di Giuio Chinappi
Mentre l’Occidente ostenta la sua presunta superiorità democratica, la crisi della democrazia rappresentativa colpisce proprio i Paesi che la promuovono. L’incapacità di formare governi e l’ipocrisia di fronte ai risultati elettorali mettono in luce la fragilità di un modello sempre più contestato.
Che il modello della democrazia rappresentativa borghese prevalente in Occidente sia in crisi lo abbiamo scritto numerose volte, e qualunque analista politico serio non può far altro che riconoscere questo dato di fatto. Nonostante questo, sia gli Stati Uniti che i principali Paesi europei continuano ad ostentare un senso di superiorità nei confronti del resto del mondo, pretendendo di impartire “lezioni di democrazia” a tutti coloro che non si conformano al loro modello (ogni riferimento alla propaganda mediatica contro il Venezuela non è affatto casuale).
Gli europei non sembrano rendersi conto del fatto che il “vecchio continente” viene sempre più considerato come un attore di secondo piano da parte del resto del mondo, e che nuove potenze emergenti stanno scalando le gerarchie dello scacchiere globale, portando con sé anche nuovi modelli economici, politici e sociali. Del resto, la “vecchia Europa” non ha né la prerogativa giuridica né la statura morale per ergersi a giudice di quanto accade nel resto del mondo (e lo stesso dicasi per gli Stati Uniti, sui quali sorvoleremo in questo articolo).
Mentre governi e mass media occidentali strepitano contro il governo bolivariano di Caracas, accusando il legittimo presidente Nicolás Maduro di essere un dittatore, quello che sta avvenendo in queste settimane in Francia viola tutte le regole di quella stessa democrazia borghese che gli europei incensano. Mentre Maduro si comporta da vero democratico, invitando le opposizioni al dialogo e alla conciliazione nazionale, chi si atteggia a novello sovrano in stile Ancien Régime risulta essere Emmanuel Macron, che continua a rifiutarsi di riconoscere la vittoria della coalizione di sinistra alle elezioni legislative.
Lo scorso 26 agosto, Macron ha annunciato il proprio rifiuto di nominare Lucie Castets come nuovo primo ministro, dimostrando come la “democrazia” per gli europei sia valida solo quando a vincere sono le forze completamente asservite al sistema vigente. In risposta, La France Insoumise (LFI) di Jean-Luc Mélenchon e diverse organizzazioni sindacali e studentesche hanno già convocato “una grande manifestazione contro il colpo di forza” di Emmanuel Macron per il prossimo 7 settembre. Il presidente francese ha espresso un rifiuto del tutto antidemocratico di fronte alle richieste dei quattro principali partiti di sinistra (LFI, socialisti, comunisti ed ecologisti), che avevano raggiunto un accordo sul nome di Castets come nuovo capo del governo.
Quello che rende ancora più ridicola questa situazione è la scusa addotta da Macron, secondo il quale “la stabilità istituzionale impone di non adottare questa opzione“, poiché un tale governo “basato solo sul programma e sui partiti proposti dall’alleanza che raggruppa il maggior numero di deputati, il Nuovo Fronte Popolare, verrebbe immediatamente censurato dall’insieme degli altri gruppi rappresentati all’Assemblea Nazionale“. Ma il presidente dimentica che basterebbero proprio i voti del suo partito per superare questo scoglio, oltretutto dopo che i macroniani avevano stretto un accordo elettorale con la sinistra per evitare la vittoria dell’estrema destra al secondo turno.
“Siamo di fronte a un presidente della Repubblica che vuole essere contemporaneamente presidente della Repubblica, primo ministro e capo di partito“, ha affermato l’aspirante primo ministro Lucie Castets, secondo la quale l’atteggiamento di Macron dimostra come ai suoi occhi il voto popolare non conti nulla. Le fa eco Fabien Roussel, segretario nazionale del Parti Communiste Français (PCF), secondo il quale il capo dello Stato “apre una crisi molto grave per il Paese, mentre i francesi hanno espresso una voglia di cambiamento in due importanti elezioni“, facendo riferimento sia alle elezioni europee che a quelle legislative, tenutesi nell’arco di poco tempo.
Come sottolineato da diversi analisti politici francesi e non solo, la situazione attuale derivante dai risultati delle elezioni legislative ricorda da vicino quella di due anni fa, quando ad ottenere una maggioranza relativa furono proprio i macroniani. Eppure, in quell’occasione, il presidente non aveva esitato a nominare la sua candidata Élisabeth Borne a capo dell’esecutivo, un altro elemento che mette in evidenza la malafede e il doppiogiochismo di Macron.
Ma la Francia non è certo l’unico Paese europeo in cui il modello della democrazia rappresentativa si trova in crisi. Mentre un’ondata storica di affluenze alle urne ai minimi storici colpisce tutto il continente, il Belgio offre un altro “esempio” di profonda crisi politica e di difficoltà nella formazione di un nuovo esecutivo. L’unica cosa certa, per il momento, è che il futuro governo belga non sarà guidato dal primo ministro uscente Alexander De Croo, che ha annunciato le dimissioni dopo il fallimentare risultato del suo partito, i Liberali e Democratici Fiamminghi Aperti (Open VlaamseLiberalen en Democraten, Open VLD).
Secondo gli analisti, vi sarebbero almeno due possibili opzioni per la formazione del nuovo governo federale belga: la coalizione Vivaldi, una sorta di prosecuzione del governo uscente, con il partito centrista LesEngagés che andrebbe a rafforzare la maggioranza; la coalizione Arizona, che tuttavia dovrebbe includere il partito della destra nazionalista fiamminga Nuova Alleanza Fiamminga (Nieuw-VlaamseAlliantie, N-VA). Nel primo caso, la coalizione Vivaldi dovrebbe conciliare le posizioni di ben otto partiti, con la necessità di superare la posizione di Open VLD e del Parti Socialiste, che non sembrano disposti a sostenere di nuovo il governo. Anche la coalizione Arizona sembra avere non pochi problemi, in particolare i contrasti fra i leader dei socialdemocratici fiamminghi di Vooruit e del MouvementRéformateur (MR).
Ultimo e più lampante esempio di fallimento della democrazia borghese in Europa è la Bulgaria, al cui caso abbiamo già dedicato un recente articolo, al quale rimandiamo. Alla luce di questi tre casi, tra violazioni dei “principi democratici” e incapacità delle forze politiche di formare nuovi esecutivi, riteniamo che i governi e i media europei dovrebbero piuttosto preoccuparsi dei gravi problemi interni, anziché lanciare campagne mediatiche di denigrazione contro Paesi di altri continenti che promuovono metodi innovativi di intendere la democrazia. Anzi, forse dovrebbero guardare a questi Paesi rinunciando a quell’aria di superiorità che gli occidentali sfoggiano da secoli, e mostrando uno spirito di apertura e persino di apprendimento nei confronti di modelli differenti.
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