Guerra e democrazia

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di Alessio Tosco

Generalmente l’opinione pubblica delle democrazie occidentali tende a considerare la guerra come una conseguenza di azioni aggressive da parte di Paesi antidemocratici, un prodotto esportato da questi. Di conseguenza è anche tendente a pensare che per i Paesi a regime dittatoriale o dove ci siano al governo delle autocrazie, o comunque tutti quei Paesi che non rientrano nei canoni della democrazia occidentale siano meglio attrezzati a condurre la guerra. Si pensa sia più facile la coercizione, l’obbligo di leva, la mobilitazione totale o parziale, la stessa organizzazione dei vertici delle forze armate, e il coordinamento tra i vertici politici e quelli militari. Insomma, che questi Paesi siano meglio attrezzati nella conduzione delle operazioni militari.

I fatti però dimostrano che questa idea è totalmente sganciata dall’evidenza degli eventi storici.

Nel caso specifico si prenderanno ad esempio gli eventi immediatamente precedenti lo scoppio della Prima guerra mondiale e chiaramente gli anni del conflitto armato. In realtà la scelta della Prima guerra mondiale non è casuale ma dovuta; in qualche modo, la situazione politica che portò al conflitto era molto simile a quella attuale, o perlomeno molto più simile della situazione precedente il Secondo conflitto mondiale.

Fondamentale, prima di entrare nel merito dell’esempio qui proposto è però rivedere le tesi che Marx descrive nell’opera Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, in cui si riassume il colpo di Stato del 2 dicembre 1852. Per la nostra analisi è interessante rivedere la descrizione marxiana del bonapartismo come, potremmo dire, categoria politica. Bonapartismo come utilizzo, o meglio, sfruttamento delle azioni, mobilitazioni, lotte, di una classe “inferiore” da parte di quella “superiore” (nello specifico, per inferiore è considerata la massa proletaria già protagonista della rivoluzione del 1848, per superiore la borghesia repubblicana liberale). Gli eventi, infatti, videro la borghesia liberale sfruttare il proletariato per abbattere la borghesia proprietaria più reazionaria e più legata alla monarchia, per poi tornare ad opprimerlo una volta ripreso il potere, nello specifico nella figura di Luigi Bonaparte*. È la particolare situazione in cui i controrivoluzionari ottengono il potere dai rivoluzionari. Questo tipo di situazione è per natura instabile e in qualche modo chi assume il potere è paragonabile al dittatore romano della Repubblica romana, eletto in caso di stato di emergenza e posto al comando assoluto per un massimo di sei mesi.

Fatto questo necessario appunto possiamo tornare alla situazione del 1914 riprendendo in larga parte l’analisi che ne fa Domenico Losurdo in Democrazia o bonapartismo.

Interessante per noi è come le democrazie americana e italiana superarono le resistenze delle masse popolari ad entrare in guerra. In Italia alle resistenze delle masse popolari si contrapposero le elité interventiste, sostenute intellettualmente dai vari Salvemini: per cui “le masse si muovono per istinti negativi e non per dottrine positive” quindi sono “portate a evitare sofferenza e dolore” (D. Losurdo Democrazia e bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale, 1993, riprendendo G. Salvemini, “Come siamo andati in Libia e altri scritti dal 1900 al 1915” p.448); Dorso per cui: “occorre una minoranza audace e geniale che trascinerà per la gola questa turba di muli e di vigliacchi a morire da eroi o a vincere da trionfatori” (D. Losurdo, Democrazia e bonapartismo riprendendo E. Forcella, Plotone di esecuzione. I processi della Prima guerra mondiale, p. xii); Croce per cui: “i contrari alla guerra erano certamente molti e forse masse ma non contavano, perché qui si discorre di coloro che politicamente pensavano, parlavano e operavano, non potevano certo essere assecondate masse di uomini attanagliati dalla paura della guerra, chiusi nel loro comodo e nel loro egoismo (Croce, Storia d’Italia dal 1971 al 1914, p. 266). Fondamentale per la mobilitazione però fu il quasi colpo di Stato della Corona che respinse le dimissioni del Governo minoritario di Salandra e lo scatenamento della piazza (con l’appoggio della polizia) contro i pacifisti.

