LA LIBERAZIONE DEL TIBET (prima parte)

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“La Repubblica Popolare Cinese e il Tibet”: progetto di ricerca del Cesem.

 

1. CENNI STORICI SULLA REGIONE AUTONOMA CINESE DEL TIBET

Risalire alle origini della storia tibetana non è compito per nulla semplice, in quanto la genesi di questo popolo si perde – peraltro secondo interpretazioni storiografiche spesso discordanti – almeno agli albori del VI° secolo a.C. Sembra tuttavia probabile che in quel tempo, alcune tribù nomadi guerriere Qiang si stabilirono provvisoriamente nella regione dell’attuale Tibet. Quello che pare essere più probabile, invece, è che un popolo tibetano più propriamente detto può essere fatto risalire all’incontro di diverse popolazioni convergenti dai territori dell’Asia centrale ad ovest, dalla Valle dell’Indo a sud-ovest, dalla profondità delle foreste birmane del sud-est, dalla Valle dello Yangzi ad est e dalle sponde del Fiume Giallo da nord. Tale convergenza di diverse etnie, peraltro, pare essere testimoniata ancora oggi dalle diverse sfumature linguistiche, architettoniche, mitologiche e culturali permanenti tra le diverse valli tibetane. Queste tribù dedite al nomadismo, con una probabile predominanza della componente birmana, si stanziarono nell’altopiano tibetano tra il 700 a.C. ed il 400 a.C., dando origine ai prodromi di un regno minimamente coeso solo nel 127 a.C., l’antico regno di Yarlung del 127 a.C., data che coincide con l’inizio del calendario tibetano. La dinastia che resse tale regno, stabilita ad opera del sovrano Nyatri Tsenpo, durò con relativa continuità fino all’anno 842 e vide l’avvicendamento di almeno 42 sovrani. La religione diffusa nel regno era il Bön, una sorta di sciamanesimo fortemente legato ad una visione animista. Tale regno s’ingrandì progressivamente, annettendo diversi territori circostanti ancora scarsamente popolati. Il buddhismo, nella sua forma locale di lamaismo, sarebbe arrivato in Tibet nel 333 d.C. grazie all’opera del re Lha Toto Ri Gniendzen (284 d.C.-363 d.C.), che indusse alla conversione dei propri sudditi. Va segnalato che già attorno al 400 d.C. il regno tibetano era in grado di inviare propri emissari verso la Cina, con cui andavano ad intessersi i primi rapporti di tipo culturale e commerciale. Secondo un’altra versione – che più che alternativa alla precedente potrebbe considerarsi complementare – attribuisce al re Songtsen Gampo (figlio di Namri Songtsen) il primato della conversione al buddhismo, nel 617 d.C. Quello che risulta meno dubbio, è che il re Songtsen Gampo di Yarlung (598 d.C.-650 d.C.) unificò ulteriormente i territori assoggettando tutti i regni che vi si erano formati in precedenza, fondando l’Impero del Tibet che comprendeva ormai tutti i territori in cui era parlato il tibetano. Ancora nel 653 d.C. venne stabilita la prima scuola teologica tibetana, da cui prese origine, nel 690 d.C., l’attuale alfabeto tibetano ed iniziò a prendere corpo una relativa omogeneità culturale tibetana, ed il buddhismo (nella sua versione lamaista) divenne religione ufficiale nel 751 d.C. Nell’VIII secolo l’impero tibetano ebbe un periodo di espansione sotto il re Trisong Detsen (755 d.C.-804 d.C.), arrivando ad estendersi in diverse aree dell’Asia centrale, fino ad occupare temporaneamente la città cinese di Ch’ang-an, (l’odierna Xian nel 763). Durante questo periodo il buddhismo tibetano divenne la religione ufficiale ed assunse una connotazione particolare con l’introduzione dell’influenza del Tantra, mutuando tanto dalle versioni cinese quanto da quella indiana, grazie agli insegnamenti di Padmasambhava, venerato in Tibet con il nome di Guru Rinpoche. Fu fondata la più antica scuola di buddhismo tibetano, chiamata Nyingma (antica), e fu costruito a Samye il primo monastero lamaista del Tibet nel 775. La massima espansione territoriale si ebbe attorno all’anno 810 durante il regno di Sadnalegs, quando fu espugnata Samarcanda, con l’acquisizione della quale i tibetani si garantirono l’accesso ai percorsi commerciali dell’antica Via della Seta. Il penultimo imperatore fu Ralpacan, o Ralpachen (815-836), conosciuto come il terzo grande re del Dharma per la sua opera di diffusione del buddhismo tibetano. Nel suo regno, l’ultimo del periodo indipendente del Tibet, fu firmato un trattato di pace con la Cina nel biennio 821-822. Questo documento, sostanzialmente mirante ad una reciproca collaborazione, fu inscritto nelle due lingue su ognuna delle tre stele che furono posizionate rispettivamente all’esterno del palazzo imperiale cinese di Ch’ang-an, di fronte al portone principale del tempio di Jokhang a Lhasa, mentre l’ultima venne posta sulla sommità del passo di Chiang Chun, presumibilmente nella zona dell’attuale Tianshui, nella provincia del Gansu. Va ricordato che nonostante l’affermarsi del buddhismo, la preesistente religione Bön era ancora molto seguita, in particolare presso la corte imperiale, e Ralpacan fu assassinato dal fratello Tri Wudum Tsen (836-842) che, istigato dai seguaci della disciplina Bön, dopo aver assunto il titolo di imperatore, instaurò un regime di terrore perseguitando i buddhisti e distruggendone i templi, guadagnandosi l’appellativo di Langdarma, che significa la legge del bue. Questi venne a sua volta assassinato, in una data imprecisata tra l’842 e l’846, dal lama Dorje Palgyi Lhalung. Il paese, già allo sbando dopo l’assassinio di Ralpacan, precipitò nel caos istituzionale e l’impero si frantumò definitivamente.

