Dal generale (2s) Daniel Schaeffer, ex addetto alla difesa in Thailandia, Vietnam e Cina, membro del think tank Asia21-Futuribles (www.asie21.com)
FONTE ARTICOLO: https://www.asie21.com/2023/02/13/taiwan-washington-reussira-t-il-a-pousser-pekin-a-la-faute/
(Nota: questo articolo non ha tenuto conto dell’ipotesi accademica secondo cui la Corea del Nord avrebbe colto l’occasione offerta da una situazione confusa derivante dallo scoppio di un conflitto militare sino-taiwanese per attaccare la Corea del Sud e lanciare bordate di missili verso il Giappone e gli Stati Uniti Stati. Quale plausibilità?).
Rapporto
Non appena è iniziata l’invasione russa dell’Ucraina, la stampa internazionale e nazionale ha automaticamente tracciato un parallelo con la questione della Repubblica di Cina, quella di Taiwan, di fronte alla Repubblica popolare cinese (RPC). La trasposizione intellettuale fa gola a causa di una situazione che in vari punti appare simile a quella che oppone la Russia all’Ucraina, con sullo sfondo l’appoggio americano a Kiev come a Taipei.
La cosa migliore è uscire da queste analogie e limitarsi al teatro dell’Estremo Oriente, che è già abbastanza complicato poiché le tensioni tra belligeranti in prima linea non si limitano alla sola questione dell’isola di Taiwan, delle sue dipendenze e dello stretto, ma anche al suo intero ambiente rappresentato dai mari della Cina meridionale, orientale e delle Filippine sul lato dell’Oceano Pacifico. Tutto è inseparabile.
Perché tali nefasti presagi in tutto l’estremo oriente marittimo, la cui situazione generale è ufficialmente ritenuta “stabile” da Pechino, un’iperbole che tenderebbe a far credere che nella regione regni la pace? In verità, se c’è stabilità, sta nelle tensioni permanenti e nelle preoccupanti incertezze su una transizione comunista verso un atto di guerra contro Taiwan, un possibile intervento americano per contrastarla, l’addestramento al conflitto in Giappone e nelle Filippine, vittime parziali di danni collaterali, e persino la Corea del Sud e gli altri paesi dell’ASEAN come contraccolpo. E, oltre a ciò, a causa dell’insistenza di alcuni Paesi che invocano un più forte coinvolgimento della NATO nell’Indo-Pacifico, si sta delineando il rischio per la Francia, essa stessa membro dell’organizzazione ma anche potenza regionale, di scivolamento verso un conflitto che non è nei suoi interessi.
In ogni caso, l’epicentro della tensione si trova proprio a Taiwan e nel suo vicino ambiente marino, una grande questione globale tra la Repubblica Popolare Cinese e l’America.
Taiwan, una questione politica
È prima di tutto una questione politica, più per la Cina che per gli Stati Uniti. Pechino ha fatto della riunificazione, o unificazione secondo alcuni esegeti, una questione di principio. Con questa scelta semantica, questi ultimi sembrano dimenticare che nel 1683 Formosa entrò definitivamente in seno a una Cina imperiale sotto il dominio dei Manciù, questi “barbari” del nord che riuscirono a insediare il loro potere sul trono imperiale Han in seguito ad un’invasione riuscita nella primavera del 1644, contro una dinastia Ming in perdita del “mandato del Cielo”. Questa appartenenza di Taiwan alla Cina fu peraltro ammessa da tutti gli Stati che, dal 1964, Francia prima, e poi Stati Uniti, Giappone, tra gli altri, riconobbero ufficialmente la RPC e la portarono, il 25 ottobre 1971, a prendere il posto della Cina nazionalista all’ONU, sostituendola all’interno del Consiglio di sicurezza permanente. Oggi sono territorialmente due Cine che si fronteggiano, ancora in una situazione di guerra interna dal 1949, quando la popolazione partigiana del nazionalista Tchang Kaishek e le sue truppe schiacciate nel continente da quelle di Mao Zedong si rifugiarono nella grande isola e nei suoi annessi, di cui due a pochi passi dalla terraferma. È questo passato che spiega perché Pechino è così desiderosa di recuperare questo territorio. E sono i riconoscimenti di altri Paesi del mondo che hanno regalato alla Repubblica Popolare Cinese la vittoria politica sull’argomento.
