2019 per porre fine al regime dittatoriale di Omar al-Bashir, ma il rifiuto del generale Hemedti di sciogliere le RSF per integrarle all’interno dell’esercito nazionale, (condizione che era ritenuta necessaria per avviare correttamente il processo di transizione democratica del Sudan) ha portato allo scontro tra le forze armate.

Sono passati ormai quattro mesi dall’inizio della guerra in Sudan e il conflitto ad oggi ha causato oltre tre milioni di sfollati e tremila vittime. A comunicare queste drammatiche cifre è l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (OIM), che sottolinea che dei tre milioni di rifugiati 2,3 milioni sono sfollati interni, mentre 700mila si dirigono verso i Paesi circostanti.

L’escalation delle violenze, scoppiate il 15 aprile 2023 tra l’esercito sudanese nazionale e le forze paramilitari di supporto rapido (RSF), sta aggravando la grave situazione umanitaria del Paese e della regione. Almeno 24,7 milioni di persone (che costituiscono la metà della popolazione) hanno urgente bisogno di aiuti umanitari e protezione; un terzo si trova in Darfur, dove la situazione sta diventando sempre più drammatica. Proprio questa regione, infatti, che ospita circa un quarto dei 48 milioni di abitanti del Sudan, è stata gravemente colpita dai combattimenti, con intere città gravemente danneggiate, massacri civili e omicidi a sfondo etnico.

Origini

Il grave stato di cose oggi è il risultato diretto degli errori del passato, è proprio la leadership autoritaria e militarista di Omar al-Bashir che alla fine ha portato il Sudan sull’orlo del collasso.

L’attuale crisi, infatti, ha radici saldamente ancorate all’era dell’ex presidente: non solo ha creato personalmente e conferito potere alle Forze Paramilitari di Supporto Rapido (RSF), ma ha anche coltivato la cultura dell’impunità, della dipendenza militare e della riduzione del ruolo della società civile, tutti elementi che hanno gettato le basi per i tragici eventi a cui stiamo assistendo oggi.

Il conflitto, esploso a metà aprile, è nato da uno scontro di potere tra l’RSF, guidate dal generale Mohammed Hamdan Dagalo (Hemedti) e le Forze Armate Sudanesi (SAF), fedeli al leader de facto del Paese, Abdel Fattah al-Burhan.

La RSF (che all’epoca prendeva il nome di Janjaweed- “demoni a cavallo) è stata fondata nel 2003 dall’ex presidente con l’obiettivo di stroncare le ribellioni nella regione del Darfur. Nel 2013 ne ha aumentato l’autonomia, trasformandola nell’attuale RSF.

Nel 2019 il Gruppo paramilitare di Hemedti e le Forze Armate Sudanesi hanno collaborato per porre fine al regime dittatoriale di Bashir, iniziato nel 1989. I mesi di negoziati tra forze armate, partiti politici e società civile (sostenuta da un’alleanza di Stati occidentali e dall’Unione Africana), erano risultati in un rinnovato accordo politico volto a formare un nuovo governo, che avrebbe riavviato il processo di transizione democratica, concretizzando l’Accordo di Juba, firmato nel 2020 dal governo transitorio del Sudan e i gruppi armati del Paese. Indispensabile per l’Accordo era lo smantellamento delle decine di gruppi armati e delle forze paramilitari, a cui sarebbe seguita la loro integrazione in un esercito nazionale. Il rifiuto da parte di Hemedti di ricondurre le Forze Paramilitari RSF sotto il controllo delle forze regolari ha portato alla definitiva rottura dei due generali e allo scoppio dei combattimenti.   

Crimini di guerra

Le frequenti segnalazioni di violenza, attribuite alle Forze Paramilitari, hanno attirato l’attenzione della Corte Penale Internazionale (ICC). Tale Corte sta investigando nuovi crimini di guerra nella regione del Darfur Occidentale, il cui capoluogo El Geneina è attualmente sotto il controllo della RSF. La Corte indaga in particolare su massacri civili, stupri di massa, incendi a case e mercati, omicidi a sfondo etnico e violenze nei confronti di bambini. Il ritrovamento di una fossa comune contenente 87 vittime prevalentemente appartenenti all’etnia Masalit (un’etnia contadina di ceppo non arabo) ha sollevato l’allarme delle associazioni dei diritti umani, delle ONG locali e del capo prosecutore dell’Aia, Karim Khan, che ha affermato l’intenzione della Corte di seguire con estrema attenzione gli attuali accadimenti nella regione del Darfur.

Il Sudan ha una lunga storia di mancata cooperazione con la Corte Penale Internazionale, motivo per cui il suo procuratore capo  Karim Ahmad Khan ha sottolineato l’importanza dell’indagine per impedire che “la storia si ripeta”, facendo riferimento alla prima guerra nel Darfur tenutasi tra il 2003 e il 2008.

