Storicamente, il sostegno dei paesi del Golfo alla causa palestinese è stato motivato dall’affinità culturale e religiosa: un Paese su tutti, l’Arabia Saudita, ha sempre difeso le rivendicazioni palestinesi[1], soprattutto dopo la sfida posta dall’occupazione israeliana di Gerusalemme. Ulteriore testimonianza di tale supporto alla causa palestinese la si trova nelle prerogative che erano state poste per lavorare verso una possibile normalizzazione delle relazioni tra Riyadh e Israele: la condizione chiave è che venissero indicate garanzie chiare per il popolo arabo della Palestina.
Nonostante le posizioni generalmente pro-Palestina adottate dai Paesi del Golfo, la sempre più rapida mutevolezza del sistema internazionale – da cui anche il quadrante mediorientale non è certo escluso – ha portato gli attori regionali a riconsiderare il proprio atteggiamento verso Tel Aviv: si è, infatti, assistito ad una crescente tendenza ad una normalizzazione dei rapporti con Israele, una necessità concepita e declinata soprattutto in chiave anti-iraniana.
L’ostruzionismo del Golfo alla politica iraniana sarebbe dettato da diverse motivazioni[2]. In primis, l’Iran e gli stati del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, competono per l’influenza e una posizione di potere nell’area: le diverse visioni per il Medio Oriente s’intrecciano, allora, con la volontà di affermazione della propria leadership regionale sugli altri attori che operano nell’area.
Inoltre, alla dimensione afferente alle ambizioni di potere da parte degli Stati del Golfo, bisogna affiancare quella della lotta di matrice religiosa[3]: la divisione settaria tra gli Stati della penisola arabica, sunniti, tra i quali spicca dall’Arabia Saudita, e l’Iran, sciita, ha contribuito alle numerose tensioni sfociate talvolta in nelle guerre per procura, in cui ciascuna parte, pur non partecipando direttamente ai conflitti scatenati, ha, però, sostenuto le diverse fazioni in guerra sulla base dei propri interessi e calcoli geopolitici. Gli esempi includono i conflitti in Yemen, Siria e Iraq.
Ad infiammare ulteriormente i paesi dell’area vi sono le problematiche che ruotano attorno al programma nucleare iraniano[4], fonte di preoccupazione per il Golfo oltre che – o soprattutto – per gli Stati Uniti: il timore che l’Iran acquisisca armi nucleari ha portato ad additare Teheran, in seno comunità internazionale, come minaccia alla stabilità regionale.
Infine, la concorrenza economica per le risorse e i vantaggi strategici, compreso il controllo sui principali passaggi commerciali marittimi come lo Stretto di Hormuz, ha contribuito a rendere tese le relazioni fra questi attori.
Alla luce dell’azione politica iraniana, le riconsiderazioni circa il sostegno palestinese possono essere lette come fini calcoli strategici in politica estera: il Golfo ha compreso che sono scarsi i pay-off derivanti dall’appoggio al popolo e alla causa palestinese, anche alla luce della posizione israeliana ancora fortemente sostenuta dal suo più grande alleato internazionale, Washington.
D’altro canto, l’opposizione al regime di Teheran ha fatto sì che l’Iran sfruttasse il vuoto lasciato dalle monarchie nella regione per diventare il più grande sostenitore di Hamas e di Hezbollah – che dal vicino Libano contribuisce alla lotta condotta dal movimento jihadista.
Il lavoro d’avvicinamento statunitense fra i paesi dell’area e Tel Aviv ha raggiunto il proprio apice con gli Accordi di Abramo[5] – siglati nel 2020 tra Israele, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti e che hanno costituito un grande strumento di riabilitazione e normalizzazione dello stato israeliano nella regione in quanto, nelle intenzioni, rappresentante di una nuova opportunità politica, economica e militare.
Dinnanzi a queste alleanze incardinate sul mero calcolo utilitaristico, l’abbandono del governo palestinese della presidenza di turno all’interno della Lega Araba[6] è ascrivibile al senso di sconforto dato proprio dalla constatazione che all’interno del mondo arabo era posta innanzi a tutto la predilezione di interessi particolari piuttosto che un’azione politica forte che avesse come obiettivo ultimo la concretizzazione di uno Stato palestinese.