Dagli Stati Uniti che ancora non hanno capito
Detto questo, gli Stati Uniti non lo accettano e continuano a spingere perché Taipei dichiari la propria indipendenza. Questa pressione è stata particolarmente intensa sotto l’amministrazione Trump, il cui Segretario di Stato, Mike Pompeo, poco prima del ritorno al potere dei Democratici nel gennaio 2021, ha rotto con le posizioni di riserva fino ad allora osservate in tema di rapporti tra Washington e Taipei dopo il 1 gennaio 1979, data del riconoscimento della Repubblica Popolare Cinese da parte degli Stati Uniti. Ora apre la possibilità ai diplomatici americani di entrare in contatto diretto con le autorità taiwanesi. Successivamente, il 4 marzo 2022, fuori dall’incarico ufficiale, ha chiesto, durante il suo primo viaggio a Taiwan, al governo Biden di riconoscere ufficialmente la Repubblica di Cina.
Sotto Joe Biden, tuttavia, la pressione americana per spingere l’isola a una dichiarazione ufficiale unilaterale di indipendenza è diminuita. Ma persiste con il sostegno all’attuale presidente Tsai Ing-wen, il cui Partito Democratico Progressista (PDP) ha forti aspirazioni indipendentiste. Sono però disapprovati per circa il 75% da una popolazione che, sotto varie sfumature, preferisce mantenere lo status quo tra i due Stati cinesi piuttosto che proclamare unilateralmente l’indipendenza[1]. Per Pechino, questo costituirebbe davvero un autentico casus belli e i taiwanesi lo sanno. Gli isolani preferiscono continuare a vivere con una spada di Damocle sopra la testa e in pace piuttosto che essere invasi da vicini bellicosi, tanto più che molti industriali taiwanesi sono venuti anche a investire sulla terraferma, soprattutto nella vicina provincia del Fujian. I possibili corridoi di dialogo continuano ad esistere tra le due sponde dello stretto. Le trattative condotte dai precedenti governi nazionalisti in vista della riunificazione potrebbero quindi benissimo riprendere, anche a costo di farle durare per sempre.
Ma, all’inizio del 2023, il presidente ha sentito fischiare il vento dei proiettili? Nel suo discorso di Capodanno, il tono del consueto slogan del PDP, “contrastare la Cina per proteggere Taiwan” diventa “pace per proteggere Taiwan”[2], tanto da temporeggiare un po’ con l’Imperatore Rosso. In ogni caso, finché Taiwan non si dichiarerà indipendente, e purché gli Stati Uniti smettano di premere per il risultato opposto, lo status quo, che dura ormai da settantatré anni, potrebbe continuare a lungo. anche se sul piano strategico la situazione è, contrariamente alle apparenze, molto scomoda per Pechino.
Manovre di intimidazione militare cinese
Ma siccome gli americani non hanno ancora capito, o non vogliono capire, la conseguenza della loro strategia di influenza su Taipei si riflette in risposta, almeno dal 2020, a un’intensificazione dei raid dell’aviazione cinese, a volte massiccia, alla violazione dello spazio aereo taiwanese, senza mai entrarvi per il momento. Ci sono anche manovre navali nel Mar Cinese Meridionale e Orientale, spesso con fuoco vero, così come esercitazioni di lancio di missili. La manifestazione più minacciosa del malcontento comunista è stata, come rappresaglia per la visita di Nancy Pelosi, presidente della Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti, a Taiwan il 3 agosto 2022, la massiccia manovra per incastrare l’isola, il giorno successivo 4 agosto, con il lancio di undici missili ricevuti in quattro recipienti sui sei campi di addestramento definiti per condurre successivamente finte operazioni navali[3]. E da allora, in misura e ritmo un po’ minori, sono però continuati gli stessi sorvoli e le stesse circumnavigazioni dell’isola.
Taiwan, una sfida economica
La seconda sfida è economica con uno Stato, quasi indipendente di fatto ma non di diritto, che ha saputo svilupparsi brillantemente portando gradualmente la sua società alla democrazia. Non entreremo nei dettagli delle relazioni economiche tra Taiwan, Cina, Stati Uniti e altre nazioni del mondo, in particolare nell’Indo-Pacifico. Si noti, tuttavia, che sono le esportazioni taiwanesi verso la terraferma a dominare il flusso degli scambi. Una tale relazione non può che rallegrare la Repubblica Popolare Cinese perché si adatta perfettamente allo schema comunista della riunificazione con voci pacifiche.
