QUALI DIRITTI UMANI?

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di Aurelia Puliafito

Come ricostruito da Marcello Flores nella sua “Storia dei diritti umani”, nel 1947 l’Associazione Antropologica Americana condivise con la Commissione Diritti Umani delle Nazioni Unite, guidata da Eleanor Roosevelt, tramite il suo comitato esecutivo, una riflessione in merito a come bilanciare il rispetto dei diritti dell’individuo con quelli dei “differenti gruppi umani”, preso atto del fatto che non si potesse mai garantire il pieno sviluppo del singolo laddove non si fosse fatto altrettanto per il gruppo di appartenenza dello stesso. Conseguentemente, si sosteneva che le idee di giusto o sbagliato, di buono o cattivo, sono radicate in ogni società, benché differiscano nella loro espressione tra popoli diversi. Ciò che si ritiene un diritto umano in una società può essere considerato come antisociale in un’altra.

Implicitamente si invitava la Commissione a prendere atto che – affinché la stesura di una Dichiarazione dei diritti dell’uomo fosse realmente universalmente valida – tale dato di fatto non avrebbe potuto essere ignorato perché “l’uomo è libero quando vive nel modo in cui la società cui appartiene definisce la libertà”. L’opinione espressa dall’Associazione di fatto abbracciava un punto di vista sostanzialmente relativistico, tanto da suggerire alla commissione di abbandonare la definizione della Dichiarazione come universale, frutto di una “visione destoricizzata”, per la quale le culture assumevano tratti eterni ed immutabili.

Al contempo, la neocostituita agenzia culturale dell’Onu, nata sotto il nome di Unesco, aveva inviato ad intellettuali e filosofi di tutto il mondo un questionario attraverso il quale si chiedeva di spiegare i rapporti intercorrenti tra diritti politici, economici e sociali, quale fosse stata l’evoluzione che avevano subito a partire dal Settecento, e quali fossero le basi teoriche e metafisiche sottostanti; due anni più tardi, nell’introduzione al libro che raccoglieva le riflessioni prodotte dai suoi colleghi, il filosofo francese Jacques Maritain sostenne che fosse inevitabile che il tema, unico nel suo genere perché riguarda e tocca nel profondo ogni essere umano, potesse divenire oggetto di dibattito tra i sostenitori di due differenti interpretazioni teoretiche, ovvero “chi accetta e chi rifiuta la legge naturale come base per i diritti umani”, dunque tra chi li ritiene “fondamentali inalienabili e sicuri” e quanti li considerano “relativi allo sviluppo storico della società e sono essi stessi costantemente variabili ed in uno stato di flusso”.

Espressamente contrario alla possibilità di “formulare una dichiarazione dei diritti umani in termini individualistici” fu il politico ed economista inglese Harold Laski, che sosteneva che la formulazione dei diritti civili elaborata dai teorici contrattualisti del XVII e XVIII secolo fosse inattuale, perché basata su una contrapposizione tra il singolo e l’autorità politica non più esistente in un mondo caratterizzato dai nuovi rapporti inter-statuali; simile era la posizione di Benedetto Croce, che pure riteneva inopportuno adottare la posizioni di quanti sostenevano l’esistenza di “diritti storicamente determinati”; ancora, il filosofo Chung- Shu Lo si fece portavoce della cultura confuciana che aveva permeato e permeava il suo Paese – tanto da non potersi parlare di “rivendicazione di diritti” quanto di “educazione etica” della collettività – e sostenne che una dichiarazione universale avrebbe potuto essere efficace solo se flessibile.

Indubbiamente, le speranze e le aspettative suscitate dalla Dichiarazione Universale dei Diritti umani vennero tradite dallo scoppio della guerra fredda, dalla sistematica violazione dei diritti di cui entrambi i blocchi si macchiarono e dalla strumentalizzazione che di essi si fece, tanto da condurre ad espresse forme di contrapposizione all’implementazione della materia nel contesto internazionale, perché considerata “il cavallo di Troia per indebolire la sovranità nazionale”.

