Relazione di Irina Socolova al simposio “Bratislava – la capitale della pace”

5 Luglio 2024
6 mins read

Il 20 e 21 giugno si è svolto a Bratislava il Simposio internazionale “Bratislava – Città della Pace”. Tra i partecipanti figuravano rappresentanti della comunità scientifica, delle élite culturali e politiche della Russia e di numerosi paesi europei.
L’evento è stato organizzato dall’Istituto nazionale per la ricerca e lo sviluppo delle comunicazioni (Russia) e dal Club Vienna – Centro paneuropeo per l’analisi e le previsioni politiche ed economiche (Slovacchia) sotto gli auspici del vicepresidente del parlamento slovacco Lubos Blaga. 

Tra gli oratori presenti Irina Socolova, nata in Ucraina da padre russo, dopo la prima parte della sua vita trascorsa in Moldova, si trasferisce in Italia nel 2009 diventando subito un’attivista politico. Ricopre incarichi con la lega di Salvini, contribuendo alle buone relazioni tra L’Italia e la Russia, oltre ad aver ricoperto il prestigioso ruolo di Segretario generale della camera di commercio italiana in Moldova.
 
Di seguito la sua relazione al Simposio:

Signore e signori! 

Le relazioni tra Russia e Stati Uniti sono certamente difficoltose sin dal termine della seconda guerra mondiale.

 Ma dovremmo essere più precisi e più giusti, affermando che, in realtà, fu dopo il discorso di Fulton pronunciato da Winston Churchill che il mondo si trovò palesemente davanti a relazioni estremamente complesse. Le relazioni vennero sempre complicate da una certa pregiudiziale inglese, più che americana, verso i si potrebbe dire che gli americani la ereditarono di riflesso.

Ora dobbiamo capire che gli anglofoni non sono un popolo univoco. Quello che Churchill sperava per l’english speaking world, cioè una comunanza di intenti, un Commonwealth internazionale di tutti i popoli che avessero come comune denominatore la lingua inglese, per un’unità di intenti politici e strategici; nella realtà non esiste. 

Gli Stati Uniti sono sempre stati molto altalenanti nei rapporti con la Russia. Ci sono stati presidenti che hanno mostrato i muscoli come Truman, Eisenhower, i Bush, in misura però più moderata verso i russi, ed anche Obama e Biden. E presidenti che hanno ricercato una distensione come Kennedy, Nixon, Reagan, Trump. 

La vocazione isolazionista degli Stati Uniti non è l’unica motivazione per la quale una parte della politica estera americana ha sempre auspicato un rapporto disteso e non portato agli eccessi con la Russia.

È ora necessario capire che, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, il mondo sembrava correre verso una conduzione unilaterale del potere che incoronava Washington come unico grande gestore dei conflitti mondiali. 

Prima ho detto che i Bush hanno mostrato i muscoli. Sicuramente. Sia il padre che il figlio furono presidenti interventisti, soprattutto in politica estera. Però cercavano di mantenere un confine. E quel confine era verso gli ex confini dell’Unione sovietica. Volevano mantenere la silente e non scritta promessa di George Bush senior di non allargare la sfera di influenza americana dentro i confini di influenza dell’ex Patto di Varsavia. 

Una sorta di silenzioso, consuetudinario accordo per mostrare buone intenzioni, e non provocare eccessivamente l’orso 

russo che si sperava restasse in letargo ed avviato ad un periodo di collaborazione. 

Non ho nominato prima Clinton. Clinton non fu soltanto un interventista, fu il padrino della peggiore politica americana nei riguardi del mondo. La sua azione militare in Kosovo entrò direttamente in quello spazio vitale che è la culla dei popoli slavi. E la Russia ha storicamente il ruolo di grande protettrice dei popoli slavi. Un ruolo che fu degli zar, ma che venne ereditato sempre nella storia dell’attuale federazione Russa. 

Clinton ignorò il desiderio di Boris Yeltsin di una soluzione non militare e mandò le truppe nei Balcani. 

Fu il primo avvicinamento entro confini considerati da tutti invalicabili. 

Da lì ci furono sempre meno remore ad avvicinarsi ai confini dell’ex gigante sovietico. 

Ma questo fu interrotto provvisoriamente dalla presidenza di Bush, che pure estremamente aggressiva in Medio Oriente, non aveva mai osato cercare di colpire direttamente gli interessi strategici di Mosca.

Ciò aveva addirittura portato a parlare di un possibile ingresso della Federazione Russa in una Nato allargata. 

Le presidenze di Obama, dove la politica estera era in buona parte condotta dal segretario di stato, ex first lady degli Stati Uniti, Hilary Clinton, cominciò a varare una politica come non mai aggressiva tramite le cosiddette primavere arabe, verso tutto il Medio Oriente. Destabilizzò tutto il mondo, e ricercò un ruolo di assoluta egemonia statunitense, che inquadrava l’America quale presunta protettrice dei valori di libertà e democrazia in tutto il mondo. 

Nessun’altra potenza era vista come egemone nel mondo.

Tanto da portare addirittura Obama a parlare della Russia come di una potenza regionale.

Joe Biden è il continuatore della politica più estrema dei Clinton. Una politica ormai scellerata alla luce della situazione odierna. 