In tale guerra, infatti, il governo sudanese guidato da Omar al-Bashir ha portato avanti una pulizia etnica nei confronti delle etnie non arabe del Darfur, questo in risposta agli attacchi da parte delle forze ribelli del Movimento di Liberazione del Sudan e del Movimento di Giustizia ed Equalità, che accusavano il governo centrale di Bashir di opprimere la popolazione non araba della regione. La Corte dell’Aia ha proceduto con l’invio di quattro mandati di arresto, uno di questi rivolto a Bashir stesso, accusato di genocidio, crimini di guerra e crimini contro l’umanità. Non essendo il Sudan però parte della Corte Penale Internazionale l’ex presidente non ha subito dirette conseguenze.

Seppur i membri della Corte non possano operare direttamente sul territorio a causa della mancata sicurezza, le indagini proseguiranno con speditezza, anche grazie alla creazione di un portale sicuro online che permette agli individui di inviare segnalazioni sui crimini compiuti da parte delle milizie.

Crisi umanitaria

Secondo l’OCHA (Ufficio delle Nazioni Unite per gli affari umanitari) la situazione umanitaria in Sudan è “catastrofica”. Prima ancora dello scoppio del confitto circa 15,8 milioni di persone (un terzo della popolazione) erano fortemente dipendenti da aiuti umanitari. Lo scoppio dei combattimenti, però, ha portato molte ONG e agenzie ONU a dover abbandonare il Paese, aumentando esorbitantemente il numero di persone in difficoltà. 11,7 milioni di persone, infatti, si trovano in condizioni di insicurezza alimentare acuta, aggravata dal cambiamento climatico e della società.

L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, nel recente report sull’attuale situazione migratoria del Paese, ha sottolineato che gli sfollati interni sono tre milioni. La maggior parte fuggono da Khartoum (67%) e da Darfur (33%) verso lo Stato Nord (16%) e gli Stati del Fiume Nilo, Darfur Occidentale e Nilo Bianco.  Inoltre, dei 700mila che fuggono verso i Paesi confinanti, il 40% si muove verso l’Egitto, il 28% sceglie il Chad, mentre il 21% si sposta in Etiopia, in Sudan del Sud e verso la Repubblica Centrafricana.  

L’OIM, denunciando la grave crisi umanitaria che si sta dispiegando nel Paese, ha chiesto il “cessate il fuoco” permanente e la rimozione di tutti gli ostacoli burocratici al fornimento di assistenza, per assicurare e garantire i corridoi umanitari e l’aiuto di cui le persone hanno bisogno.

Gli effetti sulla regione

Il conflitto in Sudan rappresenta un grave rischio per il Corno d’Africa, regione che sta già affrontando una grave crisi umanitaria, costituita da insicurezza alimentare, instabilità politica e cambiamento climatico. Somalia, Etiopia, Eritrea e Gibuti hanno dimostrato grande interesse per gli sviluppi in Sudan, soprattutto a causa della crescente concorrenza globale per il controllo strategico del Mar Rosso, il Golfo di Aden e l’Oceano Indiano.

L’Etiopia, in particolare, che confina con il Sudan a Ovest e con il Sudan Meridionale a Sud-Ovest, ha a lungo collaborato con il Paese e c’è una storia di interdipendenza e scambi politici tra i due. Proprio per questo motivo, allo scoppio della guerra, il governo di Addis Abeba è stato il primo indiziato per i media internazionali, che l’hanno accusato di avere interessi nella guerra sudanese. Non sono mancate però anche le dispute, le relazioni del Sudan con l’Etiopia, infatti, sono state a lungo tese a causa di questioni come i terreni agricoli contesi lungo il loro confine.

L’Etiopia deve ancora riprendersi completamente dal conflitto armato nel Tigray, il quale ha innescato una crisi di rifugiati che è ancora in corso e che esacerba le profonde tensioni etniche tra gli etiopi stessi e tra le autorità federali governative e gli Stati regionali. Il Sudan è stato un Paese di destinazione e di transito per richiedenti asilo, rifugiati e migranti provenienti dai Paesi vicini. Ha accolto più di 50.000 rifugiati etiopi nelle parti già impoverite del Sudan orientale durante la guerra del Tigray. Tuttavia, con lo scoppio dei combattimenti, il rapporto si è rovesciato, e l’Etiopia si è trasformata in Paese ricevente, trovandosi ulteriormente in difficoltà.

Un altro elemento fondamentale nell’inquadramento dei rapporti che intercorrono tra i Paesi della regione è la costruzione del Grand Ethiopian Renaissance Dam, che insegue l’obiettivo di diventare il più grande impianto idroelettrico dell’Africa. A partire dalla sua costruzione nel 2011, l’imponente diga ha causato tensioni geopolitiche tra Etiopia, Egitto e Sudan. Questi ultimi, infatti, hanno a lungo sottolineato la loro disapprovazione per il progetto, ritenendolo una potenziale minaccia ai cittadini e alle loro dighe sul Nilo. Con lo scoppio del conflitto però gli occhi delle altre parti coinvolte osservano attentamente lo sviluppo degli eventi, questo perché l’istituzione di un nuovo governo a Khartoum influenzerà il progetto e farà pendere la bilancia della disputa.