Anche l’opinione pubblica americana era a stragrande maggioranza contraria all’intervento nel conflitto europeo cosi come, inizialmente, lo era il presidente Wilson. La situazione però cambiò in maniera repentina e nel giro di pochi mesi Wilson optò per l’intervento anche se non disponeva della maggioranza in Senato dove la maggioranza pacifista aveva bocciato la legge che permetteva di armare le navi mercantili. Wilson però avvalendosi dei suoi poteri esecutivi potè ordinare l’immediata eseguibilità del provvedimento. Scrivono gli storici Carrol e Noble: “Lo strapotere di cui la presidenza poteva disporre negli affari di politica estera aveva consentito a Wilson di portare gli Stati Uniti sull’orlo della guerra senza che l’elettorato medio ne avesse alcuna coscienza. Quest’ultimo, in realtà, aveva rieletto Wilson proprio perché lo aveva ritenuto capace di preservare la neutralità della nazione americana. Il movimento pacifista, molto forte nell’elettorato femminile, aveva sostenuto la candidatura Wilson così come avevano fatto gruppi di tedeschi e di irlandesi americani, che nutrivano un profondo odio per l’imperialismo inglese. Una grossa parte dei «progressisti» wasp [i bianchi di origine anglosassone e di religione protestante] del Midwest (…) avevano altresì appoggiato Wilson, nel 1916, in quanto avevano visto nel partito repubblicano il sostenitore dell’Inghilterra e della guerra (…). Entro il marzo 1917 Wilson aveva coinvolto gli Stati Uniti in un conflitto a fuoco con la Germania (Carroll e Noble, The Free and the Unfree. A New History of the United States, pp. 338)”.

In questi due esempi possiamo già vedere una sorta di bonapartismo soft (la definizione è di D. Losurdo).

Scriverà successivamente Cobban: “Wodrow Wilson, Clemenceau e Lloyd George furono investiti di un’autorità che in pratica equivaleva alla dittatura nel senso romano del termine” (Carroll e Noble, The Free and Unfree, 1977, p.111).

Interessante vedere anche come le controparti tedesche soprattutto, ma anche russe, interpretarono la mobilitazione delle democrazie occidentali. Scrive il professore tedesco Moritz Julius Bonn nel resoconto del suo viaggio negli Stati Uniti nell’immediato dopoguerra: “Nelle discussioni politiche dell’anteguerra, si è sempre detto, da parte dei difensori del sistema di governo allora dominante nell’Europa centrale, che la democrazia come forma di vita politica ha sì certi vantaggi, ma che, soprattutto in quanto democrazia parlamentare, sarebbe destinata al fallimento nella guerra. L’esperienza pratica ha dimostrato il contrario. Per quanto riguarda la compattezza politica e il perseguimento disciplinato degli obiettivi, le democrazie occidentali sono state nettamente superiori al sistema burocratico dell’Europa orientale e centrale. L’interna scissione tra direzione militare e politica, che ha paralizzato gli imperi centrali per quasi tutto il periodo di guerra, è stata superata dalle potenze occidentali ad opera di politici consapevoli dei propri obiettivi. L’ascesa di personalità forti e dotate di autonoma iniziativa, che secondo la concezione continentale avrebbe dovuto essere resa impossibile dalla democrazia, si è manifestata senza ostacoli nelle potenze occidentali, non invece in Russia, Germania o Austria, dove le poche individualità forti in grado di imporsi si sono logorate in una lotta senza fine contro gli intrighi burocratico-militari […] durante i periodi critici della guerra, i Primi ministri di Inghilterra, Francia o Italia e il Presidente degli Stati Uniti hanno goduto di una pienezza di poteri, in confronto alla quale la potenza di un Alessandro o di un Cesare era limitata. Nei Paesi occidentali, i poteri dittatoriali conferiti sono stati in pratica molto più ampi di quelli che i monarchi hanno potuto esercitare in Russia e Germania (Bonn, Die Krisis der europäischen Democratie, 1925, pp. 9 e 63)”.

Dello stesso avviso del professore tedesco sono però molti altri autori; per Canfeld, Wilson venne “investito di poteri quasi dittatorali” (L.H. Canfield, The president of Woodrow Wilson, Prelude to a World in Crisis, 1966, p.109).

Per gli oppositori interni alla guerra non ci doveva essere pietà, così si esprimeva infatti il procuratore Generale Charles Gregori nel novembre del 1917 riferendosi ai pacifisti:

“Che Dio abbia pietà di loro, poiché essi non possono aspettarsi di riceverne da un popolo oltraggiato e da un governo vendicativo”.