A ciò va aggiunto anche il comportamento adottato dal paese più importante della regione, quell’Arabia Saudita che ha continuato attivamente a collaborare con lo stato sionista – portando così avanti le mutue preoccupazioni sulle azioni iraniane prima sul nucleare e poi sui gruppi terroristici affiliati e sostenuti dalla Repubblica Islamica.
Quindi, dal 2021 il Medio Oriente è diviso in un grande gioco che s’è svolto seguendo due schemi paralleli.
Da un lato, i processi di normalizzazione delle relazioni diplomatiche con lo stato ebraico, il cui apice sarebbe stato raggiunto con la normalizzazione informale (processo adesso congelato) tra Arabia Saudita ed Israele: a Riyadh si ritiene che qualsiasi successo ottenuto per i palestinesi potrebbe aiutare la leadership saudita a far vedere di buon occhio l’accordo di normalizzazione ai critici interni al Paese, nonché porsi con altre credenziali nei confronti dei grandi attori internazionali[7].
Dall’altro, la distensione tra Arabia Saudita e Iran[8] ha conciso con la ripresa delle relazioni diplomatiche tra i sauditi e altri Paesi arabi della regione come la Siria, nonché l’apertura di un canale di dialogo diretto tra i sauditi e gli Houthi in Yemen, sostenuti militarmente dall’Iran[9]. L’apertura diplomatica degli Houthi apparirebbe a prima vista improbabile, ma bisogna inquadrarlo alla luce dei recenti interessi ed avvenimenti che legano i due attori: essendo il conflitto in Yemen una delle guerre più lunghe e logoranti dello scacchiere Mediorientale, entrambe le parti riconoscono la necessità di una soluzione negoziata per porre fine alle ostilità e affrontare la crisi umanitaria nel paese. Inoltre, sia i ribelli Houthi che l’Arabia Saudita hanno interesse nella stabilità regionale e l’impegno nei colloqui diplomatici potrebbe promuovere un ambiente più pacifico in cui operare.
Il cortocircuito fra questi due schemi è avvenuto con l’attacco di Hamas del 07 ottobre – che secondo alcuni osservatori, sembra abbia rimescolato le carte del Medio Oriente per come si stava delineando, un disegno dal quale i palestinesi sembravano rimanere ai margini[10].
Analizzando la prospettiva saudita, attualmente il paese attraversa una fase in politica estera alquanto delicata: poco prima del 07 ottobre, il ministro del Turismo israeliano è stato in visita nel Paese[11] e contestualmente, un emissario saudita si era recato nei territori palestinesi[12]. Attraverso questo primordiale tentativo di apertura mediato dall’abile corpo diplomatico cinese, Riyadh ha rilevato il grande pragmatismo dell’attuale linea di politica estera saudita, in cui quest’ultima diventa strumento funzionale alle aspirazioni interne: il conflitto, infatti, danneggia le ambizioni di Riyadh che ha come obiettivo la diversificazione economica, lo sviluppo d’infrastrutture, la modernizzazione della società saudita oltre ad una volontà di farsi faro nello sviluppo regionale ed attore di riferimento.
Dunque, questi obiettivi sottolineano come l’Arabia Saudita, in quanto attore chiave in Medio Oriente, cerchi di mantenere la stabilità regionale e di affermarsi come leader negli affari arabi e islamici[13].
Infatti, il processo intavolato verso la normalizzazione con lo Stato di Israele era finalizzato alla rinegoziazione della partnership speciale con gli Stati Uniti, spinta soprattutto da una serie di garanzie di sicurezza e cooperazione per il nucleare a scopi civili[14].
Inoltre, c’è la necessità di creare un ambiente internazionale stabile per l’ambizioso programma saudita Vision 2030[15] , progetto strategico che può essere messo in discussione a causa di questa crisi ormai ricorrente dal momento che il pieno successo della sua attuazione concreta, al fine di conseguire gli obiettivi di ristrutturazione socioeconomica – basati su infrastrutture, eventi internazionali e turismo, non può fare a meno di stabilità regionale.