Nel frattempo, si è tenuto in Egitto un Vertice che ha riunito i leader dei sette Paesi confinanti del Sudan e il cui esito è stato un meccanismo congiunto ed un piano d’azione regionale mirato a moltiplicare gli sforzi di risoluzione del conflitto. L’incontro è stato promosso dal presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, e ha riunito alti rappresentati dei governi di Ciad, Repubblica Centrafricana, Libia, Eritrea, Etiopia e Sud Sudan, oltre al presidente della Commissione dell’Unione Africana ed il segretario generale della Lega degli Stati Arabi.  È stato espresso più volte il desiderio di impegnarsi a preservare l’integrità e la legittimità delle istituzioni del Sudan, sostenendo quindi l’esercito nazionale, che nella dinamica attuale ne rappresenta la spina dorsale.

Nonostante le ammirabili intenzioni però, gli ultimi quattro mesi di conflitto e i molteplici “cessate il fuoco” non rispettati, dimostrano che le promesse di impegno non sono sufficienti. Per avviare un processo di risoluzione concreto serve che la comunità internazionale non si limiti a disegnare piani a tavolino ma che proponga piani concreti che portino al risultato desiderato: la fine del conflitto.

Le preoccupazioni delle potenze mondiali

Il Sudan, geograficamente, si trova al confine con il Mar Rosso, la regione del Sahel e il Corno d’Africa. La sua posizione strategica e la ricchezza agricola hanno attratto giochi di potere regionali, complicando le possibilità di una transizione di successo verso un governo a guida civile.

Sono in gioco anche importanti dimensioni geopolitiche, con Russia, Stati Uniti, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e altre potenze che si contendono l’influenza in Sudan.

I sauditi e gli emiratini hanno visto la transizione del Sudan come un’opportunità per respingere l’influenza islamista nella regione. Loro, insieme agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna, formano il “Quad”, che ha sponsorizzato la mediazione in Sudan insieme alle Nazioni Unite e all’Unione Africana.

Le potenze occidentali temono la potenziale costruzione di una base russa sul Mar Rosso, opzione verso la quale i leader militari sudanesi hanno espresso apertura.

Mosca, infatti, svolge un ruolo tutt’altro che secondario. Il Cremlino ha sempre sostenuto l’esercito sudanese attraverso la vendita di armi, ma è soltanto nel 2017 che le relazioni tra le due nazioni hanno raggiunto un nuovo livello di cooperazione. Nel novembre di quell’anno, l’allora presidente Omar Al Bashir – spinto nelle braccia del Cremlino dall’isolamento internazionale e dalle sanzioni imposte dagli Stati Uniti – aveva affermato che il Sudan poteva rappresentare per Mosca la “chiave per l’Africa”. 

Proprio in quell’occasione i due Paesi avevano annunciato un piano per la realizzazione di una base navale russa nel Mar Rosso a Port Sudan, siglando accordi commerciali e securitari, grazie ai quali il governo russo è riuscito a penetrare nell’economia sudanese sfruttando la partnership con soggetti vicini alle RSF e all’esercito.

Nel 2019 le relazioni tra Mosca e Khartoum si sono intensificate ulteriormente grazie all’accresciuto potere contrattuale delle RSF derivante dal controllo dell’industria mineraria. Il ministero degli Affari esteri russo, inoltre, ha confermato la presenza in Sudan di mercenari del gruppo Wagner impegnati ad addestrare le forze di polizia e l’esercito in risposta alle rivolte antigovernative sottolineando quindi la collaborazione tra i due Paesi.

Gli Stati Uniti, dal canto loro, seppur abbiano tentato di aumentare la loro influenza nel Paese, si trovano in svantaggio rispetto al governo del Cremlino, che procede imperterrito con l’estensione della sua influenza verso il continente africano. Secondo CNN, infatti, dallo scoppio della guerra, la Wagner starebbe offrendo supporto alla RSF con l’invio di missili.

È evidente che anche le potenze internazionali hanno diversi interessi nella guerra che si sta dispiegando, il Sudan diventa quindi un’altra arena di scontro della politica di allineamento e non allineamento portata avanti dai diversi Paesi della comunità internazionale.

Il futuro

Il conflitto è ormai entrato al suo quarto mese, i diversi canali diplomatici avviati e i “cessate il fuoco” indotti non hanno portato ad esito positivo, questo a causa dell’irremovibilità e della sete di potere dei due generali, attualmente non disponibili a giungere a compromessi. Se il conflitto dovesse prolungarsi a lungo ancora, però, la situazione umanitaria raggiungerebbe il collasso e la crisi dei rifugiati peggiorerebbe in maniera indiscutibile.

Per poter giungere a una soluzione è importante quindi che le potenze internazionali pongano pressione alle parti coinvolte nel conflitto e si attivino per trovare una soluzione concreta e significativa, evitando che il Sudan e la regione intera affrontino conseguenze ancora più gravi.

Gabriella Agyei è una studentessa di Scienze Politiche presso l’università di Bologna. In qualità di collaboratrice del CeSem Centro Studi Eurasia E Mediterraneo si occupa di Africa Sub-sahariana.

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