Taiwan è anche oggetto di desiderio economico e tecnologico, in particolare perché è riuscita addirittura a sviluppare centri di eccellenza come quello dei semiconduttori, tra cui TSMC[4], leader mondiale in termini di tecnicità nel settore, è diventato esso stesso un problema. Quanto a dire che è a causa dei chip taiwanesi che la Cina vuole riprendersi l’isola, è una scorciatoia semplicistica che alcuni osservatori azzardano. Resta il fatto che, nei conflitti di interesse che covano intorno a questa questione, le mire sui semiconduttori taiwanesi stanno oggi alimentando tensioni tra Pechino e Washington, che vorrebbero interdirne l’accesso a quest’ultima, ma anche proibire loro la vendita di tecnologie che entrano nel loro processo di produzione. Cosa che non piace affatto a Giappone e Olanda, anch’essi coinvolti in questi processi, che in questo specifico settore si rifiutano di vedere derubati i propri interessi economici nel commercio con la Cina a causa del provvedimento americano. Da qui l’attrito tra gli Stati Uniti e i suoi due alleati.
Taiwan è anche un mercato di equipaggiamenti militari forniti da Washington, a prezzi talvolta ritenuti esorbitanti per mezzi che, nella prospettiva di un conflitto con l’Esercito popolare di liberazione (PLA), non sempre rispondono adeguatamente alle priorità espresse dagli isolani. Anche queste forniture vengono concesse con un elastico, avendo gli americani allo stesso tempo la preoccupazione di non far ringhiare troppo forte Pechino. Fino ad allora, pur contando francamente sull’aiuto di Washington, Taipei aveva sviluppato una propria industria degli armamenti, ma in maniera insufficiente. Inoltre, il governo dell’isola è oggi ben consapevole dell’incertezza che grava su una reale intenzione degli Stati Uniti di impegnarsi per la sua difesa. Sotto l’impulso di Tsai Ing-wen, divenuta presidente nel 2016, si è deciso di espandere l’industria degli armamenti indigena, in particolare nei settori aereo e navale, con l’obiettivo di compensare i possibili fallimenti degli aiuti americani. Ma c’è da temere che questa espansione arriverà indubbiamente troppo tardi.
Taiwan, una questione strategica
La terza sfida taiwanese è strategica. È stato dimostrato più volte che in questo contesto è la geografia a comandare. Taiwan è la chiusa che, a nord, circonda l’arcipelago giapponese di Ryukyu, e a sud la catena degli Stati arcipelagici filippini e indonesiani, fino a Singapore. A nord le Ryukyu comandano, attraverso i numerosi stretti che le attraversano, l’accesso al Pacifico dal Mar Cinese Orientale. Costituiscono quindi un vincolo per i passaggi della marina cinese che non esita ad attraversarli spesso e ad esplorarli allo stesso tempo. Lo stesso vale a sud, dove il Mar Cinese Meridionale offre ancora meno possibilità: lo Stretto di Bashi tra Taiwan e le Filippine verso il Pacifico, gli Stretti della Sonda e di Lombok attraverso l’arcipelago indonesiano verso i due Oceani Indo-Pacifico e lo Stretto di Malacca nell’Oceano Indiano. È quindi fondamentale che Pechino riesca a rompere la barriera taiwanese, la cui conquista le darebbe una base dalla quale, libera da vincoli geografici, potrebbe schierare le sue forze navali e aeree verso il Pacifico senza impedimenti. Da parte loro, gli americani, pur cercando di costringere Taipei a proclamare la propria indipendenza, non sembrano aver capito che un ritorno di Taiwan alla Repubblica Popolare Cinese darebbe pieno campo alla minaccia strategica cinese contro di loro, in particolare sottomarini, che sia di attacco o deterrenza nucleare[5]. Sarebbe quindi più saggio per la sua sicurezza se Washington evitasse di provocare lo scenario del ritorno forzato di Taiwan alla Cina.
Il potenziale per un attacco della RPC a Taiwan
Eppure, allo stato attuale degli eventi, nonostante il nuovo discorso di Tsai Ing-wen, la relativa moderazione che Joe Biden sembra mostrare nel ridurre un po’ le operazioni aeree e navali dentro e sopra i mari della Cina orientale e meridionale e dello Stretto di Taiwan, la tensione resta alta tra le due sponde, così come tra Cina e Stati Uniti. Di conseguenza, ci sono molte riflessioni sul potenziale di un attacco comunista a Taiwan, con lo svolgersi della battaglia in Ucraina che alimenta i timori.
