Il futuro delle relazioni internazionali dopo l’elezione di Donald Trump | Intervista al gen. Marco Bertolini

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A cura di Matteo Pistilli

Dopo il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, il Centro Studi Eurasia e Mediterraneo ha chiesto a tre generali dell’esercito italiano la loro opinione sul futuro delle relazione internazionali dopo il risultato delle elezioni presidenziali statunitensi.

Il dibattito sul futuro delle relazioni internazionali dopo l’elezione di Trump è in pieno svolgimento con uno spettro che inizia dal cambiamento epocale e finisce con la totale coincidenza con l’attuale sistemazione. Che visione geopolitica porta Trump? E che conseguenze avrà secondo Lei?

Il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca, come risultato di una elezione che ha avuto il sapore del plebiscito per l’ampio margine del suffragio ottenuto, avrà certamente implicazioni importanti sia negli Stati Uniti che nel resto del mondo, con particolare riferimento all’Europa.

Certamente, negli Stati Uniti l’avversione non nascosta da Trump per la retorica dei “diritti” delle minoranze che pretendono di essere maggioranze (attivisti LGBT ecc. vari, immigrati clandestini, coloured del BLM, woke, ecologisti arrabbiati, ecc..), avrà un sicuro impatto sociale interno, magari accompagnato da resistenze e forse da disordini non escludibili a priori. E dato che l’Europa normalmente segue a ruota gli Usa, nel progresso tecnologico ma anche nelle mode, come nei vezzi, nelle cialtronerie e nelle civetterie che produce, non è escluso che un effetto sociale – benefico a mio avviso – potrebbe aversi anche sulla costa orientale dell’Atlantico. Ma, ovviamente, quello che più ci interessa oggi è l’impatto che l’irrompere del vecchio-nuovo Potus (President of the United States) avrà sui conflitti in corso, mai come in questi anni a rischio di strabordare nella nostra pacifica routine di Europa a scartamento e ambizioni ridotte. Tralasciata la sua a suo tempo sbandierata aspirazione a porsi come potenza terza tra Estremo Occidente (gli Usa e in generale l’anglosfera) e l’Oriente russo-asiatico, l’Unione Europea infatti ha già dimostrato col suo suicida impegno a favore della continuazione della guerra in Ucraina di non avere norme di linguaggio e politiche che si discostino da quelle che le vengono proposte/imposte da Washington, anche contro i suoi – dell’Europa – interessi. Anzi, pare più che mai determinata in nome di principi difficili da comprendere, a farsi indicare quali siano i suoi interessi o almeno quelli per i quali può essere necessario battersi. Se ci fossero dei dubbi in proposito dovrebbero valere come memento i rimasugli del Nord Stream sul fondo del Baltico e la conseguente crisi del maggiore polo industriale del Continente, in Germania. Sempre che non basti la distruzione di larga parte dell’Ucraina stessa e la morte di centinaia di migliaia di europei su entrambi i fronti.

Resta il fatto che ora ci troviamo nel pieno di un gorgo di speculazioni internazionali volte a capire dove gli Stati Uniti, e con loro forse il mondo, andranno a parare con l’insediamento del nuovo Presidente Usa nel gennaio prossimo, con tutti i commentatori politici impegnati, come gli aruspici della Roma più antica occupati a scrutare il volo degli uccelli o le viscere degli animali sacrificali, a interpretare le sue prese di posizione estemporanee, quasi caotiche, a favore o contro questo o quel belligerante, mischiando asseriti progetti di pacificazione immediata in Europa a esortazioni a far presto nei confronti di Israele, mettendo quindi in conto una accelerazione nel ritmo delle discutibili operazioni di cui quest’ultimo si rende protagonista.


Nello specifico vorremmo soffermarci sugli attuali quadranti di crisi. Come influenzerà la guerra in Ucraina questa elezione?  E che conseguenze avrà nella guerra in Palestina, Libano e Vicino Oriente? Che effetti avrà sulla situazione di Taiwan?

Certamente, credo che le speranze della sinistra internazionale che si riconosce nel “Partito madre” Democratico statunitense per la continuazione senza alterazioni significative della tradizionale politica interventista americana siano destinate ad essere almeno parzialmente deluse (uso i termini sinistra e destra – scaduti di significato almeno in questo contesto – per mere esigenze di sintesi). Al tempo stesso, non credo che ci si possa illudere, come fanno altri anche a destra, che il nuovo Potus porti ad un suicidio degli Stati Uniti come superpotenza mondiale, lasciando i singoli Paesi “alleati ed amici” a gingillarsi con le proprie sovranità. Insomma, continueremo ad avere la catena corta.

