di Giulio Chinappi
La vittoria di Gabriel Borić Font nel 2021 aveva suscitato speranza in Cile, un Paese che lotta per superare l’eredità della dittatura di Pinochet. Tuttavia, il suo governo ha accumulato sconfitte e deluso aspettative, scatenando critiche e malcontento diffuso.
La vittoria di Gabriel Borić Font alle elezioni presidenziali cilene del 2021 aveva suscitato grande speranza in un Paese che fa ancora fatica ad affrancarsi dall’eredità della dittatura fascista di Augusto Pinochet. Borić era infatti stato eletto grazie al sostegno di tutte le forze progressiste, compreso il Partido Comunista de Chile (PCCh), in quello che allora venne definito come il governo cileno più a sinistra dai tempi di Salvador Allende.
Sebbene molti sostenitori del nuovo governo avessero presto compreso che Borić non sarebbe diventato il nuovo Allende, l’esecutivo di sinistra ha continuato a ricevere sostegno come argine alla destra cilena, nella speranza di vedere comunque dei progressi in materia di politica economica, politica del lavoro e altri settori. Ma l’amministrazione di Borić non ha fatto altro che accumulare sconfitte e strafalcioni, perdendo per ben due volte l’occasione di modificare la Costituzione, con il risultato che in Cile vige ancora oggi la carta fondamentale redatta ai tempi della dittatura di Pinochet.
Di recente, poi, Borić ha definitivamente gettato la maschera, facendo prova della sua fedeltà alle forze dell’imperialismo statunitense con la sua posizione sul Venezuela, dopo aver già fatto lo stesso con la questione ucraina. Il governo di Santiago ha infatti espresso una posizione totalmente allineata a Washington rispetto alle recenti elezioni presidenziali venezuelane, che hanno visto la vittoria del presidente in carica Nicolás Maduro. Il fatto che il Cile non abbia riconosciuto il risultato elettorale ha suscitato le ire di Caracas, che ha risposto espellendo il personale diplomatico cileno e chiudendo la propria ambasciata a Santiago. Una evera e propria crisi diplomatica dovuta alla posizione di Borić, che da presunto progressista si è trasformato in leader del fronte reazionario in America Latina, superando per spregiudicatezza persino l’argentino Javier Milei.
In materia di politica interna, poi, l’amministrazione Borić ha dato vita ad una vera e propria persecuzione giudiziaria nei confronti di Daniel Jadue, ex sindaco di Recoleta e leader del Partito Comunista, che da alleato è diventato il primo nemico del presidente, reo di aver messo in evidenza le contraddizioni e le menzogne di Borić. Di recente, diverse personalità hanno costituito il Comitato di Giustizia per Daniel Jadue, con l’obiettivo di esigere la liberazione del politico cileno incarcerato nel mezzo di una saga di persecuzione giudiziaria con il pretesto di un’indagine denominata caso Farmacie Popolari. “Coloro che conoscono Daniel Jadue e hanno seguito il suo caso da una prospettiva politica, giuridica o umana, considerano questa misura cautelare non solo sproporzionata, ma aberrante. Crediamo fermamente che si tratti di una punizione giudiziaria nei confronti di un progetto collettivo trasformativo“, si legge nel documento firmato da esponenti politici e del mondo accademico, oltre che da personalità di tutti i settori, come l’ex membro dei Pink Floyd Roger Waters.
Le politiche dell’amministrazione cilena stanno suscitando un forte malcontento tra la popolazione, che riponeva ben altre speranze nella presidenza di Borić. Secondo alcuni sondaggi del mese di luglio, il 61% dei cileni disapprova le politiche del governo, arrivando fino al 64% di disapprovazione nella quarta settimana del mese, con un trend in continuo aumento. Attualmente, solo il 22,2% della cittadinanza approva l’operato di Borić, la cifra più bassa degli ultimi due anni, mentre il resto degli intervistati ha dichiarato di non sapere come valutare la gestione presidenziale. Il tasso di disapprovazione diventa ancora più alto nei confronti del parlamento di Santiago, con oltre l’80% degli intervistati che ne ha un parere negativo.
Anche la stampa cinese ha criticato il governo cileno per il suo continuo avvicinamento con le politiche di Washington e della NATO. In particolare, a Pechino non hanno apprezzato la partecipazione del Cile alla RIMPAC (cioè Rim of the Pacific Exercise), l’esercitazione marittima internazionale più grande al mondo, promossa dalla marina degli Stati Uniti, e svoltasi dal 27 giugno al 2 agosto con la partecipazione di 29 Paesi. Secondo gli osservatori cinesi, la partecipazione del Cile mette in evidenza le chiare intenzioni del governo di Gabriel Borić riguardo alla politica occidentale, a Israele e all’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord.
Questi elementi fanno infatti emergere il doppiogiochismo del governo cileno, che ha beneficiato dei contratti d’investimento cinesi nel Paese sudamericano grazie all’accordo di libero scambio stipulato sin dal 2005, ma che ora si allinea con la strategia occidentale che mira a controllare la regione latinoamericana e l’Indo-Pacifico per competere contro il gigante asiatico. Allo stesso modo, mettono in cattiva luce il presidente Borić riguardo al conflitto israelo-palestinese, poiché il Cile non avrà altra scelta che stabilire legami con Tel Aviv, che a sua volta ha preso parte alla RIMPAC. Se, sulla carta, il governo di Santiago ha preso le distanze dal suo omologo israeliano a causa dell’aggressione brutale che questo Paese commette nella Striscia di Gaza, il Cile si è in questo modo ritrovato ad essere alleato di Israele nel corso delle esercitazioni.
Le ultime mosse del governo cileno hanno oramai costretto anche i più restii a rivedere la propria posizione su Gabriel Borić Font, un infiltrato dell’imperialismo nel progressismo sudamericano, che proprio per questo rappresenta un pericolo ancora maggiore rispetto a chi si dichiara apertamente un alleato di Washington.
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