L’eccezionalismo della “città sulla collina”. I diritti umani nella politica estera statunitense

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Al fine di analizzare il ruolo rivestito dal tema dei diritti umani nella politica estera degli Stati Uniti è indispensabile ripercorrere le origini storiche della nazione che si sarebbe affermata come superpotenza dell’ordine mondiale contemporaneo. Come ricostruito dallo storico e politico Henry Kissinger, tedesco naturalizzato statunitense, se in Europa il sistema di ordine era stato fondato, a partire dalla fine della guerra dei trent’anni, “sull’eliminazione degli assoluti morali dalla sfera dell’attività politica, non foss’altro per l’esito disastroso dei tentativi di imporre un unico credo ai diversi popoli del continente”, la giovane potenza statunitense si fondò sui principi del credo puritano. Il puritanesimo, a parere dell’aristocratico francese Alexis de Tocqueville, si confondeva “in molti punti con le teorie democratiche e repubblicane più assolute”, in virtù di una ossimorica commistione tra spirito di religione e spirito di libertà.

Gli Stati Uniti restavano infatti fedeli all’eccezionalismo dello statista puritano John Winthrop, sbarcato insieme ad un gruppo di fedeli a Salem, nel Massachusetts, nel giugno del 1630. Per il Presidente Thomas Jefferson gli USA erano un impero per la libertà, i cui interessi coincidevano con quelli dell’umanità tutta e la cui visione geopolitica era inscindibile da un ordine morale universalistico la cui prima e più evidente manifestazione coincise con l’elaborazione dei Fourteen Points presentati dal presidente Woodrow Wilson nel 1918, ovvero dei propositi sostenuti dal presidente (ma non dal Congresso) in merito all’ordine mondiale che avrebbe dovuto essere instaurato in seguito alla prima guerra mondiale.

La retorica del senso di responsabilità per l’ordine mondiale e dell’indispensabilità della potenza americana ha di fatto permeato i discorsi dei presidenti succedutisi nel corso dei decenni: nella seconda metà degli anni ’70, il democratico Jimmy Carter trovò nella ricerca della moralità perduta l’argomento vincente per affermarsi nella corsa alla Casa Bianca. Carter, infatti, succeduto al presidente Nixon, la cui politica estera fu a sua volta caratterizzata dal relativismo particolarista e amorale del Segretario di Stato Henry Kissinger, affermò che gli Stati Uniti erano “vincolati ad alcuni imperituri ideali» che dovevano «riflettersi anche nella politica estera” e ribadì nel suo discorso di insediamento che “L’impegno statunitense per la difesa dei diritti umani» avrebbe dovuto essere “assoluto”.

Una retorica imbevuta di ancora più roboante moralismo fu quella di Ronald Reagan – la cui vittoria “era anche, se non primariamente, la sconfitta di Carter” – presidente repubblicano con un passato da attore hollywoodiano. Un ruolo, questo, che probabilmente contribuì a dargli quella disinvoltura con cui si fece uno, nessuno e centomila: definito da un suo biografo “un ex attore che vedeva ancora l’America e il futuro nei colori lucenti del technicolor”, egli rinfocolò l’antagonismo con l’Unione Sovietica attraverso una retorica manichea di contrapposizione tra Bene e Male, che muoveva, a parere dello storico John Lewis Gaddis, da ciò che Reagan “vedeva come l’errore centrale della distensione: l’idea che l’Unione Sovietica si fosse meritata una legittimazione geopolitica, ideologica, economica e morale pari a quella degli Stati Uniti e delle altre democrazie occidentali nel quadro del sistema internazionale del secondo dopoguerra.»

Un simile atteggiamento gettò le basi logiche e ideologiche per la successiva politica di enlargement che, lanciata dal democratico Bill Clinton, diede di fatto un rinnovato stimolo alle aspirazioni universalistiche degli Stati Uniti delle origini.

La fine della guerra fredda e le guerre umanitarie

A parere dello storico Mario Del Pero, durante la campagna elettorale del 1992, Clinton “riuscì a trasformare in risorsa la sua inesperienza in materia di politica estera”: alla mentalità rigidamente bipolare di George Bush, ancorata alla decennale esperienza della guerra fredda, Clinton contrappose “la freschezza del suo approccio”. Inoltre accusò Bush di aver ignorato la tutela dei diritti umani, con particolare riferimento alla crisi dell’ex Jugoslavia e soprattutto ai fatti di piazza Tiananmen, avvenuti nel 1989 in Cina.

A questi ultimi la popolazione statunitense rispose con spiccata angoscia e sdegno e fu critica nei confronti dell’atteggiamento dell’allora neoeletto presidente Bush la cui reazione – da Kissinger definita “capace ed elegante” – fu attenta e calibrata in virtù di un riflessione sul messaggio che sarebbe così stato trasmesso non alla sola Cina, ma anche ad altri attori dello scacchiere internazionale. Se avesse risposto in maniera troppo edulcorata, i leader dei prossimi al crollo regimi comunisti avrebbero di fatto ricevuto una legittimazione a reprimere i dissidenti interni con la violenza; d’altra parte, una reazione eccessivamente dura avrebbe fornito ottime ragioni a quanti, in Cina, si erano sempre opposti alla collaborazione sino-statunitense per denunciare le mire espansionistiche di Washington e la sua violazione della sovranità territoriale cinese ed avrebbe senz’altro urtato la sensibilità dei leader di Pechino, per i quali “salvarsi la faccia era una questione fondamentale”.

Fu in questo contesto che nel 1993, nel corso della Conferenza delle Nazioni Unite sui diritti dell’uomo tenutasi a Vienna si affermò – sulla scia dell’insegnamento kantiano sviluppato, tra gli altri, da pensatori come Jürgen Habermas e John Rawls, a parere dei quali i diritti dell’uomo sono suscettibili di una rigorosa fondazione cognitiva e normativa, “cosicché è del tutto ovvio che sia possibile proporli all’umanità intera senza incorrere in alcuna forma di imperialismo culturale” – che i diritti fondamentali sono caratterizzati “dall’ indivisibilità e dall’universalità”. Questa formula venne da quel momento in poi utilizzata in modo polemico contro le posizioni di quelle società espressione di culture non occidentali, in particolari quelle islamica, induista e confuciana e fu funzionale all’inizio delle guerre umanitarie che, in aperta violazione del diritto internazionale, diedero avvio ad un periodo di egemonia militare cominciata nel 1999 a ridosso dell’intervento militare della NATO in Kosovo e proseguita in seguito all’attacco terroristico dell’11 settembre del 2001.

Come ricostruito da Danilo Zolo nel suo “La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad”, la giustificazione della guerra di aggressione come humanitarian intervention può essere fatta risalire ai documenti elaborati a partire dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso dalle massime autorità politiche e militari degli Stati Uniti. L’assunzione teorica sottostante all’interventismo umanitario è che la tutela internazionale dei diritti dell’uomo deve essere considerata prioritaria rispetto alla sovranità degli Stati e all’obiettivo stesso della tutela della pace e dell’ordine mondiale.

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