Alla morte di Langdarma, fece seguito una lunga e sanguinosa guerra civile, comportando la frantumazione dinastica in diversi regni, in acerrima competizione tra loro. Lhasa restò un punto di riferimento per i pellegrini tibetani, ma anche il suo prestigio spirituale si offuscò, oltre a perdere il ruolo di capitale politica, perse anche quello di capitale religiosa, a seguito della cacciata dei monaci buddhisti da parte di Langdarma. Avrebbe lentamente riacquistato la sua importanza solamente nel corso dei secoli successivi, fino a tornare a svolgere un ruolo religioso di rilievo solo nel XV secolo, con l’affermarsi della scuola lamaista Gelug e l’avvento dei Dalai Lama, rappresentanti della gerarchia ecclesiastica locale. Un pronipote di Langdarma, tale Wosung, si instaurò nel Tibet occidentale, dove fondò il regno di Ngari, e tre suoi discendenti si spartirono il territorio dando vita rispettivamente ai regni di Guge, Purang e Maryul, l’odierno Ladakh. Dopo la diaspora fratricida degli ecclesiastici da Lhasa, il buddhismo tibetano seppe lentamente riorganizzarsi nei monasteri delle regioni orientali di Kham e Amdo, per poi rifiorire anche nel resto del paese, a cominciare dalle regioni centro occidentali nei regni di Guge e di Ngari. Il re Yeshe di Ngari, a cavallo tra il X e l’XI secolo, invitò diversi monaci, letterati ed artisti e fece tradurre i testi sanscriti in tibetano e decise di costruire 108 templi nella valle del Sutlej, dando il via ad un vero e proprio rinascimento del credo lamaista. La rinascita religiosa modificò profondamente il buddhismo tibetano, ed in questo periodo nacquero due delle principali quattro scuole del lamaismo: dapprima venne fondata quella dei Sakya, grazie all’opera del lama Sachen Kunga Nyingpo, ed in seguito quella dei Kagyu, creata dal monaco Gampopa con l’elaborazione degli insegnamenti di Marpa. La scuola Kagyu avrebbe dato luogo a diverse sotto-scuole tra le quali quelle dei Karmapa e degli Shamarpa. Tutti questi lignaggi, che negli anni avrebbero visto l’alternarsi di periodi di ostilità e periodi di collaborazione, furono chiamati Sarma, che significa nuova trasmissione, ed avrebbero avuto un ruolo importante nelle storia politica successiva, in quanto fu proprio in questi anni che il potere politico e quello religioso in Tibet si legarono indissolubilmente, gettando i fondamenti di un modello di governo assoluto e teocratico. I Karmapa introdussero nel XIII secolo il concetto di tulku, ancora oggi in vigore, secondo cui il capo spirituale della setta può scegliere in quale corpo reincarnarsi. La società del periodo prevedeva fondamentalmente tre tipi di proprietà: quella della nobiltà, quella del clero buddhista e quella libera, che esercitavano il loro potere assoluto sulla popolazione, la cui condizione era paragonabile a quella dei medievali servi della gleba in occidente. L’assimilazione tra il potere ecclesiastico e quello temporale fu l’unica modifica di quello schema feudale, che con la nuova conformazione sarebbe rimasto immutato fino alla liberazione cinese del 1951, allorquando venne incrinato il principio della teocrazia clericale lamaista.

