Adagiato su un vasto ma arido Altopiano, tra le vette dell’Himalaya e le sconfinate pianure dell’Asia Centrale, il Tibet ha sempre suscitato l’interesse di viaggiatori, pellegrini, mercanti, esploratori ed alpinisti; culla di una cultura antica e poliforme, che rimarrebbe incomprensibile senza un’accurata conoscenza della successione di religioni e culti che la hanno contraddistinta.
In questo volume Kalsang Gyal fornisce al lettore una precisa e minuziosa ‘ricognizione’ della storia religiosa tibetana, a partire dal primitivo e ancestrale culto sciamanico del “Bon”, fino alla fioritura del buddismo introdotto dall’India, ibridato e fertilizzato dalle credenze locali, con la conseguente nascita di numerose scuole e sette ( a volte persino drammaticamente conflittuali) che hanno costituito il sistema feudale teocratico lamaista attivo sino alla ricongiunzione con la Cina negli anni ‘50.
Non mancano appendici sulle più piccole comunità cristiane (nate dall’opera missionaria, in specie tra XIX e XX secolo) e musulmane, queste ultime derivanti dai contatti con la regione dello Xinjiang e con i Paesi più a Ovest nelle storiche “Vie” della Seta e dei Cavalli.
KalSang Gyal è docente presso l’Istituto delle Religioni Mondiali, nonché Vicedirettore del Centro per gli Studi Buddisti all’Accademia Cinese delle Scienze Sociali, é anche supervisore dottorale presso l’Università della medesima Accademia.
Prefazione Di Maria Morigi al Libro LE RELIGIONI TIBETANE di KalSang Gyal
“Tibet, dalla teocrazia lamaista allo Stato moderno”
Il buddismo della “Terra innevata al Tetto del Mondo” affascina i cultori delle pratiche Yoga ed entusiasma il turismo culturale, ma non è affatto di facile lettura se appena si scava il significato di immagini e rituali suggestivi. Tra gli occidentali, se ne sono occupati sia grandi studiosi di civiltà materiale, sia esploratori di misticismo e inconscio.
Inoltre la complessità della questione tibetana implica un approccio a diversi livelli con problematiche che investono più campi, da quello storico, socio-antropologico e politico, a quello strettamente tradizionale-religioso relativo alla sopravvivenza di pratiche magico-sciamaniche e ai mezzi per raggiungere l’illuminazione. Il buddismo tibetano non si risolve infatti con la conoscenza delle varie sette religiose, ma è talmente complesso da richiedere il possesso -da parte del ricercatore- di competenze specifiche, oltre che una padronanza linguistica sulla tradizione epico-mitologica e i modelli indiani da cui è influenzato.
Questo libro di KalSang Gyal (professore presso l’Institute of World Religions, vicedirettore del Center for Buddhist Studies, professore e supervisore di dottorato presso l’Università della Chinese Academy of Social Sciences CASS) ha il pregio di offrire – con una documentazione attendibile – un quadro sulla diffusione e sviluppo del buddismo tibetano a partire dalla Religione Bön attraverso le fasi che vedono affermarsi una quantità di importanti scuole e lignaggi, spesso in concorrenza di prestigio. Impresa non semplice, avendo al momento disponibili classificazioni accademiche di Mantra e Sutra contenuti nel Codice Tibetano e opere relative a temi specifici (ad esempio l’incarnazione Tulku, oppure il concetto di Yidam “Mente Sacra” o “Essere spirituale”, oggetto di meditazione nel buddismo Vajrayāna, oppure la pratica del Chodnei “Funerali celesti”) .
E’ carente infatti il panorama complessivo socio-culturale in cui inserire tanta “complicata” spiritualità: un quadro decisamente al di fuori della portata di un pubblico interessato ma non esperto. Ad esempio bisogna avere informazioni su stregoneria e sciamanesimo per mettere a fuoco che Bön significa “recitare formule sacre” poiché il potere dei suoi seguaci deriva dalla recita dei mantra, cioè suoni capaci di influenzare zone di energia, attraverso le cui vibrazioni i praticanti entravano in contatto con le energie invisibili e le forze occulte, riuscendo a controllarle. La sola classificazione degli insegnamenti Bön ha “Dodici Scienze” e include rituali, ognuno legato ad un aspetto di protezione, purificazione, cura, divinazione.
Tuttavia si deve constatare che, in Occidente, l’interesse per il suggestivo buddhismo tantrico Vajrayana e l’ammirazione per un Tibet “mitologico” e fuori dalla Storia, alla ricerca del Regno di Śambhala (o della Perfezione spirituale), ha avuto la prevalenza sull’ osservazione della società tibetana nelle sue trasformazioni da teocrazia feudale a Stato moderno. Quasi a non voler ammettere che la Repubblica Popolare, praticando garanzie costituzionali di tutela religiosa ed etnica, si è spesa per la protezione di culti tradizionali popolari, oracoli e sette religiose.