Infatti, credo che non debba sfuggire una forte coerenza nelle motivazioni di fondo di entrambi gli schieramenti statunitensi per quanto attiene al ruolo degli States nel mondo. Condizione, questa, che per quel che riguarda Trump, si riflette anche nel suo motto “Make America Great Again” e nella volontà di perseguire la pace “tramite la forza” che evidenziano un chiaro programma di predominio mondiale, messo a suo avviso a rischio dalle velleità dei “regimi” democratici che si sono alternati negli Usa.

Quello che probabilmente differenzia maggiormente le due visioni, sempre con riferimento alla politica internazionale e tralasciando le questioni sociali (rapporti con le minoranze etniche, lotta alla clandestinità, lobbies LGBTQ, woke, aborto e morale sessuale in generale, ecc.) credo sia nei mezzi da utilizzare, prediligendo forse il prossimo Potus il “soft power” dell’economia e del commercio rispetto alla forza muscolare e militare di cui i democratici sono da sempre portabandiera. Sempre che i dazi di cui si parla o le sanzioni brandite tradizionalmente dagli Usa come arma finale possano essere considerati semplice “soft power”.

Ciò premesso, in linea di massima non possiamo non dare credito alle affermazioni ripetute da Trump sulla sua volontà di porre fine alla guerra in Ucraina in tempi rapidissimi a partire dal suo insediamento il 20 gennaio prossimo. Troppo frequenti e “accorate” queste prese di posizione per non essere seguite, già da gennaio prossimo, da atti concreti che confermino la sua affidabilità. Al riguardo, il “Presidente eletto” ha lasciato trasparire un suo piano – accompagnato da affermazioni sferzanti dei suoi consiglieri più vicini nei confronti delle velleità di “vittoria” di Zelensky – per il quale a Mosca resterebbero Crimea e territori già conquistati, rimandando di una ventina d’anni la possibile entrata dell’Ucraina nella Nato: accarezzando cioè la richiesta più pressante di Putin fin dall’anno precedente le ostilità del febbraio 2020. Un piano che però fa i conti senza l’oste, avendo più volte Putin affermato che non è di un “cessate il fuoco” che c’è bisogno, ma di una nuova architettura di sicurezza che tenga conto delle esigenze della Federazione Russa. In questo contesto, il semplice posticipo dell’entrata dell’Ucraina nella Nato a tempi migliori verrebbe percepito come una riedizione della presa in giro degli Accordi di Minsk che furono definiti dalla stessa Angela Merkel come un tentativo di dare tempo all’Ucraina di prepararsi alla guerra. A questa guerra.

Se effettivamente fosse questo il piano, ci sarebbero probabilmente molte possibilità che venga respinto dal Cremlino che ora sta pregustando il sapore della vittoria sul campo dove gli ultimi abitati fortificati ad est del fiume Dniepr (Kupjansk, Kromatorsk, Sloviansh, Chasiv Yar, Toretsk, Pokrosk, Kurakove e Velika Novosjlka) evidenziano importanti segni di cedimento.

Ovviamente, quanto esposto sull’impostazione meno militare – ma non per questo meno muscolare – di Trump va preso cum grano salis, non essendo esenti, lui stesso e il suo entourage, da pericolose affermazioni belliciste soprattutto per quanto attiene alla politica mediorientale. In Medio Oriente c’è un “nervo scoperto” che rimane tale sia per repubblicani che per democratici, e si tratta di Israele, per la forte influenza che hanno la lobby ebraica statunitense e quella dei Cristians for Israel nelle scelte di politica internazionale; e per l’interesse che ogni amministrazione statunitense ha da sempre nel mantenete il controllo su un’area di rilevanza strategica mondiale per le risorse che contiene e per le tensioni conseguenti da cui è attraversata. La probabile nomina di Mike Huckabee quale Ambasciatore a Gerusalemme conferma, in questo contesto, una linea filosionista difficile da negare e preoccupante per chi spera in un allentamento della tensione tra Israele, palestinesi e mondo musulmano in genere.