Un’altra ragione per la quale questa guerra mette in difficoltà le aspirazioni regionali dell’Arabia Saudita è il rapporto con l’Iran: nonostante la ripresa delle relazioni fra i due paesi[16] suggellata con la mediazione di Pechino, i nodi da sciogliere rimangono soprattutto quelli legati al finanziamento e all’appoggio di movimenti armati non riconducibili allo Stato sostenuti ed armati da Teheran.
Sostenendo gruppi operanti al di fuori delle cornici governative, l’Iran cerca di proiettare la propria volontà di potenza e controbilanciare l’azione dei suoi rivali regionali[17]. A ciò si aggiunge che il sostegno iraniano a questo tipo di attori costituisce una forma di strategic depth[18], profondità strategica, poiché avendo alleati nei paesi vicini, l’Iran può esercitare, così, un’influenza oltre i suoi confini attraverso le guerre per procura, volte alla promozione dei propri interessi senza uno scontro diretto.
Un’analisi coerente non deve, però, sottovalutare il fatto che il sostegno dell’Iran a tali gruppi può essere visto come una risposta a ciò che percepisce come un’ingerenza e minaccia degli Stati Uniti nella regione. Ne consegue che, sostenendo i gruppi che operano contro gli interessi americani e dei loro alleati, l’Iran mira a controbilanciare l’influenza a stelle e strisce in Medio Oriente.
I movimenti che godono del supporto iraniano sono quelli che condividono con Teheran la matrice dell’islam sciita o che si allineano con i principi che hanno influenzato la formazione della Repubblica Islamica a partire dalla rivoluzionaria: per questo motivo, possiamo indicare come alleati naturali dell’Iran le milizie sciite in Iraq, Hezbollah in Libano, agli Houthi nello Yemen fino ad Hamas in Palestina.
Infine, l’estremismo ed il terrorismo di matrice islamica si rivelano come dei temi che preoccupano Riyadh: il ruolo giocato da Hamas potrebbe risvegliare questi fenomeni, alimentando uno spillover di cellule terroristiche nell’area.
Questi possibili scenari potrebbero diventare di difficile gestione per il regno, soprattutto alla luce delle volontà espresse dal principe ereditario saudita Mohammed bin Salman sulla possibilità di rivitalizzare l’islam moderato e di depotenziare la connotazione religiosa dell’identità saudita – spingendo i giovani a stringersi intorno alla famiglia reale[19]. Di fatti, l’influenza wahhabita ha plasmato le pratiche culturali in Arabia Saudita, contribuendo e spingendo ad adottare norme maggiormente conservatrici rispetto al resto del mondo arabo[20]. Mohammed bin Salman ha colto, così, la necessità di allentare pratiche così stringenti al fine di rafforzare il proprio ruolo di attore regionale sia nei confronti dei paesi dell’area.
Dunque, l’attacco di Hamas ha congelato un possibile accordo mediato dagli Stati Uniti tra Israele e l’Arabia Saudita[21], mentre la guerra lascia Mohammed bin Salman in una posizione complessa che si scontra con le pressioni in patria e all’estero, con i player internazionali che chiedono all’Arabia Saudita di assumere un ruolo di primo piano in una gestione della striscia di Gaza post-Hamas, una lingua di territorio da ricostruire e con i gruppi regionali e nazionali che esortano Riyadh a sostenere attivamente i palestinesi.
Essendo il wahhabismo uno dei pilastri della società civile saudita, molti studiosi e religiosi islamici che aderiscono a queste interpretazioni dell’Islam, hanno più volte sottolineato l’importanza di sostenere la Palestina, adoperando anche piattaforme religiose per esprimere solidarietà e assistenza umanitaria per il popolo palestinese.
All’operato delle figure del wahhabismo, si affiancano le ONG attive nel Paese che si concentrano sulla fornitura di aiuti, iniziative di raccolte fondi e progetti umanitari al fine di garantire la difesa dei diritti dei palestinesi.