Infatti il quadro storico-politico non sempre è analizzato dagli appassionati del buddismo tibetano con cognizione di causa, anzi diciamo pure che è sottovalutato, poiché si tende a dimenticare che il 28 marzo 1959 il Tibet veniva ufficialmente liberato dalla schiavitù della gleba cui soggiaceva circa un milione di abitanti, e che il 1° settembre 1965 al Tibet era riconosciuta l’Autonomia.
Le informazioni sulla varietà del buddismo tibetano messe a disposizione da questo libro sono quindi utili al visitatore odierno per non farsi strumentalizzare dalla propaganda anticinese, mettendo a fuoco che in Tibet furono inscindibili le funzioni di potere religioso e potere politico rappresentati storicamente dalle varie Scuole o sette religiose e, come dice l’autore “Per un lungo periodo storico il Tibet ha abbracciato il sistema unificato di amministrazione e religione, e i monaci di alto livello partecipavano direttamente alla gestione politica, economica e culturale del Tibet, confunzioni che andavano ben oltre a quelle religiose. Nel 1959 fu lanciata la riforma democratica in Tibet e il popolo tibetano fu liberato in un modo senza precedenti in termini di ideologia, cultura, produzione e vita.Attualmente, il buddismo tibetano è in una fase di sano sviluppo, mostrando maturità e stabilità in tutti gli aspetti, come l’organizzazione del monastero, i precetti e le attività religiose. Le ultime statistiche indicano che ci sono 2771 monasteri del buddismo tibetano in Tibet, Qinghai, Sichuan, Gansu e Yunnan, territori abitati principalmente dal popolo tibetano.” (Capitolo 2 E Monasteri).
Il viaggiatore senza pregiudizi d’altronde sa che il territorio tibetano è parte della Cina da quando governavano Mongoli e Manciù, ricongiunto alla Cina dopo secoli di teocrazia e feudalesimo, in cui l’unica autorità era rappresentata dai potenti lignaggi lamaisti. Prima della caduta dell’Impero (1911) i monasteri possedevano le terre e praticavano la servitù della gleba, erano esenti dal controllo dell’autorità imperiale Qing e anzi godettero di favori da parte della Cina nazionalista. Prima degli anni Cinquanta, il Tibet era dunque una teocrazia la cui sopravvivenza autonoma – non indipendente! – era concessa a titolo di vassallaggio da governi centrali deboli (ultimo Impero e Kuomintang-KMT). Non esistevano scuole, la popolazione era soggetta alle regole di monasteri che detenevano ogni proprietà fondiaria (agricola e di allevamento), la giustizia era amministrata da poteri locali facenti capo ad un Monastero e/o ad un lignaggio lamaista.
“Occupato” nel 1950 dall’Esercito di Liberazione, il Tibet vide fallire i tentativi di accordo tra Dalai Lama e Repubblica Popolare; non ci furono azioni di “resistenza”, poiché la massa dei contadini vessati e analfabeti non avrebbe potuto dar vita ad alcun contrasto, che è da attribuirsi invece al clero aiutato e finanziato dagli Stati interessati a destabilizzare la nascente Cina popolare. Oggi sappiamo che la fuga del Dalai Lama fu orchestrata da elementi reazionari ben finanziati da potenze straniere; che le informazioni propinate alla pubblica opinione su ciò che seguì la fuga del Dalai Lama -rivolte, attentati, esuli, auto-immolazioni – furono il frutto di un pesante condizionamento ideologico; e che solo grazie alla strategia “Go West” della RPC, con la politica di apertura iniziata nel ’79, il Tibet ha conosciuto sostegno delle minoranze etniche e uno sviluppo socio-economico paragonabile a quello di altre Regioni Autonome come lo Xinjiang.
Se nel 1959 non esisteva neppure una strada nel vero senso della parola, ora la regione possiede 50mila km di strade (di cui 4800 km asfaltati), tutti i poveri ottengono l’assistenza sociale, il piano degli alloggi offre case nuove a coloro che si trovano in difficili condizioni economiche. Il contadino della comune agricola, cui è stato restituito l’uso della terra, ma anche il cittadino impiegato nei servizi, o il commerciante musulmano non possono che essere grati al nuovo corso ed apprezzare le garanzie offerte dalla Stato cinese che consente loro di praticare la propria fede nella pace sociale.