Trump, tra l’altro, non nasconde una avversione profonda per l’Iran avendo forse interiorizzato, come larga parte dell’opinione pubblica del suo paese, la frustrazione per il fallimento di quella mancata rivoluzione colorata ante litteram in cui gli Usa speravano con la Rivoluzione Iraniana che sostituì lo Scià Reza Pahlevi con Rhuollah Khomeini nel 1979: una mancata rivoluzione colorata aggravata da quello che ne seguì col sequestro dei diplomatici statunitensi a Teheran e col conseguente fallimento dell’operazione delle Forze Speciali US per liberarli. Insomma, gli USA passarono dalla padella alla brace con il nuovo regime degli Ayatollah che sorprendentemente confermava, dopo essere stato insediato proprio ad opera di Stati Uniti e Francia, la stessa linea di terzietà tra Occidente e mondo comunista proclamata dallo Scià. Una lunga e sanguinosa guerra tra Iran e Iraq, quest’ultimo sostenuto dagli Usa prima della caduta in disgrazia di Saddam, servì a eliminare buona parte dell’arsenale militare occidentale di cui Reza Pahlevi aveva dotato il suo paese.

In sintesi, credo che sia effettiva la volontà di Trump di non cercarsi grane in Ucraina, riducendo il supporto militare a Zelensky; supporto al quale si deve ascrivere in larghissima misura la resistenza opposta fino ad ora alla pressione russa.

Non sarei invece altrettanto sicuro della sua volontà (o delle sue possibilità) di ridurre le tensioni in Medio Oriente, proprio per il peso che la politica israeliana ha anche nel contesto interno statunitense che, è forse il caso di ricordare, rappresenta il tema principale col quale Trump si è meritato per la seconda volta le spalline di Commander in Chief.

A parte questo, comunque, più che le reali intenzioni dell’interessato almeno in questo momento valgono le percezioni e le aspettative dell’amministrazione uscente (o chi la gestisce) che molto probabilmente teme che il biondo Tycoon voglia effettivamente tenere fede ai suoi impegni preelettorali. E non c’è dubbio che per questo ci si possono attendere un paio di mesi impegnativi e frizzanti nei quali si cercherà l’atto compiuto dal quale anche il meno bellicoso tra i Potus possibili non potrà recedere a meno di perdere la faccia di fronte al mondo.

La decisione con la quale Biden ha autorizzato, proprio dopo la solenne bocciatura elettorale della sua politica, l’impiego dei missili a lunga gittata contro il territorio russo da parte degli Ucraini, si inquadra certamente in questo disperato tentativo di attirare Putin in un’escalation dalla quale non si possa astenere, costringendo anche Trump ad abbracciare il bellicismo democratico. Una decisione da molto tempo invocata da Zelensky ma assolutamente irrituale e inelegante, da parte di un Presidente tuttora in carica, ancorchè giudicato così inadeguato da spingere il partito a ricorrere ad un candidato inconsistente come Kamala Harris nella speranza che con un po’ di media a favore evitasse l’umiliazione della sconfitta elettorale.

Una ineleganza che coinvolge anche Macron, sbugiardato dal proprio elettorato ma a sua volta autore di una identica, contemporanea e certamente concertata decisione, nonché Keir Starmer, il Primo Ministro inglese evidentemente desideroso di dimostrare che col recente ritorno dei laburisti al potere la situazione non può che “migliorare”. In ogni caso, si tratta di un modus operandi non nuovo visti i precedenti del 2016, quando in vista della probabile sconfitta elettorale di Hillary Clinton ad opera di Trump, Obama decise lo schieramento di missili a lunga gittata in Polonia e in Romania, con la risibile scusa di predisporre le difese da una possibile minaccia iraniana. Dispose inoltre la rotazione a partire dal 2017 di una Brigata US nei Paesi Baltici e iniziò un rafforzando dei legami con i paesi non membri della Nato nella regione, arrivando alla firma di un accordo logistico con la Finlandia. Ma allora c’era solo una “guerra ibrida” nel Donbass, fatta da strani omini verdi che non esibivano le uniformi russe, mentre ora quella in atto è una guerra vera e propria, simmetrica e ufficiale tra Ucraina e Russia, con l’impiego di ingenti risorse tecniche e umane, sul punto di attirare nel suo gorgo i restanti paesi europei.

Quanto alla questione di Taiwan, la stessa rimane sullo sfondo di questi conflitti europeo e mediorientale che potrebbero essere ulteriormente aggravati da una “rivoluzione colorata” in Georgia, per ora scongiurata dal voto popolare, nonché soprattutto dal coinvolgimento dell’Iran in un conflitto aperto con Israele dal quale la Russia farebbe molta fatica a chiamarsi fuori. La Russia, infatti, è già presente in Siria con un cospicuo contingente militare e con due basi importanti come Tartus e Hmeimin che non può rischiare di perdere.

