L’Onu e i diritti umani

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Le tragiche vicende dei conflitti essenzialmente nell’area dei Balcani, in Rwanda e  altrove, fondamentali nella storia dell’evoluzione del diritto internazionale penale e  della giustizia internazionale, hanno altresì rappresentato il casus belli, l’evento che  ha spinto la Comunità internazionale a riflettere sul rapporto tra Stato e individuo,  interrogandosi sul ruolo che la sovranità statale avrebbe dovuto rivestire nella società  internazionale contemporanea. 

Nel rapporto del 1994 dello United Nations Development Programme si è fatto  riferimento per la prima volta al concetto di sicurezza umana, contrapposto a quello  tradizionale di sicurezza del territorio da aggressioni esterne e come protezione degli  interessi statali nella politica internazionale, non più riferito allo Stato-nazione ma  allo Stato-comunità, da intendersi come sicurezza da garantire agli individui  (sottoposti alla giurisdizione statale) nella loro vita quotidiana. Tale concetto si  sarebbe dovuto tradurre nella protezione dalle malattie, dalla fame, dalla  disoccupazione, dal crimine (o dal terrorismo), dal conflitto, sociale, dalla repressione  politica e dalla distruzione dell’ambiente. Nella società internazionale sorta dalla  guerra fredda, in altre parole, i pericoli ed i conflitti dei quali preoccuparsi erano  quelli interni, molto più che quelli internazionali; l’obiettivo primario era  rappresentato dalla tutela dell’individuo, non già dello Stato.  

Il concetto di sicurezza promosso dall’UNDP era evidentemente molto ampio, e non  si esauriva nella protezione dei diritti umani degli individui: la tutela dalle gross  violations dei diritti umani era condizione necessaria ma non sufficiente a garantire la  sicurezza umana. La libertà dalle minacce poteva rappresentare uno solo degli aspetti  dei quali preoccuparsi, essendo al contempo necessario provvedere al benessere degli  individui. Prospettiva, quest’ultima, che sarebbe stata ben presto messa da parte: a  seguito delle forti critiche all’intervento della NATO in Kosovo del 1999, nel  Millennium Report del 1999, il Segretario Generale ONU Kofi Annan invitava  l’Assemblea Generale a elaborare soluzioni che garantissero la legittimità  dell’intervento umanitario a fronte di violazioni sistematiche dei diritti umani delle  comunità stanziate sul territorio da parte dallo Stato. Il problema veniva cioè  ricondotto alla questione della libertà dalle minacce più gravi, e più in generale alle  conseguenze delle crisi umanitarie sul bilanciamento tra il divieto di ingerenza negli  affari interni di uno Stato e il dovere di questo di proteggere a individui posti sotto la  sua giurisdizione (che il Segretario Annan indicava come «tutela dell’umanità»). 

Ragionando sui limiti da porre all’inviolabilità della sovranità statale, si finiva tuttavia  per accantonare l’aspetto positivo della «sicurezza umana», quello legato al benessere  della società: in questo contesto emerge il concetto di responsibility to protect.  

Constatata l’impossibilità di pervenire ad un risultato in ambito onusiano (data  l’opposizione della gran parte dei Paesi in via di sviluppo, preoccupati dall’eventuale  ingerenza delle maggiori Potenze nei propri affari interni), della questione veniva  investita la International Commission on Intervention and State Sovereignty (ICISS),  organo indipendente istituito su iniziativa del Governo canadese (e presieduto dall’ex Ministro degli esteri australiano Gareth Evans e da un consigliere speciale del  Segretario Generale ONU, l’algerino Mohammed Sahnoun).  

Nella parte dispositiva del rapporto della commissione si faceva riferimento alla sola  responsabilità di proteggere. Due erano i principi fondamentali: 1) sovranità come  responsabilità: lo Stato detiene la responsabilità primaria di proteggere il proprio  popolo; 2) eccezione al principio del divieto di intervento: qualora una popolazione  soffra seri danni a causa di conflitti interni, insurrezioni, repressione o fallimento  dello Stato, e lo Stato in questione manchi della capacità e volontà di intervenire, il  principio del divieto di intervento cede di fronte alla responsabilità di proteggere. Gli  elementi fondamentali da prendere in considerazione sono tre: la responsabilità di  prevenire, quella di reagire e quella di ricostruire; la dimensione prevalente, da un  punto di vista gerarchico, sarebbe, invece, quella connessa alla prevenzione.  

Quanto alla sicurezza umana, pur ribadendo l’importanza del concetto (inteso come  salvaguardia della salute fisica, ma anche del benessere economico e sociale e della  dignità degli esseri umani, mediante tutela dei diritti umani e delle libertà  fondamentali) e del suo riconoscimento sotto forma di diritto della popolazione e dei  singoli individui, oltre che dello Stato, la commissione finisce per ricondurlo alla  tutela dalle minacce alla vita, alla salute, al benessere e alla dignità rappresentate da  aggressioni esterne o da parte di forze «di sicurezza» Nel prosieguo si farà  riferimento soltanto alla prassi emergente e ai dibattiti connessi all’intervento in  protezione umanitaria (o semplicemente intervento umanitario).  