É evidente lo sforzo compiuto dal Governo centrale per garantire il passaggio da povertà-nomadismo a sviluppo-stanzialità, interventi infrastrutturali, mobilità e servizi di trasporto, ammodernamento abitativo e condizioni di lavoro tutelate. Anche le questioni ecologiche sono oggetto di numerosi interventi (energie rinnovabili, riforestazione, riserve naturali), il numero degli istituti scolastici (dove il bilinguismo è garantito e sostenuto da programmi adattati alle esigenze locali) ha superato il migliaio e le Università sono quattro. Tutto ciò è stato reso possibile da una macchina organizzativa ben collaudata, da una pianificazione che si avvale delle informazioni e dei contributi che provengono dalle Assemblee popolari locali a 4 livelli che garantiscono piena partecipazione alle minoranze etniche (Legge Organica del 1979 e più recenti modifiche del 1995). La gente tibetana semplice e molto religiosa apprezza tutto ciò che prima, sotto l’amministrazione dei Lama, non c’era. Ed essere passati dalla schiavitù ad una libertà che chiede senso di responsabilità comune, non è cosa trascurabile.
Oggi, nonostante i controlli di sicurezza di esercito e polizia siano argomenti che turbano la sensibilità dei pacifisti dei Diritti Umani, il visitatore vede a Lhasa ampi viali alberati, quartieri abitativi raggiunti da servizi essenziali, scuole, ospedali, uffici governativi, posti di polizia, regolazione del traffico stradale. La città vecchia di Lhasa ed il mercato intorno al quadrilatero del Monastero-Tempio Jokhang è meta dei pellegrini di ogni etnia tibetana che giungono anche da Yunnan, Sichuan, Gansu e Qinghai. Un pacifico spettacolo multiculturale in cui la presenza di forze dell’ordine è addirittura meno evidente che nelle nostre città obiettivo di possibili attentati.
Un altro dei temi su cui insiste la propaganda dei Diritti Umani è quello della distruzione vandalica di monasteri e arredi sacri. Tuttavia questo libro onestamente informa della distruzione o saccheggio di alcuni monasteri durante il decennio della Rivoluzione culturale e altrettanto chiaramente informa di quando e come sono stati ricostruiti e tutelati i tesori di arredi e sutra. Per esperienza personale in zone quasi inaccessibili ho registrato lavori di ri-costruzione e progetti verificabili, mobili e arredi immagazzinati con ordine durante i lavori, repositori di sutra catalogati e studiati a livello scientifico presso centri e organizzazioni accademiche come il China Tibetology Research Center (CTRC), progetto di preservazione della cultura religiosa del Tibet con sede a Pechino. Tanto che si può apprezzare che tale patrimonio, ormai incamerato dallo Stato, produca turismo e riesca a finanziare opere pubbliche.
Quanto alla preservazione della cultura etnica tibetana, ora nelle scuole si tengono corsi di musica, danza, artigianato, calligrafia, e arti tradizionali, e lo Stato spende capitali enormi nel restauro dei monumenti. Il turismo sta diventando un settore pilastro dell’economia regionale, ma vengono imposte delle restrizioni per tutelare il fragile ambiente ecologico locale: per esempio il Potala ammette solo 2400 visitatori al giorno, i turisti pagano il biglietto, mentre i pellegrini locali pagano un simbolico yuan. Il progetto dell’autostrada per il campo base dell’Everest è stato cancellato e del personale apposito raccoglie i rifiuti lasciati da visitatori e scalatori. Il governo tibetano sta lavorando a un progetto per bandire i mezzi di trasporto non ecologici dal campo base della montagna più alta del mondo, da tempo al centro di polemiche sull’inquinamento e affollamento.
Quanto alla libertà religiosa, da decenni ormai i monasteri riconosciuti, monaci e monache e i fedeli buddisti possono pienamente svolgere le loro attività religiose ufficiali e private. Il libro di KalSang Gyal sottolinea che oggi i monasteri non sono considerati delle strutture speciali, ma delle organizzazioni sociali che operano nel rispetto di leggi statali e politica etnica del governo centrale, basate sulla prevalenza dell’armonia etnica. In tal senso sono puntuali e illuminanti i due capitoli finali del libro che spiegano la nascita, lo sviluppo e l’integrazione in Tibet di cristianesimo (cattolico e protestante) e islam, praticati da un’esigua minoranza, pur sempre tutelata dallo Stato.
* Maria Morigi è laureata in Archeologia e Storia dell’Arte greco-romana presso l’Università degli Studi di Trieste e studiosa di Storia delle Religioni orientali. Ha visitato più volte la Cina e le Regioni autonome del Tibet e dello Xinjiang. Per Anteo Edizioni ha pubblicato: Il Patrimonio dell’Umanità. Geopolitica, civilizzazioni, ricerca archeologica in Asia centrale e Afghanistan (2016), La Perla del Drago, Stato e Religione in Cina (2018), Xinjiang, Nuova Frontiera tra antiche e nuove Vie della Seta (2019), Afghanistan, Storia, geopolitica, patrimonio (2021- edizione aggiornata 2023), Islam, Talebani, Stato Islamico. Realtà tra Afghanistan e Pakistan (2022). Per Edizioni l’AD ha pubblicato: Islam in Cina. Storie, etnie, tradizioni. Questione dei Diritti Umani(2023).
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