Per questo, non c’è dubbio che Pechino segue con particolare attenzione gli eventi, seppur con un atteggiamento improntato alla massima prudenza, certa che prima o poi i nodi verranno al pettine.

Infine, una necessaria domanda sulle conseguenze nel nostro Paese. Trump alla presidenza (con la sua squadra della quale fa la parte del leone Musk) avrà ripercussioni sulle politiche della nostra difesa, sul nostro ruolo (e quello della UE) nel continente?

Certamente il nostro Paese ha bisogno di un ripensamento complessivo del proprio strumento militare, da troppi decenni trascurato. E io concordo col fatto che si debba provvedere in merito. L’Esercito, con la moneta, è uno strumento di sovranità nazionale imprescindibile, non solo sotto il profilo operativo in senso stretto ma anche da un punto di vista simbolico, e se non vogliamo dissipare la nostra indipendenza in quel brodo insapore che è l’Unione Europea attuale, irrispettosa delle peculiarità nazionali, dovremmo fare attenzione a non rinunciare al “soldato” nazionale. Il Soldato nazionale, appunto, che proprio perché votato all’interesse del proprio popolo non opera necessariamente “per la legge” come il poliziotto, ma per quelli che sono ritenuti i diritti vitali della sua gente, giusto o sbagliato che possa sembrare al competitore del momento e alla congerie dei tifosi esterni.

Passatomi questo piccolo sfogo di frustrato soldato di mestiere, l’Italia deve essere consapevole della sua importanza strategica, per la posizione geografica che ha ma anche per il capitale culturale che le è proprio e che la rende importantissima quale elemento di raccordo tra Europa continentale, Africa e Medio Oriente. Ciò detto, con la guerra in Ucraina ha fatto una scelta di campo di segno opposto, netta, eccedendo a mio avviso in “trasporto” nello sposare dall’inizio una guerra discutibile. Ha, in altre parole, rinunciato al suo tradizionale ruolo di elemento di dialogo tra le parti, riconosciutole quasi unanimemente per la sua storia, forse anche come reazione al luogo comune che la vorrebbe come una banderuola pronta ad abbracciare solo le cause del più forte.

Così facendo, però, ora si potrebbe trovare in difficoltà con una nuova politica americana che virasse di 180 gradi rispetto a quella di Biden (o di chi per lui) in politica estera. Sotto il profilo interno, è stata una scelta che ha scontentato molti che si riconoscono nei richiami alla sovranità nazionale con cui Giorgia Meloni aveva condotto la sua campagna elettorale vincente, e che masticano male il palese appiattimento sui furori bellicisti di una UE che pare impegnata soprattutto a confermare il sostegno all’Ucraina, “whatever it takes”. Non si potrebbe spiegare altrimenti la rinuncia ad un rapporto importante con la Russia che riforniva il continente di gas sicuro e a prezzi convenienti, e che rappresentava un’espansione del mercato europeo estremamente conveniente.

Ma, appunto, questa è storia del passato e con la prossima amministrazione US potrebbe presentarsi la necessità di allinearsi ad altri richiami da Washington, che non potrebbero non creare grandi imbarazzi.

Detto questo, non credo che si tratti necessariamente di una scelta ingiustificata. In altre occasioni, abbiamo visto come i governi di inclinazione non gradita per la UE o oltreoceano abbiano avuto vita breve o comunque difficile nel nostro Paese. E la necessità di evitare all’Italia governi peggiori giustifica qualche boccone amaro. Ma l’aggettivo indefinito “qualche” non dovrebbe giustificare l’entusiasmo per una causa discutibile, soprattutto tenuto conto degli alti prezzi che ci vengono imposti.

A questo punto, mi corre in supporto la mia natura di militare, ricordandomi il motto di un reparto della Seconda Guerra Mondiale che recitava “il mio nome, il mio onore, la mia vita non valgono la mia Patria”. Appunto: la scelta di abbracciare la causa della discutibile “democrazia” ucraina potrebbe essere stata dovuta a qualcosa che ancora non è noto a noi del grande pubblico in merito a ciò che “deve” accadere e che giustificherebbe ogni sacrificio per il bene di tutti, da parte di chi deve decidere.

Per il bene di tutti, sarebbe bello e preferibile che si trattasse di semplice opportunismo.

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