È, questa, una accusa in primis mossa dalla Cina, la cui storia di evoluzione della tutela dei diritti umani viene ripercorsa da Zhu Feng, il quale afferma, in primo luogo, che la vittoria del fronte comunista nel 1949 vide sacrificare i diritti umani sull’altare dell’organizzazione comunista dello Stato e la stabilizzazione del potere. I diritti di base dei cittadini vennero elencati, in quel medesimo anno, in uno Statuto, il cosiddetto “Programma comune” e dalla costituzione del 1954 vennero ripresi ed ampliati. Al contrario, le costituzioni promulgate nel 1975 e nel 1978, nel corso della Rivoluzione culturale, ridussero in modo consistente i diritti riconosciuti ai cittadini, e venne addirittura cancellato “l’articolo che sanciva che lo Stato avrebbe provveduto alla tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini”, così di fatto non ponendo alcun limite all’arbitrio dello Stato, in virtù di una concezione frutto al contempo della tradizione autoritaria della Cina e della pratica applicazione del marxismo, di cui Mao si considerava fedele interprete.

Il leader comunista, infatti, divideva in modo netto e privo di sfumature il mondo tra amici e nemici: i diritti umani erano un’invenzione della “borghesia liberale”, evidentemente non amica, e di fatto fuori dall’orizzonte ideologico e culturale di Mao stesso, che “abbracciava soltanto l’idea di diritti della classe, ma non dell’uomo”.

La politica della Cina negli anni Cinquanta, Sessanta e Settanta dello scorso secolo perseguì così l’obiettivo di instaurare un regime politico che non che limitava lo spazio alla società civile, poiché “il Partito è lo Stato, lo Stato è la società e la Società è l’individuo”, ma a partire dal 1979 si potè assistere ad una inversione di tendenza, in virtù della quale lo Stato ha promosso una decentralizzazione del potere e un generale allentamento del controllo sulla società.

Nemmeno le critiche alle politiche di Mao pubblicamente espresse da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta andarono ad intaccare le basi profonde di questa concezione ed infatti l’articolo 51 della Costituzione del 1982 recitava: “l’esercizio delle libertà e dei diritti dei cittadini non deve confliggere con gli interessi dello Stato, della società o della collettività, o con le libertà riconosciute dalla legge ed i diritti di altri cittadini”, in quanto, “la democrazia popolare non può essere separata dalla dittatura contro i nemici del popolo”.

La proclamazione della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (1948) da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite non rappresentò che un primo, indispensabile – ma simbolico – passo verso l’effettiva instaurazione di un regime internazionale di tutela dei diritti umani. La decolonizzazione e l’aumento della rappresentanza dei Paesi cosiddetti in via di sviluppo in seno agli organi delle Nazioni Unite diede una rinnovata forza al regime di tutela dei diritti umani.

La promozione e l’incoraggiamento della difesa e della promozione della tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali senza distinzione di sesso, razza, lingua o religione, della cui implementazione furono incaricati l’Assemblea Generale e, sotto la sua autorità, il Consiglio Economico e Sociale,  non avrebbero però potuti essere pienamente messi in atto sino a quando le norme che ne avrebbero dovuto regolare l’attuazione non fossero state sviluppate in modo preciso, particolareggiato e cogente.

Per questa ragione, a partire dal 1950, la medesima Commissione dei diritti dell’uomo che si era occupata dell’elaborazione della Dichiarazione fu incaricata dal Consiglio economico e sociale di elaborare una “Convenzione o un Patto sui punti idonei a costituire oggetto di obbligazioni formali”. Ai diritti civili e politici, inizialmente i soli ad essere presi in esame, vennero affiancati quelli economici sociali e culturali, ed in virtù della diversità della materia venne stabilita la predisposizione di due strumenti separati per disciplinare le diverse categorie di diritti, come ricostruito dai professori Panella e Zanghì.

Quando a partire dal 1955 circa cinquanta Stati precedentemente sottoposti al regime coloniale entrarono a far parte delle Nazioni Unite, modificando, di fatto, in modo sostanziale la composizione dell’Assemblea generale e ottenendo la maggioranza dei voti al suo interno, spinsero, nel 1965, per l’adozione della Convenzione Internazionale sull’Eliminazione di tutte le forme di Discriminazione Razziale (in vigore dal 1969) e contribuirono in modo significativo alla stesura delle convenzioni sui Diritti Civili e Politici e su quelli Culturali Economici e Sociali, poi approvati in via definitiva nel 1966.