In questo scenario peggiore, salvo casi eccezionali in cui il PLA ha dimostrato un’ottima capacità di limitare rigorosamente la sua aggressione al solo territorio taiwanese, in una vera sfida, Giappone e Filippine sono ben consapevoli che subirebbero inevitabilmente il danno collaterale: il Giappone a sud delle Ryukyu, fino al loro centro dove si trova Okinawa, porto-base della 7a flotta americana, le Filippine nella provincia di Luzon a nord e le sue isolette che la estendono verso il sud di Taiwan.
Consapevolezza filippina di danni collaterali fatali
In questa consapevolezza, le Filippine, con il suo nuovo presidente in carica dal 30 giugno 2022, Ferdinand Marcos junior, hanno iniziato a riparare con Washington i loro rapporti di cooperazione militare danneggiati dal precedente rappresentante, Rodrigo Duterte. Nelle esercitazioni congiunte è tornata la serenità e gli Stati Uniti mantengono la loro posizione predominante come fornitori di armi del Paese.
Sembrerebbe inoltre che stia prendendo forma un progetto di ricollocazione definitiva dei soldati americani nella base di Subic Bay, come avveniva fino al 1992, prima della loro espulsione. Questo sarebbe un grande cambiamento da oggi in cui le unità ospitate possono stazionare solo su base rotazionale in cinque basi a loro aperte ai sensi dell’accordo bilaterale sulle forze ospitanti. Nel frattempo, i due alleati hanno annunciato il 1° febbraio 2023 che era in corso di negoziazione la concessione dell’accesso a quattro basi aggiuntive alle forze statunitensi.
Va anche visto che una tale ripresa della cooperazione militare non si basa solo sul potenziale rischio cinese nel nord di Luzon, ma anche sulla necessità che Manila cerchi di limitare le attività illegali abusive di Pechino nella sua zona economica esclusiva (ZEE), nel Mar Cinese Meridionale e al largo delle sue coste orientali nel Mar delle Filippine. A questo proposito, le due parti hanno appena concordato un progetto per riprendere i pattugliamenti marittimi congiunti nelle acque sotto i diritti sovrani filippini.
Consapevolezza giapponese del danno collaterale prevedibile
I giapponesi, da parte loro affetti dalla sindrome ucraina[7], decisero di ampliare la loro difesa, non solo per contrastare i rischi cinesi a sud delle Ryukyu, ma anche per difendersi da un attacco generale contro di loro[8], un’aggressione alla quale i russi, in coordinamento con i cinesi, potrebbero prendere parte. Quello a cui si stanno effettivamente preparando i due partner effettuando diverse esercitazioni aeree e navali annuali nei mari della Cina orientale, del Giappone e circumnavigazione dell’arcipelago giapponese.
Le autorità giapponesi hanno chiaramente analizzato che, in caso di tentativo di invasione armata cinese contro Taiwan, il loro Paese è in prima linea e che è necessario prepararsi a contrastare la minaccia. Così hanno deciso, con l’appoggio del parlamento, di aumentare in cinque anni, dal 2021, il bilancio della difesa per portarlo al 2% del Pil invece dell’1% fino ad allora. Nel 2022, questo budget raggiunge l’1,1%, pari a 54,9 miliardi di dollari[9].
Per quanto riguarda il sistema di difesa, è in fase di riabilitazione con il ridispiegamento di unità militari nel settore meridionale del Ryukyu per rafforzarlo. È iniziato nel 2016[10]. Per quanto riguarda l’equipaggiamento, senza elencare l’andamento dei programmi in corso, sull’intera estensione Ryukyu sono in fase di installazione 1.500 missili, ovvero 500 tomahawk e 1.000 T2 potenziati dalla Mitsubishi, loro produttrice. A livello navale, si prevede di convertire le due portaelicotteri JS Izumo e JS Kaga in portaerei.