A partire dal XIII secolo, i destini della regione tibetana si intrecciarono definitivamente con quelli cinesi, a seguito dell’espansione dell’impero mongolo in tutto il sud-est asiatico. In particolare nel 1206 assunse la guida dell’Impero mongolo Gengis Khan (1167-1227), e tra i vari territori che riuscì ad espugnare ci fu il Xia occidentale, uno dei due imperi in cui era divisa allora la Cina e situato ai confini nordorientali del Tibet retto dai sovrani Tangut, conosciuti dai tibetani anche come Minyak, in cui si era diffusa la scuola lamaista Kagyu. Fu una conquista difficile, con una serie di attacchi che cominciò già nel 1202 e si concluse un mese prima della sua morte nel 1227. Le grandi vittorie di Gengis Khan e la situazione precaria del Xia occidentale preoccupò le sfere ecclesiastiche tibetane che, nel timore di un’imminente invasione del paese, inviarono una delegazione guidata da Tsangpa Dunkhurwa nel 1221. La missione fece atto di sottomissione al condottiero mongolo ed offrì il pagamento di tributi convincendo Gengis Khan a non invadere militarmente l’altopiano. Dopo la sua morte i lama si affrancarono da tale obbligo ed il figlio di Gengis Khan, Ögedei Khan (1186-1241), ordinò la prima invasione del Tibet nel 1240, ma l’anno dopo morì e le sue truppe si ritirarono nuovamente. Ancora, il figlio di Ögedei e fratello del nuovo Gran Khan Güyük (1206-1248), tale Köden, si convertì al buddhismo tibetano e a tale scopo invitò alla sua corte come maestro spirituale il più importante lama di quel tempo, Sakya Pandita, che era appunto discepolo della scuola Sakya, Nel 1247 il principe Köden invase la quasi totalità del Tibet, facendone uno stato vassallo di cui fu nominato governatore lo stesso Sakya Pandita, che diede così inizio alla dinastia dei Sakya, al cui vertice si succedettero 19 governatori che avrebbero controllato il territorio in nome dei mongoli fino al 1358. In questo modo fu introdotta per la prima volta la relazione prete-protettore, chiamata cho-yon, in base alla quale i Sakya ottennero alcuni margini di autonomia nel governo del territorio, un privilegio a cui nessun altro dei popoli dell’Impero mongolo dai mongoli ebbe riconosciuto. Nel 1258 il condottiero mongolo Kublai Khan (1215-1294), organizzò una disputa tra teologi taoisti e lamaisti che, almeno secondo fonti tibetane, fu vinta da questi ultimi, con la conseguente distruzione dei testi dei taoisti che vennero costretti a convertirsi forzosamente al lamaismo. A capo della delegazione tibetana era Drogön Chögyal Phagpa, il Sakyapa Lama nipote e successore di Sakya Pandita, che in virtù di tale vittoria acquisì grande influenza alla corte mongola, fino ad essere nominato precettore imperiale (guoshi o dishi) nel 1260. Fu così ristabilita da Kublai la supremazia nella corte mongola dei Sakya e del lamaismo, che erano state abolite dal suo predecessore e fratello Möngke Khan (1208-1259). É importante ricordare che Kublai, che stava completando l’unificazione della Cina all’Impero mongolo, sostenne Phagpa nel prendere l’egemonia sui vari regni ed ordini monastici tibetani; nel 1268 gli affidò la conduzione di un censimento secondo cui il Tibet era diviso in 13 stati, sui quali gli affidò il potere temporale con la carica di tutore imperiale. Come precettore Phagpa visse sempre in Cina, ed un subalterno governò il Tibet in sua vece con il titolo di ponchen, secondo una gerarchia di tipo feudale. Questi eventi segnarono la riunificazione del Tibet con la Cina, nonché l’instaurazione in esso della prima teocrazia, una svolta epocale che avrebbe segnato il futuro assetto politico e religioso del paese negli anni successivi. A tutti gli effetti, il periodo tra il 1270 e il 1370 può considerarsi come la prima riunificazione istituzionalmente stabile tra Cina e Tibet, attuata da Kublai Khan, capostipite della dinastia Yuan.

(La regione cinese del Tibet all'epoca della dinastia Yuan)
(La regione cinese del Tibet all’epoca della dinastia Yuan)