Con il Sediction e Espionage Act del 1918 vennero stabilite le misure repressive per i pacifisti, le pene per qualsiasi tipo di “espressione sleale” verso il Governo, l’esercito, la bandiera, la Costituzione degli Stati Uniti d’America andavano da un minimo di 10 anni ad un massimo di 20.

Un esempio su tutti è quello di Eugene Debs, candidato per il Partito Socialista d’America alla presidenza nel 1912 che raccolse quasi un milione di voti, condannato nel 1918 a dieci anni di carcere per un discorso contro la guerra.

La radicalità dello stato di eccezione negli Stati Uniti si sviluppò su tutti i fronti, militare, economico, culturale e mediatico. Solo sette giorni dopo la dichiarazione di guerra, Wilson forma il Comitato per la Pubblica Informazione che ogni settimana forniva 22000 colonne di “notizie”.

Peculiarità del sistema americano è anche il fatto che, come scrive Losurdo: “Per aspra che possa essere la competizione tra i due partiti e i loro leaders, essa verte sul modo di interpretare l’americanismo, senza mai mettere in discussione quest’ultimo come punto di riferimento, senza mai sollevare dubbi sul ruolo privilegiato e unico che compete, in un modo o nell’altro, agli Stati Uniti nella storia del mondo e dell’umanità”. L’estrema difesa dei principi americani, dello spirito americano, tende in modo naturale a vedere in tutto quello che viene da fuori, dall’esterno, il Male assoluto, generando così un nemico potremmo quasi dire disumanizzato. Durante la Prima guerra mondiale questo nemico è identificato con tutto quello che ha un anche insignificante legame con il mondo tedesco. E quindi viene vietata la musica tedesca, ne viene vietato l’insegnamento della lingua, anche i nomi delle città vengono cambiati se di origine teutonica. Con lo scoppio della Rivoluzione di Ottobre, alla caccia alle streghe si aggiungono i comunisti, socialisti, anarchici e sindacalisti. Furono migliaia i sospettati deportati in Russia, tra l’altro per forza di cose nelle aree controllate dai controrivoluzionari bianchi. Questa pratica fu condannata – per ragioni militari non per umanità nei confronti dei malcapitati spesso ingiustamente deportati – dal Ministro degli Esteri britannico secondo il quale questi trasferimenti ostacolavano le operazioni militari contro i bolscevichi.

Per l’efficacia delle operazioni di epurazione del nemico interno molti in Germania – possiamo dire – iniziarono a studiare questo “metodo”, curiosa e al tempo stesso esplicativa è la conversazione tra Max Weber e il generale Ludendorff a conflitto terminato e riportata dalla moglie di Weber:

L: Adesso ha finalmente la democrazia da lei tanto celebrata […].

W: Crede veramente che io consideri democrazia la porcheria che abbiamo ora?

L Se parla così, forse possiamo intenderci.

W: Ma anche la porcheria che avevamo prima non era una monarchia.

L: Cosa intende lei allora per democrazia?

W: Nella democrazia, il popolo elegge come suo leader (Führer) quello in cui ha fiducia. Una volta eletto, questi dichiara: «Adesso chiudete il becco e obbedite». Popolo e partiti non possono più immischiarsi nelle sue decisioni.

L: Una tale «democrazia» può piacermi.

W: Successivamente il popolo può giudicare, e se il leader ha commesso errori, che venga pure inviato al patibolo! (Marianne Weber, Max Weber. Ein Lebensbild, 1926, p. 664).

E qui possiamo introdurre un’altra categoria politica, il cesarismo di stampo weberiano. La difesa del suffragio universale di Weber deve essere concepita in quest’ottica, per Weber questo infatti è il mezzo per l’applicazione – potremmo dire perfetta – del cesarismo che va poi a reprimere le masse stesse, in questo senso potremmo associare la concezione weberiana a quella del bonapartismo marxiano. In questo senso Weber vede come causa del non completo successo del cesarismo bismarkiano le istituzioni vigenti all’epoca (il dualismo tra il potere del Capo del Governo e il principio di legittimità della monarchia ereditaria), fallimento che sarebbe potuto essere evitato con una democrazia regolata. Per utilizzare Gramsci possiamo dire che il cesarismo di Bismark e Napoleone III è un cesarismo regressivo a differenza di quello di Cesare e Napoleone I definito progressivo, la differenza sta nel fatto che solo i secondi hanno radicalmente cambiato l’assetto politico e istituzionale del regime vigente (quaderno 13 (XXX))**.