Nel settembre del 2003, il Segretario Kofi Annan invitava gli Stati a inserire la tutela  dal genocidio nell’agenda delle riforme dell’ONU, ed istituiva un High-level Panel on  Threats, Challenges and Change con il compito di presentare un rapporto sul modo in  cui l’organizzazione internazionale avrebbe dovuto rispondere alle maggiori minacce  alla sicurezza. Il rapporto, pubblicato nel dicembre del 2004, veniva intitolato A More  Secure World: Our Shared Responsibility. In queste circostanze, l’organo politico  avrebbe potuto interpretare in maniera estensiva il concetto di minaccia alla pace,  facendo coincidere con esso la minaccia alla sicurezza (umana); sul piano  procedurale il predetto rapporto suggeriva il recepimento delle proposte in risoluzioni  del Consiglio di sicurezza e dell’Assemblea Generale.  

In ambito ONU, il dibattito proseguiva in maniera proficua; l’idea di riconoscere una  responsabilità di protezione internazionale sembrava essere sostenuta da Governi e  società civile, come avrebbe dimostrato il World Summit del 2005.  L’Outcome Document, approvato al termine della conferenza, contiene in effetti un importante riferimento al principio della responsabilità di proteggere. Ai parr. 138 e  139, i più rilevanti in materia, i Capi di Stato e di Governo si dichiaravano favorevoli  al riconoscimento in capo agli Stati della primaria responsabilità di proteggere le  rispettive popolazioni da genocidio, crimini di guerra, crimini contro l’umanità e  pulizia etnica – da intendersi innanzitutto come dovere di prevenzione dei crimini  citati. Sulla Comunità internazionale riposerebbe la responsabilità di adottare tutti gli  strumenti pacifici a sua disposizione per aiutare le popolazioni minacciate da quei crimini; quando uno Stato non riesca ad eseguire il proprio dovere di protezione, e  quei mezzi risultino inadeguati, si potrebbe invece ricorrere a misure coercitive,  compreso l’uso della forza collettiva su autorizzazione del Consiglio di sicurezza, ai  sensi del Capitolo VII della Carta ONU.  

Purtroppo, l’assenza di consenso degli Stati ha impedito di inserire nel documento  qualsiasi riferimento alle condizioni di legittimità dell’intervento ed all’emersione  della norma consuetudinaria sulla responsabilità di proteggere, così come l’invito ai  membri permanenti del Consiglio di sicurezza di non utilizzare il potere di veto.  D’altro canto, certamente rilevante risulta l’esortazione alla Comunità internazionale di incoraggiare ed aiutare gli Stati ad adempiere le proprie  responsabilità, sostenendo a tale scopo l’ONU nella realizzazione di un sistema di early warning con l’elezione del Segretario, Ban ki-Moon, due ulteriori, significative  azioni sono state intraprese: da un lato, la nomina di un nuovo Special Adviser on the Prevention of Genocide (in carica dal 29 maggio 2007 con la modifica dello status – promosso Under-Secretary-General), affiancato dal primo “Special Adviser to the  Secretary General with a focus on the Responsibility to Protect” , allo scopo di  elaborare un meccanismo che consentisse di raccogliere e analizzare le informazioni  connesse al c.d. early warning (fornendo raccomandazioni al Segretario Generale e al  Consiglio di sicurezza) ed allo stesso tempo lavorare alla costruzione del consenso  degli Stati sul concetto di responsabilità di proteggere; dall’altro, il 12 gennaio 2009  veniva pubblicato il rapporto intitolato Implementing the Responsibility to Protect,  che avrebbe tra l’altro fornito l’impulso all’avvio di un nuovo dibattito all’interno  dell’Assemblea Generale.  

Nel suo rapporto, il Segretario Ban ki-Moon dichiarava di voler rispondere ad una  delle più delicate sfide poste nei parr. 138 e 139 del World Summit Outcome, ossia  quella di rendere operativo il principio della responsabilità di proteggere  In questo senso, la strategia da adottare sarebbe fondata su tre pilastri: responsabilità  di proteggere dello Stato; assistenza internazionale (capacity-building); risposta decisa  e rapida. Particolare valore assumerebbe poi la prevenzione nei casi nei quali non  risultasse sufficiente, l’immediatezza e l’elasticità della reazione rispetto alle  specifiche circostanze. Fondamentale è altresì il pronto il meccanismo del c.d. early  warning, la cui istituzionalizzazione in seno all’ONU avrebbe tra l’altro consentito di  coinvolgere gli attori internazionali più direttamente interessati dalle situazioni  riferite in tempi brevi, così da garantire la possibilità di adottare misure adattate al  caso concreto e implicanti il minor grado possibile di coercizione. Nelle  raccomandazioni finali, Ban ki-Moon sottolineava il lavoro degli Special Adviser e il  ruolo dell’Assemblea Generale, organo del quale si sarebbero potute incontrare le  posizioni degli Stati e rendere i principi operativi. 

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