La riunificazione della Cina fu completata nel 1279, e Kublai Khan divenne il primo sovrano della dinastia Yuan (1271-1368) dell’Impero cinese. Questi lasciò inalterati i sistemi di amministrazione delle regioni controllate, ed il sistema governativo che instaurò nella nuova capitale Pechino, basato su quelli delle precedenti dinastie cinesi, venne esteso anche in Tibet. Tuttavia permanevano gravi dispute di carattere teologico (e quindi anche dinastico) tra i reggenti locali del Tibet; la supremazia dei Sakya fu messa in pericolo nel 1285, quando scoppiò una rivolta dei sostenitori della scuola lamaista Kagyu del ramo Drikung alleatisi con i mongoli di Duwa, re del Khanato Chagatai, stanziato a nord-ovest del Tibet e in conflitto con i mongoli orientali. L’intervento delle truppe Sakya e di quelle imperiali provocò diverse vittime e il contenzioso sarebbe culminato solamente nel 1290 con la distruzione del monastero Drikung dove si erano asserragliati i ribelli. Ma quello che risulta essere più importante è il periodo connesso al declino dell’Impero mongolo. Allorquando il potere dei mongoli cominciò a declinare, il governo dei Sakyapa fu rovesciato tra il 1354 ed il 1358 da Tai Situ Changchub Gyaltsen (1302-1364), il più alto esponente del ramo Phagdru della scuola buddhista Kagyu, legato ai Drikung, che diede inizio alla dinastia Phagmodrupa. Insediò la capitale del nuovo regno a Nedong, nella valle dello Yarlung, nel Tibet del sud, ed estese il controllo su parte del Tibet centrale. I cinesi si emanciparono a loro volta dal dominio mongolo nel 1368, quando ebbe inizio la dinastia Ming (1368-1644), ed il regno locale tibetano rimase un regno ricompreso nell’Impero cinese; i Phagmodrupa ottennero dall’imperatore il titolo di Chanhuawang, che potrebbe essere tradotto con i principi che diffondono il buddhismo. Il periodo Ming va considerato nella storia tibetana come il secondo grande periodo di riunificazione con la Cina, e si pose in continuità con il periodo Yuan del secolo precedente. Dopo il 1644, con l’avvicendamento tra dinastia Ming e dinastia Qing, ci sarebbe stato un terzo periodo, nel quale il Tibet sarebbe figurato come regione ricompresa nella Cina della dinastia manciù, i Quing (1644-1911), di fatto costituendo una lunga unità che sarebbe durata per circa sette secoli. Ma andiamo con ordine.

(La regione cinese del Tibet all'epoca della dinastia Ming)
(La regione cinese del Tibet all’epoca della dinastia Ming)

Nel XV secolo il Tibet si spaccò nuovamente al proprio interno, con l’avvento del clan dei Rinpung che si era impossessato nel 1434 della zona di Shigatse, nello Tsang, la parte centro-occidentale della valle dello Yarlung, dove patrocinavano il potente ramo della scuola Kagyu dei Karmapa; avevano inoltre esteso la loro influenza tra i Phagmodrupa, i cui regnanti di quegli anni avevano origini Rinpung. I Rinpung consolidarono i loro territori e fondarono l’omonima dinastia. Mentre le due dinastie Phagmodrupa e Rinpung regnavano parallelamente, si sviluppò una nuova scuola di buddhismo tibetano, chiamata Gelug, che era nata nel 1409 ed era diventata una delle quattro principali del buddhismo tibetano, ed è quella che tuttora ha più influenza, tanto che ad essa appartiene l’attuale Dalai Lama, pur non essendone il capo. La guida dei Gelugpa per tradizione è un successore del fondatore della scuola, Tsongkhapa, che fondò il monastero di Ganden, il centro principale del nuovo movimento, e fu uno dei principali maestri di quello che avrebbe ricevuto il titolo postumo di primo Dalai Lama, Gendun Drup (1391-1474). Nel 1475 nacque la “reincarnazione” di Gendun Drup, Gendun Gyatso (1475-1542), che contribuì a diffondere la dottrina Gelug in Tibet viaggiando intensamente, e nel 1578 il suo successore, il potente monaco della scuola Gelug Sonam Gyatso (1543-1588) divenne maestro dell’imperatore mongolo Altan Khan. Secondo alcune fonti questi gli conferì il titolo onorifico di Oceano di Saggezza (ovvero Dalai Lama), ma l’attuale Dalai Lama Tenzin Gyatso ha dichiarato che secondo le sue fonti tale appellativo fu usato dal re mongolo solo in segno di deferenza, e che non fu un’investitura ufficiale. Questo a testimonianza di quanto intricate siano state – e siano tuttora – le dispute teologiche e gerarchiche tra le varie scuole del lamaismo, che nella sua lunga storia ha sempre intersecato questioni teologiche e questioni temporali, dando vita a conflitti e contenziosi intestini di difficile comprensione. Se il primo Dalai Lama si era occupato quasi esclusivamente di approfondire gli studi teologici e diffondere la religione, il secondo entrò nello scenario politico stringendo amicizia con il principe Phagmodrupa, mentre il terzo si rivelò un potente politico con i suoi uffici presso la corte mongola e divenendo amico personale del penultimo principe Phagmodrupa, Kagyud Nampar Gyalwa. Il principe successivo, Mipham Sonam Wangchuk Drakpa Namgyal Palzang, fu a capo di una delegazione che si recò in Mongolia per prendere in consegna quello che era stato riconosciuto come il quarto Dalai Lama, Yonten Gyatso (1589-1617), un principe mongolo discendente di Altan Khan, che giunse a Lhasa accompagnato da un esercito mongolo. Nel frattempo la dinastia Rinpung ebbe un periodo di splendore alla fine del XV secolo, che la vide completare la conquista dello Tsang, assumere la reggenza della declinante dinastia Phagmodrupa e conquistare il regno Guge della regione dello Ngari nel Tibet occidentale. Oltre a quello dei Karmapa si era assicurata anche l’appoggio del ramo Shamarpa della scuola Kagyu. Il più importante dei suoi sovrani fu Donyo Dorje, che regnò fino alla morte avvenuta nel 1510 e che guidò un esercito fino alla zona di Lhasa, ritirandosi prima di conquistarla temporaneamente. L’espansione di questo regno nel sud-ovest e quella della scuola Gelug nella zona di Lhasa portò allo scontro tra le due potenze, che avrebbe segnato pesantemente la storia del Tibet tra il 1500 ed il 1620. In questa fase i principi della declinante dinastia Phagmodrupa cercarono invano di comporre provvisoriamente il conflitto. Dopo la morte di Donyo Dorje cominciò il declino dei Ringpunpa che portò all’affermazione di un altro clan dello Tsang, gli Tsangpa, la cui dinastia, legata a sua volta ai Karmapa e agli Shamarpa, prese il potere nel 1565 grazie al sovrano Karma Tseten. La massima espansione Tsangpa si ebbe agli inizi del XVII secolo quando conquistarono il Tibet occidentale ed espulsero i mongoli alleati del quarto Dalai Lama; in tale occasione massacrarono 5.000 monaci Gelugpa che tentarono di resistergli dalle roccaforti di Sera e di Drepung. L’unica sconfitta di quel periodo fu quella con l’armata del ramo Drukpa della scuola Kagyu, il cui leader Shabdrung Ngawang Namgyal si distaccò dal Tibet cinese fondando il regno del Bhutan.