Si moltiplicano i progetti di acquisizione di attrezzature estere e di cooperazione internazionale, come nel caso del Regno Unito e della Norvegia[11]. Si consolidano ulteriormente i rapporti militari con gli Stati Uniti, che non chiedono di meglio. In questo contesto, nell’ottobre 2022, sono stati temporaneamente basati otto droni da ricognizione MQ-9 Reaper. L’11 gennaio 2023 è stata annunciata la decisione di distaccare ad Okinawa un ulteriore contingente di marines con quasi 2.000 soldati. Diverse esercitazioni aeronavali, comprese le esercitazioni di atterraggio, continuano a essere svolte con coerenza.
La preparazione degli Stati Uniti e dei suoi ausiliari per un confronto
Così gli Stati Uniti si preparano francamente a un possibile confronto con la Cina nel caso in cui quest’ultima decida di riconquistare Taiwan con la forza. I giochi di guerra sono in aumento. L’ultimo[12] è stato istituito dal Centro americano per gli studi strategici e internazionali (CSIS)[13], che ha studiato il problema secondo 24 scenari. Tutto ha portato alla constatazione di un fallimento cinese, di ben poco, a costo di enormi danni per tutte le parti coinvolte. Non mancano le speculazioni sulle date di un possibile attacco cinese: potrebbe essere lanciato nel 2026 secondo il CSIS, nel 2035 secondo il ministero della Difesa taiwanese, o nel 2049, data del centesimo anniversario della costituzione del PRC.
Sapendo che secondo il CSIS le forze americane ad Okinawa e Guam verrebbero indubbiamente distrutte rapidamente, potendo arrivare rinforzi nell’area solo 70 giorni dopo l’inizio della battaglia, è ovvio che per Washington è importante poter disporre in prima linea di ausiliari in grado di resistere agli shock iniziali. È in questa idea che va inquadrata la creazione dell’alleanza Australia, Regno Unito, Stati Uniti (AUKUS)[14], concedendo a Canberra la prospettiva di poter avvicinare le forze del fronte più rapidamente degli americani. È per questo che la Francia è stata vittima collaterale del tradimento degli australiani quando hanno denunciato senza preavviso il contratto firmato per la fornitura di otto sottomarini d’attacco[15].
La prospettiva del coinvolgimento militare della NATO
Per il momento, l’integrazione del Giappone in un AUKUS ridisegnato non sembra essere all’ordine del giorno. Ma questa non è necessariamente l’espressione di un desiderio di indipendenza giapponese, perché ecco Tokyo che proclama ai quattro angoli del mondo di aver bisogno di sostegno, in particolare quello della NATO contro la minaccia cinese, affermando che “la sicurezza dell’Europa e quella dell’Indo-Pacifico sono inseparabili”[16]. Dal 2016, attraverso il programma di partenariato e cooperazione (IPCP) personalizzato Giappone-NATO, rivisto ogni due anni, Giappone e NATO sono già legati in termini di cooperazione di sicurezza, una cooperazione limitata a scambi e incontri, ma densa di volumi. Si basa su molteplici principi relativi al “mantenimento” e al “rafforzamento di un ordine internazionale libero e aperto basato sul diritto”. L’ultimo aggiornamento dell’IPCP Giappone-NATO risale al 26 giugno 2020[17]. Se a leggerlo appare che nella sua applicazione sono privilegiati gli scambi di idee e le valutazioni della situazione, anche gli incontri, una riga del testo può benissimo servire da supporto per una successiva evoluzione, verso un impegno più concreto nella termini di cooperazione materiale militare. È infatti scritto: “La NATO può prendere in considerazione la possibilità di fornire risorse per esercitazioni giapponesi nella regione indo-pacifica, dove la partecipazione della NATO sarebbe opportuna”[18]. E l’appello del primo ministro Fumio Kishida è andato a buon fine perché il 31 gennaio, durante la visita in Giappone di Jens Stoltenbeg, segretario generale dell’organizzazione, le due parti hanno dichiarato di voler rafforzare i loro rapporti.
Nell’organizzazione, numerosi membri sensibili al discorso giapponese, senza dubbio appoggiati dagli Stati Uniti, senza dubbio anche consapevoli del possibile ampliamento delle aperture offerte dai paesi IPCP-NATO aperti nell’Indo-Pacifico(19) militano per un contributo più concreto nel quadro di un’annunciata politica generale di mantenimento di “un Indo-Pacifico libero e aperto, resiliente, sicuro e prospero”. In questo stesso quadro è implicitamente inclusa la preoccupazione per la conservazione del diritto nei mari dell’Estremo Oriente, e per estrapolazione è implicita la sicurezza di Taiwan nei confronti di Pechino. O tre strati strategici sul modello delle bambole russe.