In virtù della convinzione che il diritto delle Nazioni e dei popoli a disporre di sé stessi e delle loro sorti sia una condizione preliminare per beneficiare di tutti i diritti umani, gli stati di nuova indipendenza legarono indissolubilmente la causa della colonizzazione alla protezione dei diritti dell’uomo, e la resero uno dei temi centrali dell’attività delle Nazioni Unite.

A riprova di ciò è possibile riportare il contenuto dell’articolo 1 di entrambi i documenti: 1.  Tutti i popoli hanno il diritto di autodeterminazione. In virtù di questo diritto, essi decidono liberamente del loro statuto politico e perseguono liberamente il loro sviluppo economico, sociale e culturale.

2.  Per raggiungere i loro fini, tutti i popoli possono disporre liberamente delle proprie ricchezze e delle proprie risorse naturali, senza pregiudizio degli obblighi derivanti dalla cooperazione economica internazionale, fondata sul principio del mutuo interesse, e dal diritto internazionale. In nessun caso un popolo può essere privato dei propri mezzi di sussistenza.

3.  Gli Stati parti del presente Patto, ivi compresi quelli che sono responsabili dell’amministrazione di territori non autonomi e di territori in amministrazione fiduciaria, debbono promuovere l’attuazione del diritto di autodeterminazione dei popoli e rispettare tale diritto, in conformità alle disposizioni dello Statuto delle Nazioni Unite.

Una delle prime modalità con cui le nazioni decolonizzate contribuirono al regime internazionale  di tutela dei diritti umani fu, quindi, la definizione del principio di autodeterminazione come un diritto umano: un principio, questo, ancora oggi sostenuto a livello inter-statale, da non tralasciare poiché permette di comprendere le origini di uno dei punti di contatto tra la Cina e Stati quali quelli dell’Africa subsahariana, sebbene le concezioni ideologiche dell’Asia e dell’Africa fossero, allora, estremamente eterogenee.

La Cina, infatti, “prima dei Paesi in via di sviluppo”, si presentava come alleata dei paesi africani in funzione anti-imperialista e anti-occidentale, la quale si faceva peraltro portavoce della necessità di riconoscere il fatto che i diritti fossero, secondo un’ottica relativista, inscindibilmente legati alla cultura dei diversi popoli e non possono dunque essere considerati “universali”.

Intorno a questi ruota ad esempio il contenuto della Dichiarazione di Bangkok del 1993, nella quale veniva sottolineata la convinzione che “il progresso economico e sociale facilita il processo di crescita verso la democrazia e la promozione e protezione dei diritti umani” e che “il diritto allo sviluppo è riconosciuto come un diritto universale ed inalienabile e parte integrante dei diritti umani fondamentali”, così ribadendo la visione per cui i diritti non sono in primo luogo degli individui, ma della collettività.

La Conferenza di Bandung è un esempio chiave del forte impegno che gli Stati asiatici ed africani dimostravano negli anni ‘50 e ‘60 nei confronti del tema dei diritti umani. Nell’occasione si assistette, infatti, al riconoscimento ufficiale della Dichiarazione Universale dei Diritti umani come un comune standard da raggiungere. Tuttavia, a Bandung il tema dei diritti umani e dell’autodeterminazione rappresentò uno dei maggiori argomenti tra i vari trattati e le delegazioni infusero i diritti umani di un significato specifico, ponendo particolare enfasi sul principio di auto-determinazione come un pre-requisito del pieno godimento di tutti i diritti umani” e denunciarono la discriminazione razziale e la dominazione coloniale come violazioni dei diritti umani.

Nei successivi vertici dei Paesi non allineati degli anni ‘60 e ‘70, i diritti umani passarono chiaramente in secondo piano e vennero utilizzati in modo strumentale per denunciare i casi di ciò che si considerava una oppressione coloniale, rivolgendoli in particolare contro il Sudafrica, Israele, il Portogallo e gli Stati Uniti per la loro politica in Indocina.