Momento senz’altro da da ricordare è quello seguito alla nuova minaccia mongola gravante sul Tibet cinese. Nel 1640 si registrò una nuova invasione mongola del Tibet da parte delle truppe di Gushri Khan, re degli hošuud. Questi, su invito del quinto Dalai Lama, sconfisse il nemico del patriarca, il re dello Tsang, che era legato ai karmapa, e occupò inoltre le regioni del Tibet orientale note come Kham orientale e Amdo, dove il re Tsangpa si era alleato con alcuni feudatari locali. In seguito a tali avvenimenti il re mongolo riunificò il Tibet, fece atto di sottomissione al Dalai Lama e gli affidò il potere politico e spirituale del paese, ottenendone in cambio il controllo dell’esercito ed il titolo formale di re del Tibet. A seguito dell’aggressione mongola s’impose il lamaismo Gelug, che favorì la creazione di uno stato teocratico a capo del quale nel 1642 fu posto Ngawang Lobsang Gyatso (1617-1682), il quinto Dalai Lama. Egli istituì un nuovo sistema di governo tibetano, conosciuto come Gaden Phodrang, una teocrazia di tipo feudale in cui il clero dei Lama esercitava sulla popolazione locale una vessatoria servitù della gleba; questo sistema sarebbe stato abbattuto solamente nel 1951. Il suo regno non vide pace duratura sul piano organizzativo, e alla sua morte ricominciarono congiure ed intrighi ed il paese ripiombò nell’anarchia. Dopo un susseguirsi instabile di diversi Dalai Lama, e con il declino della potenza mongola loro protettrice, il Tibet chiese nuovamente aiuto alla Cina. Infatti nel 1717 un altro popolo di origine mongola, gli Dzungar, furono chiamati dai tibetani per cacciare le armate del nipote di Gushri Khan, Lha-bzang Khan, inviso alla popolazione per aver destituito il sesto Dalai Lama. Gli Dzungar invasero il Tibet e uccisero Lha-bzang, ma si resero protagonisti di barbarie tali che i tibetani per liberarsene si videro costretti a chiedere l’aiuto dei cinesi, il cui imperatore Kangxi inviò delle truppe che presero Lhasa nel 1720. Ebbero così termine dopo cinque secoli le interferenze dell’Impero mongolo sul Tibet, e la Cina ottenne il diritto di avere un commissario residente (detto amban) a Lhasa; fu così che il Tibet si riunificò all’Impero cinese, rinunciando per propria scelta strategica alla propria autonomia amministrativa. Fu in questa occasione che i governanti tibetani cedettero gran parte del Kham orientale alla Cina in segno di gratitudine. La regione fu inglobata nelle province del Sichuan e dello Yunnan. Ai capi tribù locali, tra i quali figurava il re di Derge, fu concesso di continuare a governare come vassalli dell’imperatore cinese con residui margini di autonomia. Sempre nel XVIII secolo la zona nord del Kham chiamata Yushu entrò a far parte della provincia cinese del Qinghai. A rigor di logica, l’anno 1717 può essere considerato a tutti gli effetti come la data di riunificazione definitiva della regione tibetana con la Cina, almeno riferendosi all’epoca pre-moderna.