Per quanto riguarda il primo strato, tutti i Paesi del mondo non possono che essere d’accordo con l’obiettivo generale di mantenere la serenità nell’Indo-Pacifico. Alcuni di loro, nel secondo strato, in particolare gli occidentali, non possono che essere d’accordo nel difendere il diritto internazionale del mare di fronte alle rivendicazioni illegali e illegittime cinesi nei mari della Cina, dell’Est e del Sud, e dello stretto di Taiwan, perché fanno tutti parte del Pacifico. Nonostante tutto, c’è motivo di interrogarsi sui limiti da osservare nel coinvolgimento degli Stati nei tre strati strategici sopra menzionati, quando il terzo riguarda Taiwan, sia nell’ambito di un’organizzazione formale che in quella delle relazioni bilaterali o multilaterali, o ancora in solitaria.
Nell’Unione Europea, la Germania e i Paesi Bassi invocano una forte presenza della NATO nell’Indo-Pacifico[20].
Entrambe affermano di voler “lavorare all’interno della NATO per sviluppare relazioni con ‘partner in tutto il mondo'[21] (compresi Australia, Giappone, Nuova Zelanda e Corea del Sud)”[22], quattro Paesi già impegnati con la NATO nel quadro di un IPCP. La Germania, indubbiamente sensibile all’influenza americana in ambito Nato, continua ad essere molto attiva in questa direzione. La visita della fregata Bayern a Tokyo il 5 novembre 2021 segna l’inizio dello sviluppo della cooperazione militare tra i due Paesi. Il 4 novembre 2022 siamo a una bozza di accordo di cooperazione logistica militare. Non è necessariamente ovvio, tuttavia, che siano gli Stati Uniti a spingere il Giappone a implorare una più forte presenza della NATO in Asia-Pacifico, un sostegno che potrebbe essere fornito principalmente dall’organizzazione nel quadro di un’alleanza di principio, che prima o poi si evolverà in un’alleanza militare integrata formale. Ma i cauti giapponesi, nonostante le loro necessità, si farebbero rinchiudere lì?
E la Francia in questa prospettiva?
In questo caso, è ovvio che se la NATO decidesse di intervenire militarmente nell’Indo-Pacifico, la Francia, che è una potenza, senza dubbio debole, ma pur sempre potenza in questa immensa regione oceanica, potrebbe essere automaticamente esaurita nel compimento del disegno americano di fronte alla Cina. In quanto membro della NATO, e quindi partner indiretto dei quattro Paesi coperti da un IPCP, il rischio per essa diventerebbe reale il giorno in cui si proporrebbe a questi quattro partner di portare gli accordi esistenti a un livello superiore di cooperazione operazionale militare allo scopo di rispondere ad una possibile situazione di crisi aggravata o di guerra.
Se possiamo approvare la politica della Francia nell’Indo-Pacifico, da sola o in collaborazione con l’uno o l’altro dei suoi partner o alleati a seconda dei casi, se possiamo approvare la politica francese per la difesa del mare in Estremo Oriente perché è una questione di diritto internazionale che lì viene violata da Pechino, non c’è motivo per cui il nostro Paese possa rischiare di trovarsi coinvolto, insieme agli americani, in un conflitto sino-taiwanese. Provocato da una dichiarazione unilaterale di indipendenza taiwanese pronunciata sotto l’effetto di una potente strategia di influenza americana attuata con il pretesto di difendere la repubblica cinese dalla minaccia della RPC, questo conflitto inizierebbe in primo luogo a non rispondere in alcun modo caso ai veri interessi taiwanesi. Nella speranza americana di una vittoria, la battaglia condotta dagli intermediari taiwanesi, o anche associati giapponesi e australiani, mirerà innanzitutto a ridurre considerevolmente e durevolmente la potenza cinese, per non poterla annientare del tutto. Ma alla fine, senza che lo si dica ufficialmente, l’obiettivo finale sarà quello di permettere agli Stati Uniti di mantenere la loro supremazia globale. Eviteremo il termine egemonia per non sprofondare in discorsi polemici. Ecco, allora, per usare un luogo comune popolare, l’America e i suoi sostenitori stanno per cadere nella trappola di Tucidide.