Questo cesarismo avanzante soprattutto nei Paesi anglosassoni, quindi, influenzerà anche il resto degli Stati democratici europei, in Italia è Benito Mussolini a coglierne le prime influenze. Non più socialista ma non ancora propriamente fascista, Mussolini analizza la situazione del blocco anglosassone: “Dunque è assurdo accusare il regime democratico, in quanto tale di incapacità di fronte alla guerra […]. Una democrazia tipica, invece, come quella inglese, sa fare la guerra. Saprà farla anche la più grande delle democrazie, quella americana […]. Clemenceau è l’esponente della democrazia sana, produttiva, e, quando occorre, guerriera […]. Le nazioni anche democratiche hanno a poco a poco accentrato il potere reale in pochi uomini o in un uomo solo. In un certo senso Lloyd George, Clemenceau, Wilson sono tre dittatori democratici” (E. e D. Susmel, Opera Omnia, 1951, vol. 10, p. 416).

Ma sulla necessità della sospensione del regime democratico durante lo stato di eccezione, che è la guerra, sono in molti a professarlo. Così si esprime Gaetano Mosca: “Un breve periodo durante il quale un Governo forte ed onesto eserciti molti poteri ed abbia molta autorità può in qualche nazione europea essere riguardato come opportuno, perché può contribuire a preparare quelle condizioni che renderanno possibile, in un prossimo avvenire, il normale funzionamento del regime rappresentativo. Anche a Roma, nei migliori tempi della repubblica, qualche volta si ricorreva, per brevi periodi, alla dittatura” (Mosca, Elementi di scienza politica, 1953, vol. 2, p. 240 nota).

Bene notare che soprattutto per questi autori (Mosca e Pareto nello specifico) la causa di un’impasse o comunque un possibile ostacolo alla gestione ottimale dello stato di eccezione è l’istituzione parlamentare. Così Pareto può esprimersi in merito alle riforme necessarie dopo l’ottobre del 1922: “I modi sono infiniti, lo scopo è unico ed è di evadersi dalle ideologie democratiche della sovranità della maggioranza. A questa rimanga l’apparenza, ma vada la sostanza ad una élite, poiché è per il meglio oggettivamente”. Anche in questo caso l’esempio da seguire è Luigi Napoleone, il bonapartismo elevato a vero sistema di governo. Cosa che accomuna Weber, Pareto e Mosca è la necessità di utilizzare, potremmo dire in sostituzione del parlamento, il plebiscito come legittimazione, per il raggiungimento di una pura democrazia plebiscitaria come forma ottimale di governo.

Altro autore che vede questa tendenza avanzare in tutta Europa è Sorel, che così descrive il caso britannico: “Bisogna osservare che in tutta Europa il parlamentarismo s’orienta verso un regime di potere personale esercitato da un grande uomo politico. Il fatto è notevole soprattutto in Inghilterra. Llyod George è veramente un re senza corona, e un re assai più potente di quel che lo furono gli ultimi Borboni in Francia (…). Io credo che dappertutto i costumi politici vadano modellandosi sempre più sul principio fondamentale della Costituzione [bonapartista] del 1852: tutti gli agenti del governo debbono essere responsabili verso un capo unico, il quale, a sua volta, è responsabile solo verso il popolo.”

Mentre per quanto riguarda gli Stati Uniti : “il [loro] presidente è eletto direttamente dal popolo […]. I loro presidenti invocano quasi la legge suprema della salvezza comune, quando parlano in nome della nazione; il principio della dittatura è implicito nella costituzione americana. Il modo in cui si è svolta la storia degli Stati Uniti nel secolo scorso ha contribuito a persuadere i presidenti che, all’occasione, essi debbono agire come capi responsabili unicamente di fronte alla totalità del Paese” (G. Sorel, “Da Proudhon a Lenin” e “L’Europa sotto la tormenta”, 1973, pp. 243-244).