(La regione cinese del Tibet all'epoca della dinastia Qing)
(La regione cinese del Tibet all’epoca della dinastia Qing)

Riconquistata l’unità con la Cina, le truppe imperiali cinesi si premurarono di scortare a Lhasa il giovane settimo Dalai Lama, nato nel Tibet orientale e la carica di amban (è una termine manciù che significa alto funzionario, che corrisponde ad una serie di diversi titoli ufficiali del governo imperiale Qing) venne insediata in Tibet ufficialmente per rimanere a disposizione del Dalai Lama, con funzioni di raccordo con la capitale Pechino. Questo fu l’inizio della responsabilità manciù negli affari regionali tibetani, e con la presa di potere del principe tibetano Mi Wang (1724-1746), fu adottata una politica di ulteriore avvicinamento alle gerarchie imperiali cinesi. Così i suoi successori: il principe Ta li bador (1746-1751), anch’esso favorevole ai manciù, ed anche il lama Losan nag (1752-1792). Nel frattempo, nel 1788 i guerrieri nepalesi Gurkha invasero il sud del paese e furono respinti dalle truppe cinesi, a riprova del fatto che il governo di Pechino svolse essenzialmente la funzione di tutela degli interessi tibetani, nonché di protezione dei suoi confini, altrimenti esposti agli assalti dei guerrieri centro-asiatici. Un nuovo intervento cinese a favore del Tibet si verificò nel 1790, quando i rappresentanti (gli amban) dell’imperatore manciù si trasferirono a Lhasa e si cimentarono in una riorganizzazione politica e giuridica della regione, al fine di modernizzarla. Tra queste riforme, resesi necessarie per limitare gli intrighi e le infinite dispute tra le varie scuole lamaiste in acerrima competizione, nel 1793 il governo di Pechino promulgò una legge per la scelta del Dalai Lama e del Panchen Lama; con il nuovo sistema veniva compilata una lista di pretendenti ai titoli, ciascuno dei loro nomi veniva inserito in un’urna dalla quale veniva estratto il nome del nuovo patriarca alla presenza delle autorità cinesi. Tale scelta veniva in seguito ufficializzata con la ratifica del capo di stato cinese. Questo sistema è rimasto immutato fino ai giorni odierni.

