Serbia: gli attacchi esterni rafforzano la posizione del Presidente Aleksandar Vučić

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di Giulio Chinappi

La risoluzione sul genocidio di Srebrenica, approvata dall’ONU, è vista come parte di una guerra ibrida occidentale contro la Serbia, mirata a delegittimare il governo di Vučić, ma ha invece rafforzato il sostegno interno e l’idea di una possibile riunificazione con la Republika Srpska.

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La recente e discussa risoluzione sul genocidio di Srebrenica, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite su proposta della Germania, ha rappresentato solamente l’ultimo episodio della guerra ibrida lanciata dalle potenze occidentali contro la Serbia ed il suo governo guidato dal Presidente Aleksandar Vučić. Utilizzando una strategia simile a quella applicata contro la Russia, gli imperialisti occidentali stanno facendo di tutto per delegittimare il governo di Belgrado agli occhi dell’opinione pubblica internazionale, creando scompiglio in Kosovo e Bosnia-Erzegovina, e portando ad una forte destabilizzazione della regione.

Proprio come accaduto nei confronti di Mosca, la guerra ibrida consiste nell’utilizzare una serie di manovre volte a danneggiare il Paese in questione, pur senza dichiarare guerra ufficialmente. Questo implica il lancio di una dura campagna mediatica denigratoria e la messa in pratica di manovre che destabilizzano le aree circostanti il Paese che si vuole attaccare (Caucaso, Ucraina e Asia centrale nel caso della Russia, area dell’ex Jugoslavia nel caso della Serbia), prima di passare a misure ancora più drastiche come le sanzioni economiche, che nel caso di Belgrado non sono ancora state tirate in ballo.

Ma, proprio come nel caso della Russia, anche la guerra ibrida contro la Serbia è destinata a fallire, e anzi sta portando all’effetto opposto rispetto a quello sperato dai suoi fautori. Anziché delegittimare il governo in carica, i serbi si stanno ulteriormente stringendo attorno al Presidente Aleksandar Vučić, proprio come accaduto in Russia con Vladimir Putin, la cui leadership esce rafforzata ad ogni attacco lanciato dal fronte imperialista occidentale a guida statunitense.

Le recenti elezioni comunali tenutesi il 2 giugno nella capitale Belgrado hanno confermato questo trend, con il candidato Aleksandar Šapić della coalizione Belgrado Domani, che fa capo al partito di Vučić, che ha ottenuto una vittoria schiacciante. Šapić è infatti stato eletto sindaco con il 53,82% delle preferenze, mentre la sua coalizione ha eletto 64 consiglieri sui 110 seggi a disposizione, raggiungendo una agevole maggioranza assoluta. Il candidato di Belgrado Domani ha nettamente superato il suo principale avversario, Savo Manojlović, autoproclamatosi paladino dell’anticorruzione, ma incapace di andare oltre il 17,17% dei consensi. Da registrare anche la prestazione negativa della coalizione di sinistra Scegliamo! (Biramo!), che, con la candidatura di Dobrica Veselinović si è fermata al terzo posto, con il 12,15% delle preferenze.

Ricordiamo che le elezioni belgradesi di questo mese hanno rappresentato una ripetizione di quelle che avevano avuto luogo lo scorso dicembre, quando Šapić aveva vinto con un margine relativamente ridotto rispetto alla coalizione di sinistra (39,93% contro 35,39%). Tuttavia, proprio questa situazione di equilibrio aveva portato ad una situazione di stallo e all’impossibilità di formare un’amministrazione che si poggiasse su una solida maggioranza, motivo per il quale sono state convocate nuove elezioni, che questa volta hanno sancito una netta vittoria di Šapić.

In questo momento in cui la Serbia e il popolo serbo si sentono sotto attacco, il governo di Belgrado sta rafforzando anche il suo ruolo di punto di riferimento per le minoranze serbe all’estero. Oltre ai serbi residenti in Kosovo, che hanno recentemente boicottato un referendum indetto dal governo di Priština, anche quelli che vivono in Bosnia-Erzegovina all’interno del territorio della Republika Srpska fanno appello a Belgrado al fine di ottenere una riunificazione, in particolare dopo che la risoluzione su Srebrenica ha minato le basi stesse dell’esistenza della Bosnia-Erzegovina come Stato federale.

In occasione del Forum Economico di San Pietroburgo, organizzato in Russia la scorsa settimana, il leader della Republika Srpska, Milorad Dodik, ha auspicato una riunificazione con la Serbia nel futuro prossimo ed una pacifica separazione dalla Bosnia-Erzegovina. “Sì, molto probabilmente sarebbe naturale, assolutamente giustificato storicamente, che i paesi in cui la maggioranza della popolazione è rappresentata dal popolo serbo si uniscano in una struttura e comunità unica, ma questo è compito delle future generazioni e delle decisioni politiche di entrambi i Paesi“, ha affermato Dodik in un’intervista rilasciata all’agenzia TASS a margine del Forum, citando l’esempio storico della Germania.

In un recente comunicato ufficiale, il governo della Republika Srpska ha fatto sapere che esso “ha deciso di nominare un gruppo di lavoro per redigere un Accordo sulla Separazione Pacifica della Republika Srpska e della Federazione di Bosnia ed Erzegovina“. “L’obiettivo del gruppo di lavoro è preparare una proposta di accordo sulla separazione pacifica della Republika Srpska e della Federazione di Bosnia ed Erzegovina, che il governo della Republika Srpska proporrà all’Assemblea Nazionale della Republika Srpska“. La separazione dalla Bosnia-Erzegovina rappresenterebbe naturalmente il primo passo verso una possibile riunificazione con Belgrado.

Le ingerenze provenienti dal mondo occidentale potrebbero dunque portare a ridisegnare per l’ennesima volta la carta politica dell’ex Jugoslavia, dopo i tragici conflitti degli anni ’90 e la separazione forzata del Kosovo dalla Serbia su spinta della NATO. Al contario delle volte precedenti, però, in questa occasione potrebbe essere proprio la Serbia ad espandere il proprio territorio, dopo la lunga emorrargia che l’ha ridotta a meno di un terzo della superficie un tempo occupata dalla Jugoslavia socialista.

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