Gli stessi BRICS dimostrano ormai come non sia più possibile un mondo unilaterale. Questi paesi non sono necessariamente amici della Russia, ma preferisco supportarla nel rafforzamento di un mondo multipolare poiché quest’ultimo aumenta notevolmente il loro potere contrattuale ed il loro peso sullo scenario internazionale. 

Attualmente inoltre Biden sembra non recepire un importante lezione di strategia politica internazionale di un suo illustrissimo predecessore. Richard Nixon, ebbe la grande lungimiranza come politico di affidarsi ad Henry Kissinger per una distensione permanente con la Cina. Kissinger, uomo di cultura immensa e brillante diplomatico, aveva capito che l’allineamento di Russia e Cina rappresentava un problema per gli Stati Uniti. Infatti la guerra fredda ha sconvolto le relazioni internazionali perché questa, era una naturale conseguenza della presenza degli arsenali nucleari. La bomba atomica impedisce di considerare la guerra totale come uno strumento efficace di risoluzione delle questioni internazionali. 

La guerra di logoramento è stato il principale mezzo con cui si è potuta combattere la guerra fredda. Una guerra che cercava di sfibrare l’avversario aprendo scenari che comportavano un ingente impiego di risorse.

In questa guerra erano rimasti impelagati gli americani il loro Vietnam. Successivamente toccò ai sovietici con l’Afghanistan. 

Ma un blocco unico tra Russia e Cina rappresentava un numero di persone, una quantità incredibile di risorse, un numero grandissimo di rotte, di approdi e di possibilità in favore del mondo comunista. La visita del presidente Nixon a Pechino e la stretta di mano a Mao Tse Tung, portò ad una distensione permanente ed ad un allontanamento della Cina con la Russia. Questo permise in buona sostanza agli americani di poter vincere la guerra fredda indebolendo lo spazio commerciale dei sovietici e minando le prospettive della loro economia. 

Attualmente il mondo moderno, vive in una situazione capovolta. L’aggressività di Joe Biden nei riguardi della Russia, non è stata bilanciata da una politica di appeasement

con la Cina. 

Anzi paradossalmente Biden ha colto ogni occasione per ribadire il ruolo strategico che l’influenza americana dovrebbe avere impegnando ingenti risorse militari sia in Europa che nel Pacifico.

Un errore strategico come pochi, considerando che l’Europa non è più armata da molto tempo, in maniera adeguata da poter supportare l’impegno americano e nel frattempo gli Stati Uniti non sono in grado di sostenere da soli lo sforzo che servirebbe a contenere sia l’orso rosso che il dragone cinese. Il motivo è molto semplice:

Biden fa due errori gravissimi. Il primo è quello di sottovalutare la determinazione dei propri avversari mentre il secondo è quello di sopravvalutare la capacità di resistenza e la volontà di impegnarsi del popolo americano. I primi, cioè gli avversari, non hanno alcuna intenzione di essere relegati a potenze regionali e in questo sono appoggiati da tutti quegli stati emergenti tra cui l’India ed il Brasile che vogliono assumere maggior peso nelle relazioni internazionali.

Il popolo americano è da sempre molto poco incline ad avventure belliche che possono trascinarsi troppo a lungo e prive di un obiettivo concreto.

Spese militari troppo alte per aiuti a paesi terzi, la cui efficacia sul campo continua a vessare i contribuenti, e pochi successi sul campo, non sono gli ingredienti migliori e più apprezzati per vincere le elezioni americane. 

Presto Biden si dovrà presentare con un paese spaccato al voto. Non possiamo dimenticare che lo stesso congresso americano si è rifiutato per mesi di varare gli aiuti economici all’Ucraina che il presidente chiedeva. Dunque la divisione non è soltanto a livello solo dell’opinione pubblica, ma anche della stessa classe dirigente.

Oggi può succedere che le elezioni presidenziali, diano ragione a Trump, non solo perché la gente è preoccupata da questa guerra, ma anche perché buona parte della classe dirigente è preoccupata da questa guerra. O sarebbe meglio dire che buona parte della classe dirigente è scettica sulla continuazione della guerra ad oltranza sui due fronti. 

Il fronte del Pacifico ed il fronte Occidentale. La Germania fu sgretolata dalla guerra su due fronti. 

Oggi il fronte del Pacifico è molto più sbilanciato in favore di Cina e Russia unite. 

Inoltre si stanno aprendo altri importanti scenari.

La retorica anticolonialista che ha intriso le élite culturali delle università occidentali, ha pervaso l’opinione pubblica di quei paesi del terzo mondo che vogliono tranciare quelli che sono i secolari legami con gli antichi colonizzatori.

Quello che è successo in Niger, è emblematico del nuovo corso che stanno prendendo gli eventi.

Di troppi nuovi fronti che potrebbero aprirsi, ad un’America che non può permettersi, nella necessità di dare priorità al contenimento cinese, di disperdere le proprie energie in tutto il resto al mondo.

Dunque potrebbe avvenire una rinegoziazione, che spinga a rispettare le aree di influenza, creando una distinzione se non permanente, abbastanza stabile tra l’America di Trump e la Russia di Putin. 

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