Nel frattempo, la situazione internazionale era assai peggiorata: i britannici dal 1757 avevano assunto l’intero controllo della penisola indiana e, nel periodo dal 1835 al 1843, completarono la creazione del protettorato sul confinante Kashmir. E il Tibet era particolarmente esposto alle mire coloniali, come la storia di qualche decennio successivo avrebbe confermato. Consci del pericolo, nel 1856 i cinesi stipularono un trattato con i e britannici, il quale stabilì i confini tra Tibet cinese ed il Nepal. I manciù mantennero il controllo sul Tibet orientale per un periodo che sarebbe terminato solamente con lo sfaldarsi della loro dinastia. Proseguendo nel suo progetto colonialista, nel 1898 la Gran Bretagna intervenne militarmente una prima volta in Tibet e nel 1904 spedì forze militari indiane, al comando di Francis Younghusband per sanare una controversia confinaria, che di fatto significò l’occupazione militare della regione, volta ad anticipare l’interesse manifestato dallo zar di Russia. In risposta a questa operazione militare, il ministro degli esteri cinese confermò inequivocabilmente che era la Cina ad avere sovranità sui territori tibetani. Tuttavia, allorquando la missione coloniale britannica raggiunse Lhasa, il Dalai Lama era già fuggito ad Ulan Bator, in Mongolia, situazione che avrebbe costretto Sir Younghusband a ritornare in India senza aver raggiunto gli obiettivi prefissati, opzione non ritenuta accettabile per la corona inglese. Younghusband decise quindi di redigere un trattato unilateralmente, facendolo approvare a Potala da un reggente di comodo, Ganden Tri Rinpoche, e da altri ufficiali tibetani reclutati forzatamente con funzioni di “governo”. Il trattato stipulato illegalmente, obbligò il Tibet ad accettare diverse condizioni, tra cui l’apertura dei suoi confini all’India britannica senza l’imposizione di dazi doganali o altri impedimenti ai mercanti indiani e britannici, l’accettazione dell’insediamento di un agente e di avamposti commerciali nel sud del paese, l’obbligo di pagare 2,5 milioni di rupie come forma di indennizzo e l’impegno a non stringere relazioni con altre nazioni straniere senza l’approvazione preventiva della Gran Bretagna. La spedizione coloniale inglese durò un anno e l’esercito invasore si ritirò lasciando sul campo oltre 5.000 vittime tibetane e numerose devastazioni. Questo trattato anglo-tibetano fu riesaminato dai cinesi nel successivo trattato sino-britannico del 1906, con cui i britannici si impegnarono a non annettersi alcun territorio tibetano e a non intromettersi nell’amministrazione del governo locale, ricevendo in cambio il consenso dei cinesi all’istituzione dei rapporti commerciali anglo-tibetani avvenuta nel 1904. Entrambe le parti si impegnarono ad impedire che altre nazioni estendessero la loro influenza nel Tibet. Il governo di Pechino si prese inoltre la responsabilità del pagamento alla Gran Bretagna dei 2,5 milioni di rupie che il Tibet sarebbe stato costretto a versare in base al trattato del 1904. Ancora nel 1907, la Gran Bretagna e la Russia, nell’ambito della spartizione delle rispettive aree di influenza in Asia, si accordarono sul fatto che, nel rispetto di quanto stipulato con i precedenti trattati del 1904 e 1906, fossero riconosciuti i diritti di sovranità sul Tibet dei cinesi, ai quali veniva riconosciuto anche il diritto di intermediazione su tutti gli affari esteri tibetani. Con tale trattato i due stati europei si impegnarono inoltre a non minacciare l’integrità territoriale del Tibet e a non inviare loro rappresentanze a Lhasa. In sostanza l’Accordo anglo-russo evidenziava come, nonostante le mire coloniali delle diverse nazioni europee nell’area centro asiatica, la sovranità cinese sul Tibet rimaneva un fatto consolidato ed indiscutibile. Ma la situazione rimase precaria, visto l’ormai evidente sgretolamento dell’Impero cinese. Nel 1911 la rivoluzione repubblicana in Cina pose fine al millenario impero. Con la cosiddetta rivoluzione Xinhai (la rivoluzione venne così chiamata perché il 1911 fu un anno Xinhai del calendario cinese, conosciuta anche come la rivoluzione del 1911 o la rivoluzione repubblicana), che iniziò con la rivolta di Wuchang il 10 ottobre del 1911 e si concluse con l’abdicazione dell’imperatore Puyi il 12 febbraio del 1912, si ebbe l’ascesa di Sun Yat-sen alla presidenza della Repubblica di Cina. La dinastia Qing – che regnava ormai dal 1644 – venne archiviata dalla storia cinese, e le forze imperiali dovettero cedere il passo alle le forze emergenti dell’Alleanza Rivoluzionaria Cinese. Profittando di questi cambiamenti epocali, gli inglesi intervennero a loro volta ed occuparono Lhasa nel 1912. Tuttavia nella prima costituzione repubblicana fu riaffermata la sovranità sul Tibet, che veniva eletto a provincia cinese, come era ovvio che fosse. Tuttavia il XIII Dalai Lama profittò della situazione di riorganizzazione istituzionale, e nel 1913 Tibet e Mongolia firmarono nella capitale mongola Urga, l’attuale Ulan Bator, un trattato di alleanza e di reciproco riconoscimento dell’indipendenza dalla Cina; tuttavia questo trattato unilaterale non poteva avere alcun valore legale, e per ovviare a questa situazione nel 1914 venne negoziato in India un ulteriore trattato fra il Tibet, la Cina e la Gran Bretagna (la Convenzione di Simla) per definire confini e sovranità. Questo trattato era favorevole ai britannici e i cinesi non lo firmarono né lo riconobbero mai; per questo motivo rivendicano, ancora oggi, il territorio dell’Arunachal Pradesh, che i tibetani accettarono di cedere ai britannici. I confini seguivano una linea (la cosiddetta Linea McMahon) tracciata dall’allora negoziatore britannico, Sir Henry McMahon. L’autonomia tibetana, sotto la sovranità cinese, era contemplata nell’accordo bilaterale che venne raggiunto a Simla tra Tibet e India Britannica lo stesso giorno in cui la delegazione cinese lasciò la convenzione (3 luglio 1914), ma non poté essere ratificata per l’assenza dei cinesi. Secondo questo trattato, la sovranità cinese sarebbe stata svuotata di ogni contenuto, essendo intenzione di inglesi e tibetani quella di svincolare legalmente i lama reggenti dall’ordinamento giuridico di Pechino. Il delegato cinese Ivan Chen si rifiutò di sottoscrivere l’accordo e lasciò la conferenza il 3 luglio 1914. Dopo il suo ritiro il delegato britannico Henry McMahon e quello tibetano Lochen Shatra firmarono l’accordo, che divenne quindi bilaterale, ed aggiunsero una nota che escludeva la Cina dai benefici di tale accordo, in base al quale si sarebbe arrivati a stabilire la nuova linea di confine tra i due paesi nota appunto come linea McMahon. Con il nuovo assetto i britannici si impossessarono della vasta area nel nord-est dell’India, corrispondente alla quasi totalità dell’odierno Arunachal Pradesh. Tuttavia, nonostante tale trattato non venne recepito né sottoscritto dalla Cina, non avrebbe comunque comportato formalmente la messa in discussione (ma sostanzialmente, a parere dei cinesi) della sovranità cinese sulla regione.