In larga misura, il movimento dei Paesi non allineati era e rimase una piattaforma fondata su valori anticoloniali; così, anche in questo caso, l’opposizione al neo-colonialismo, all’imperialismo e alla dominazione straniera si rivelò l’unico elemento che teneva insieme l’altrimenti improbabile coalizione di Paesi culturalmente diversi e politicamente eterogenei, con livelli economici molto differenti.

Il movimento, perciò, vedeva nella fine del colonialismo una precondizione essenziale per un ordine mondiale pacifico e considerava le politiche di sviluppo come una strategia per superare le disuguaglianze economiche derivanti dal colonialismo e dal neocolonialismo.

I diritti umani nella retorica politica internazionale sono riapparsi solo a partire dal 1979, come reazione alla rapida crescita dell’importanza che il termine aveva acquisito nella politica internazionale occidentale del decennio, in particolare in seguito all’elezione del democratico Jimmy Carter come presidente degli Stati Uniti d’America nel 1976.

Ora, il movimento dei non allineati inquadrava la sua preoccupazione per lo sviluppo economico nel linguaggio dei diritti umani, in un’azione parallela agli sforzi delle organizzazioni africane che già a partire dal 1961 avevano sviluppato l’idea di elaborare una Convenzione africana sui diritti umani, poi fatta propria dall’Assemblea dei Capi di Stato e di governo dell’allora Organizzazione dell’Unità Africana nel 1979.

La Carta, poi approvata nel 1981, richiama nel suo preambolo il principio dell’interdipendenza di tutti i diritti, affermando che “i diritti civili e politici sono indissociabili dai diritti economici, sociali e culturali, sia nella loro concezione che nella loro universalità, e che il soddisfacimento dei diritti economici, sociali e culturali garantisce quello dei diritti civili e politici”.

Se secondo il liberalismo classico, i diritti sono definiti in modo chiaro e la loro forza risiede, a parere della politica hongkonghese Margaret Ng, nella loro natura assiomatica e negativa, in virtù della quale, – sebbene “potrebbero non essere sufficienti a creare la società ideale”- ci appaiono “fondamentali ed inviolabili” perchè, semplicemente, richiedono allo stato ed agli altri consociati di non agire intaccando la sfera giuridica dell’individuo, al contrario, i diritti economici, al pari di quelli sociali, sono frutto di una visione positiva della libertà e vengono presentati come condicio sine qua non per il godimento dei diritti civili: come mi sarà possibile godere della mia libertà “se sono tanto povero da soffrire la fame, da non avere una educazione scolastica, nessuna opportunità di lavoro e l’assenza di altri diritti essenziali da permettermi di vivere una vita dignitosa”?

Tali diritti, in quanti positivi, esprimono una aspirazione, e non cristallizzano un dato di fatto: con essi viene dunque introdotta l’idea che la collettività abbia dei diritti sull’individuo, sul suo lavoro e “su come conduce la propria vita”, perchè, a differenza dei diritti civili, non sono auto-sufficienti ed auto-evidenti. Secondo l’autrice, l’estensione del concetto di diritti umani ai diritti economici e sociali ha un profondo effetto sull’intera teoria dei diritti. Introduce il concetto di priorità: i diritti non sono più immediati ed urgenti, ma diventano una questione di agenda politica e pianificazione collettiva. Nell’espandere il concetto di diritti, li abbiamo di fatto persi tutti.

Inoltre, venne così messo in atto uno slittamento concettuale per cui soggetto dei diritti non è più l’individuo ma la comunità, e nell’ottica del progresso e della tutela di molti diventa ammissibile sacrificare i diritti di alcuni. Tuttavia, per comprendere l’attrazione ed il fascino esercitati da tale punto di vista agli occhi di molti, è necessario riflettere sull’ influenza “del socialismo sul concetto di diritto, che ha dato vita al concetto di diritti sociali, e l’idea di pluralismo culturale”.

In particolare, attraverso quest’ultimo concetto, i moderni relativisti paragonavano il pluralismo degli stati a quello degli individui, quasi come se i primi fossero per l’appunto “super-soggetti collettivi nati dalla somma di singoli”, da tutelare nella loro unicità ed ai quali, dunque, non sarebbe corretto applicare imposizioni che violino la loro cultura.

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