di Stefano Vernole
Poche settimane fa, l’autorevole quotidiano britannico “The Guardian” ha puntualizzato quelle che sarebbero le condizioni della nuova Amministrazione statunitense per porre fine alla guerra in Ucraina: “Trump negozierà con Kiev i termini della Russia se Mosca interromperà le relazioni militari con la Cina”.
Articolo pubblicato su Strategic Culture Foundation (strategic-culture.su)
Si tratta di una suggestione comprensibile se la guardiamo con gli occhi di Washington, ma inattuabile alla luce dell’attuale situazione interna e globale se vista da Mosca e da Pechino. Questa è anche la principale ragione per cui ritengo che il conflitto con la NATO in Ucraina non sia destinato a terminare a breve: Trump non ha nulla da offrire a Putin, Putin non ha nulla da offrire a Trump.
I legami russo-cinesi partono da lontano, addirittura dalla Dottrina Primakov degli anni Novanta, quando il triangolo geopolitico Mosca-Pechino-Nuova Delhi – da estendere all’Iran – veniva individuato dal diplomatico russo quale chiave di volta per la stabilità dell’Eurasia di fronte alla penetrazione militare statunitense.
Tali rapporti si sono poi rafforzati negli anni, prima all’interno dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shangai con l’obiettivo di impedire l’avanzata della talassocrazia a stelle e strisce in Asia centrale poi grazie alla piattaforma geopolitica dei BRICS.
Pur avendo messo in guardia l’Occidente a non spingersi oltre con il discorso a Monaco di Baviera, la presidenza Putin è stata costretta prima ad intraprendere un conflitto di breve durata in Georgia e poi ad intervenire militarmente in Siria impedendo che la NATO mettesse le mani sulla sua base di Tartus. Lo stesso può dirsi per il raid e il successivo referendum in Crimea nel 2014, servito a suggellare la sovranità russa sulla base navale di Sebastopoli sul Mar Nero.
La Cina ha seguito attentamente dal 2008 (vista la crisi finanziaria derivante dallo scoppio della “bolla” dei mutui subprime USA) e con sempre maggiore comprensione tutte le mosse russe, intuendo che il rovesciamento di Assad nel 2011 sarebbe stato funzionale ad un “regime chance” in Iran che la stessa Pechino non avrebbe gradito, poi aiutando economicamente la Russia di fronte all’assalto speculativo della finanza statunitense nei confronti del rublo e delle sanzioni euroatlantiche nel 2014.
L’amicizia senza limiti suggellata dai due leader, Putin e Xi Jinping, così come la Dichiarazione comune a favore di un nuovo mondo multipolare, rappresentano il naturale epilogo di un intimo rapporto geopolitico russo-cinese sul quale pochi avevano scommesso.
Pechino ha resistito negli ultimi tre anni ad ogni pressione occidentale e ha continuato a sorreggere con beneficio comune l’economia russa attaccata dalle rafforzate sanzioni di UE e Stati Uniti d’America dopo l’inizio dell’Operazione Militare Speciale. I due grandi progetti infrastrutturali eurasiatici, il russo Razvitie e il cinese Nuova Via della Seta terrestre e Marittima, sono stati armonizzati in nome di una comune visione geopolitica: la difesa dell’Heartland.
Mosca e Pechino hanno perciò individuato una serie di punti sui quali convergere: rafforzamento del multipolarismo, allargamento del BRICS a numerosi Paesi (BRICS plus), dedollarizzazione negli scambi monetari internazionali e nei reciproci rapporti commerciali, chiusura dell’accordo energetico sul Power of Siberia 2 che potrebbe entrare in funzione a breve, partnership nell’Artico di fronte all’ingerenza della NATO.
Naturalmente, tutte le nomine dell’Amministrazione Trump vanno nella direzione di rompere l’amicizia strategica globale Russia-Cina ed impedire a Pechino di acquistare energia dall’Iran; il colpo di Stato armato a Damasco delle scorse settimane va in questa direzione e costituisce una minaccia diretta alla Belt and Road Initiative e alla geopolitica russa di accesso ai “mari caldi”, riattivando il progetto del gasdotto qatariota tramite la Turchia verso l’Europa a scapito del progetto energetico iraniano che avrebbe dovuto sfruttare il giacimento di South Pars.
Le parole di Putin dopo il lancio del missile Oreshnik hanno messo in guardia gli Stati Uniti dal creare nuove crisi non solo nell’“Estero vicino” ma anche nel quadrante dell’Asia-Pacifico, dove in effetti Washington vorrebbe direzionare la sua attenzione dopo aver “congelato” il conflitto in Ucraina.
Se la nuova Amministrazione Trump è infarcita di estensori del Project 2025, un manifesto conservatore declinato geopoliticamente in senso anticinese e anti-iraniano, Mosca continua a tessere la sua rete di rapporti verso l’Asia in maniera sempre più stringente: dall’Afghanistan al Pakistan (si veda ad esempio l’adesione di Islamabad al Corridoio economico Nord-Sud), dalla Repubblica Democratica di Corea a Myanmar, sia per ribadire che si coordinerà con la Cina in caso di crisi militare tra Washington e Pechino, sia per dare sostanza alla visione multivettoriale di antica memoria che lascia intravedere la formazione di un nuovo asse mondiale sunnita rispetto al quale la Russia vuole porsi come interlocutore credibile e paritario.
Belt and Road Initiative (BRI), Unione Economica Eurasiatica (UEE), Organizzazione per la Cooperazione di Shangai (SCO) e Partenariato per la Grande Eurasia fanno tutti parte di un inedito paradigma di relazioni internazionali funzionale ad un ordine globale che corrisponde alle nuove condizioni di un mondo multipolare caratterizzato dai processi concomitanti di globalizzazione e regionalizzazione. Tuttavia, Russia e Cina si stanno impegnando per un’integrazione molto più ampia della macroregione eurasiatica e non si limitano ad una potenziale area di libero scambio Cina-UEE o Cina-ASEAN.
Ciò crea le condizioni per sviluppare la BRI con il coinvolgimento di altri attori, siano essi Stati o organizzazioni regionali. Per realizzare le visioni esistenti sarà necessario eliminare i rischi e le debolezze nelle relazioni sino-russe e rafforzare un’identità condivisa e un pensiero orientato all’Eurasia.
Determinante sarà l’avvio del CMREC (il Corridoio economico Cina-Mongolia-Russia), che sottolinea i doppi obiettivi di Mosca e Pechino di raggiungere l’indipendenza economica dai mercati occidentali mantenendo al contempo il controllo strategico sui corridoi di transito critici Est-Ovest. Questo progetto poliedrico si basa su tre meccanismi strategici cruciali: concessioni tariffarie e commerciali, espansione delle infrastrutture e accordi di condivisione delle risorse.
Un corridoio economico-logistico che fa parte del più ampio spostamento della Russia in direzione dell’Asia (come auspicato da Sergej Karaganov), ulteriormente rafforzato dalla sua crescente partnership con la Cina, reindirizzando risorse e commercio dalle tradizionali rotte occidentali verso l’Oriente.
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