Con gli accadimenti della Prima guerra mondiale e con soprattutto l’incalzare della guerra civile cinese, la questione tibetana venne provvisoriamente accantonata; nel 1927 la Cina nazionalista spostò la capitale a Nanchino, dove fu spostata anche la commissione per gli affari mongoli e tibetani, nella quale solitamente venivano ricevuti il Dalai Lama ed il Panchen Lama nella rendicontazione delle questioni regionali tibetane. Nemmeno il governo nazionalista di Chang Kai-shek poteva paventare l’ipotesi di un Tibet fuori dalla propria sovranità. Nel 1942, nel corso della Seconda guerra mondiale, la strada di rifornimento tra India e Cina che passava per la Birmania fu interrotta dai giapponesi. Il governo britannico richiese invano il permesso di aprire una via militare per i rifornimenti attraverso Zayul (nel Tibet nord-orientale) al governo tibetano, che si era dichiarato neutrale e non allineato. La fine della guerra e lo sviluppo della rivoluzione cinese avrebbero sciolto definitivamente le questioni rimaste sospese dopo oltre un trentennio di instabilità; se nel 1949 i comunisti di Mao presero il potere archiviando la contraddittoria parentesi nazionalista di Chiang, i britannici avevano evacuato l’India già nel 1947. La neonata repubblica indiana allacciò nel 1948 relazioni diplomatiche col Tibet, mentre la repubblica nazionalista cinese mantenne l’ambasciata a Lhasa fino all’8 luglio 1949, quando il governo tibetano ne chiese la soppressione in seguito alla sconfitta dell’esercito nazionalista cinese da parte dei comunisti. Le truppe di Mao Zedong poterono finalmente fare ritorno nella regione del Tibet dopo l’archiviazione delle interferenze coloniali britanniche e l’ambigua indeterminazione del governo nazionalista, e lo fecero, con buone ragioni, scandendo lo slogan: Liberiamo il Tibet dagli imperialisti e dagli schiavisti!.

(La regione cinese del Tibet alla fine della dinastia Qing)
(La regione cinese del Tibet alla fine della dinastia Qing)

Risulta utile, concludendo, riepilogare le tappe fondamentali dell’appartenenza del Tibet antico alla Cina. Il Tibet era stato parte dell’Impero cinese per circa 700 anni, dal (1270-1370) sotto la dinastia Yuan che comprendeva Cina e Mongolia, dal 1368 al 1644 come uno stato vassallo della dinastia cinese Ming, e fino alla fine dinastia cinese manciù, i Qing (1644-1911). Peraltro tale situazione venne recepita anche dall’Accordo anglo-russo del 1907. Anche la Convenzione di Simla, che peraltro non venne ratificata da parte cinese, non avrebbe comunque scalfito la sovranità cinese sul Tibet. Durante i trentacinque anni successivi, infatti, il Tibet è stato comunque parte della Cina Repubblicana del Kuomintang (dal 1911 al 1949). Quello che accadde, in verità, è che il Tibet, essendo stato, in quel periodo, una regione cinese a statuto speciale, godette di un’indipendenza meramente di fatto, nel senso che le autorità cinesi nazionaliste non interferirono nella gestione del paese, tollerando che l’esercizio del potere fosse nelle mani del clero lamaista e della nobiltà latifondista anche se, politicamente, il Tibet era, in tutto e per tutto, una provincia cinese. Questa non è da considerarsi un’opinione, ma una certezza storica, confortata dalle cartine geografiche delle varie epoche che possono essere consultate. Nel 1949, infatti, il Dipartimento di Stato Americano pubblicò un libro sulle relazioni USA-Cina con una mappa che mostrava tutta la Cina, Tibet compreso. Ancora, durante il periodo della Seconda guerra mondiale, era il governo della Repubblica cinese a Nanchino a rilasciare i permessi di sorvolo del Tibet agli aerei alleati. Notoriamente, il permesso al sorvolo di un territorio lo rilascia l’autorità alla quale quel territorio appartiene. Ad ulteriore riprova di questa asserzione, oltre alle già menzionate mappe, c’è la stessa Costituzione della Repubblica di Cina in cui il Tibet venne citato cinque volte e, più precisamente, agli art. 26, 64, 91e 120, come provincia indiscutibilmente appartenente al territorio cinese. L’anno 1949, in effetti, ha comportato un cambiamento radicale per la regione tibetana, ma non certo un cambiamento di appartenenza geografica. Il cambiamento è stato – come nel resto della Cina – un cambiamento radicale e politico. Benché il Tibet fosse assolutamente parte della Cina, sino al 1949 vi signoreggiarono indisturbati i lama, i nobili ed i proprietari terrieri, forti del fatto che il Tibet fosse il distretto più remoto ed impervio dell’Impero e verso il quale, sia l’ormai debole e degenerata monarchia Qing, sia l’altrettanto corrotto Kuomintang, non avevano avuto la forza e nemmeno l’interesse di esercitare alcun controllo efficace né alcuna opera di modernizzazione. Nel decennio 1949-59, sarebbe gravato sulle spalle della nuova Repubblica Popolare Cinese questo arduo compito, avviato con il completo controllo del territorio prima – attuato dall’Esercito di Liberazione Nazionale – e con la normalizzazione istituzionale, premessa al poderoso sviluppo sociale ed economico garantito nei decenni successivi alla regione del Tibet.

(La massima espansione dell'Impero cinese della dinastia Qing)
(La massima espansione dell’Impero cinese della dinastia Qing)

 

 

Marco Costa

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