Per concludere è interessante notare come per Weber il vero problema da risolvere nell’attuazione di un regime cesaristico è quello del successore, la maniera nella quale questo viene rimosso una volta perduta la fiducia delle masse e come insediare un altro potenziale dittatore cesaristico, un “capo fiduciario” che all’occorrenza deve immediatamente trasformarsi in un dittatore aperto. Le forme di governo migliori quindi, o per lo meno migliori nella gestione dello stato di emergenza, dovrebbero, per Weber, avere questo tipo di reattività agli eventi.

All’inizio del testo si parlava di un parallelo tra la situazione del 1914 e quella attuale; è chiaro che tantissime sono le differenze a livello politico, di avanzamento tecnologico, e soprattutto il possibile mutuo annichilimento sulla base degli armamenti in possesso dalle grandi potenze attuali, però le forme della gestione del potere sono simili, la democrazia parlamentare italiana, con i dovuti distinguo è simile a quella del 1914, mentre la monarchia parlamentare inglese e il presidenzialismo americano sono praticamente identiche. La Russia di Putin sicuramente è molto diversa ma mantiene quel mix di culture e popoli diversi dispersi su un territorio enorme e una forma più o meno autoritaria di gestione del potere, anzi forse è la nazione che al momento più si avvicina ad una democrazia plebiscitaria pura. Diverso il caso della Cina, potenza emergente con un sistema di potere estremamente burocratizzato, rigido, ma certamente in grado di reagire in maniera veloce ed efficacie al possibile verificarsi di situazioni di emergenza.

La tesi qui esposta non è sull’eventualità dell’emergere di uno più Giulio Cesare in Europa ma il fatto che sono le stesse forme istituzionali che potrebbero permetterlo, perché già accaduto. Certo al momento i governi, per lo meno quello italiano, godono dell’appoggio parlamentare, basti vedere l’approvazione degli aiuti fino a fine 2023 a larga maggioranza. Ma questi aiuti, anche nell’opinione pubblica, non sono visti come un diretto coinvolgimento. In qualche modo la situazione è ancora vista con distacco, sono eventi che comunque accadono a diverse migliaia di chilometri dai nostri confini nazionali. Ma cosa potrebbe accadere in caso di escalation? Perché il rischio c’è e non può essere taciuto. In caso di reale coinvolgimento nel conflitto ci sarebbe una maggioranza di italiani favorevoli all’impegno militare sul campo (con perdite, sicuramente anche gravi, di uomini e mezzi)? E nel caso contrario cosa accadrebbe? Gli impegni con la NATO non sono certo revocabili dalla sera alla mattina, o con un semplice cambio di governo! Ecco forse sta qui il nodo della questione, noi italiani siamo abituati a cambi repentini di governo e forse pensiamo che anche in questo caso basterebbe far cadere un Governo e metterne un altro per cambiare posizione in politica estera, ma non è così. Questi impegni sono vincolanti, il Patto Atlantico non è democratico, non si può scegliere se intervenire o meno in caso di un attacco esterno (art. 5). Quindi la domanda da porsi è questa: è pronto il popolo a fare sacrifici, anche molto gravi, per mantenere l’integrità territoriale dell’Ucraina? A rinunciare a comodità ormai date per acquisite? Nei palazzi se le sono poste queste domande? Al momento mi sembra come se stessimo continuamente temporeggiando in attesa di un qualche messia che cali dall’alto a risolvere il conflitto, e questo mi sembra che avvenga non solo in Italia ma in anche in Germania e Francia.

Sarebbe auspicabile a questo punto una ripresa dei negoziati di pace prima che la situazione precipiti.

Una cosa comunque sembra abbastanza evidente, la macchina propagandistica messa in atto nei Paesi occidentali è molto simile a quella del 1914, il nemico russo orami è stato creato, così come tutto quello che è russo viene demonizzato, dai corsi vietati alle università, ai balletti e concerti di musica classica annullati, al cambio di nomenclatura delle città, vedi Kyiv… speriamo solo che gli esiti non siano gli stessi di quel tragico periodo.

NOTE AL TESTO

*è importate ricordare che Marx per 18 brumaio di Luigi Bonaparte intende la “farsa” di questo colpo di Stato, rispetto al vero 18 brumaio dell’anno VIII (9 novembre 1799), quando il generale Napoleone Bonaparte rovesciò il direttorio. Da qui la famosa frase di Marx: “la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa”.

**per Gramsci anche i governi Depretis, Crispi e Giolitti, così come il governo laburista MacDonald, rappresentano forme di cesarismo.

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