Questo è anche il rischio in cui potrebbe essere trascinata la Francia se si materializzasse l’idea di un coinvolgimento armato della NATO nell’Indo-Pacifico, un coinvolgimento provocato sotto l’impulso di due Stati europei, la Germania e i Paesi Bassi che non hanno alcun significato militare in questa regione del mondo. Tuttavia, in applicazione della dichiarazione d’intenti congiunta firmata il 30 novembre 2022 tra il ministro delle Forze armate francese e il segretario alla Difesa americano, con la quale le due parti ribadiscono “la necessità di rafforzare la loro cooperazione di difesa al fine di consentire alle loro forze armate di affrontare insieme le minacce comuni”, la possibilità è concreta. Tanto più che, all’articolo 17, le due parti si impegnano “a rafforzare il partenariato strategico Nato-Unione Europea”. Applicato all’Indo-Pacifico, appare quindi reale il rischio per la Francia di trovarsi coinvolta suo malgrado, ma per impegno preso e sottoscritto, in un’avventura provocata da lontano dagli Stati Uniti a sostegno dell’autodichiarata indipendenza taiwanese di fronte alla RPC. Unica salvaguardia contro il rischio di deriva così rilevata: “la natura giuridicamente non vincolante di questa dichiarazione”.
La Francia oggi assume, da sola o in collaborazione con altri Stati partner, le proprie responsabilità operative nell’Indo-Pacifico, come avviene nella lotta alla pirateria nel Golfo di Aden o nella lotta alla pesca illegale nel Sud Pacifico. È già coinvolta in questo teatro in termini di consultazioni e scambi a fianco della NATO nel quadro degli IPCP. Tuttavia, spetta a lei garantire che mantenga la sua piena autonomia decisionale per quanto riguarda la sua scelta di impegni nell’area. È quanto ha sottolineato, a livello mondiale, il Presidente della Repubblica il 1° settembre 2022, nel suo discorso agli ambasciatori.
Spetta in ultima analisi al nostro Paese non lasciarsi sopraffare e trascinare in attività operative che non corrispondono né ai suoi interessi né al mantenimento della pace mondiale.
Daniel Schaeffer, 3 febbraio 2023
NOTE AL TESTO
[1] https://esc.nccu.edu.tw/PageDoc/Detail?fid=7801&id=6963
[2] https://www.asie21.com/2023/01/27/taiwan-chine-voeux-2023-la-mue-du-gouvernement-le-slogan-du-dpp-contrer-la-chine-pour-proteger-taiwan-%e6%8a%97%e4%b8%ad%e4%bf%9d%e5%8f%b0-se-transforme-en/
[3] https://www.asie21.com/2022/08/25/menace-chinoise-sur-taiwan-aucune-solution-de-continuite-en-perspective/
[4] TSMC: Taiwan Semiconductor Manufacturing Company
[5] https://www.asie21.com/2021/02/05/avant-que-ne-saute-le-verrou-taiwanais/
[6] Visiting forces agreement
[7] https://www.asie21.com/2022/07/28/japon-ukraine-le-syndrome-ukrainien/
[8] https://www.asie21.com/2022/11/23/japon-chine-taiwan-apprehensions-japonaises/
[9] Ibid.
[10] Ibid.
[11] Ibid.
[12] https://csis-website-prod.s3.amazonaws.com/s3fs-public/publication/230109_Cancian_FirstBattle_NextWar.pdf?VersionId=WdEUwJYWIySMPIr3ivhFolxC_gZQuSOQ
[13] CSIS: Center for Strategic and International Studies
[14] AUKUS: Australia, United Kingdom, United States
[15] https://www.asie21.com/2021/09/21/chine-australie-la-france-victime-collaterale/
[16] https://www.mofa.go.jp/erp/ep/page4e_001264.html
[17] https://www.nato.int/nato_static_fl2014/assets/pdf/2020/6/pdf/200626-ipcp-japan.pdf
[18] Texte original en anglais: “NATO may consider contributing assets to Japanese exercises in the Indo-Pacific region, where NATO participation would be appropriate”
[19] Corée du Sud (21/11/2019); Australie (21/02/2013); Nouvelle-Zélande (04/06/2012)
[20] https://www.government.nl/documents/publications/2020/11/13/indo-pacific-guidelines
[21] “Partners Across the Globe”
[22] https://china.diplo.de/blob/2381212/5038169e5f7c5eee4136c32ca183f75e/200904-indopazifik-data.pdf.
Traduzione per il CeSEM di Stefano Vernole
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