In aggiunta, bisogna considerare la copertura mediatica saudita circa la questione palestinese: alcuni commentatori in Arabia Saudita utilizzano le loro piattaforme per evidenziare questioni relative alla Palestina, offrendo analisi e commenti sugli eventi nella regione. Dunque, i social diventano espressione di supporto alla vessazione palestinese, di cui i giovani sauditi si fanno casse di risonanza offrendo sostegno alla Palestina e partecipando alle campagne di sensibilizzazione.
Nonostante ciò, il governo dell’Arabia Saudita non ha né la capacità né il desiderio di essere parte attiva in una Gaza post-conflitto o di finanziarne direttamente la ricostruzione. Inoltre, Riyadh non ha nemmeno voluto tagliare la produzione di petrolio o le esportazioni per esercitare pressioni su Israele e sugli Stati Uniti[22].
Anche se per ora un accordo israelo-saudita sembra essere quantomeno in una fase di stand-by, Riyadh ha tutti gli interessi a stabilizzare i rapporti regionali: gli obiettivi economici sauditi possono concretizzarsi solo in uno scacchiere mediorientale stabile e con forti legami con gli Stati Uniti[23] e le altre potenze che agiscono in questo caldo quadrante del globo.
Tuttavia, Mohammed bin Salman ha più volte espresso sdegno per ciò che sta accadendo a Gaza, definendo la “guerra una catastrofe umanitaria che dimostra il fallimento della comunità internazionale e dell’Onu nel porre fine alle gravi violazioni delle leggi umanitarie internazionali da parte di Israele”[24].
Gli Emirati Arabi Uniti hanno fatto da apripista agli accordi di Abramo[25] ed il 13 ottobre il ministro del commercio emiratino ha sottolineato come il paese non mischiasse il commercio con la politica[26], evidenziando un realismo di una politica estera tutto orientato alla riduzione delle tensioni regionali (orientamento già palesato con l’intervento militare nella coalizione sotto la guida saudita in Yemen, nonché con l’appoggio a Khalifa Haftar in Libia[27]).
Questa guerra, però, mette sotto pressione anche gli Emirati, poiché gli accordi di Abramo hanno avuto per quest’ultimi un bilancio economico positivo, rivelando tutti vantaggi della cooperazione con Israele[28],l’esempio principale è rappresentato dall’adesione al I2U2, un gruppo che riunisce India, Israele, Emirati Arabi Uniti e Stati Uniti. La prima dichiarazione congiunta del gruppo, rilasciata il 14 luglio 2022, afferma che i Paesi intendono cooperare su “investimenti congiunti e nuove iniziative nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti, dello spazio, della salute e della sicurezza alimentare“[29] , in una sorta di riedizione asiatico-occidentale del Quad, la piattaforma di dialogo strategico sulla sicurezza che vede partecipare Australia, India, Giappone e Stati Uniti che si mantiene attraverso colloqui tra i Paesi membri.
Riprova del fruttuoso interscambio fra i partners sono gli esiti positivi che ha conseguito Israele: la possibilità di delineare con gli Emirati joint ventures nel settore agricolo e digitale[30] – con attenzione all’Africa orientale (Uganda, Kenya), ma anche occidentale (Senegal, Costa d’Avorio, Ghana).
C’è un altro aspetto che dà il senso della rilevanza degli accordi di Abramo per gli Emirati Arabi Uniti: l’industria della difesa, in cui Emirati ed Israele hanno avviato cooperazioni importanti – fra cui lo sviluppo congiunto di sistemi d’intercettazione dei droni[31] e navi senza pilota con finalità commerciali e militari[32].
Il valore della collaborazione si vede nelle oltre sessanta imprese israeliane che sono state ospiti a IDEX[33], importante fiera dell’industria della difesa che si tiene ad Abu Dhabi. Ne consegue che, l’affinità d’interessi nel campo della difesa si riflette nel fatto che sia Israele che gli Emirati hanno percepito il rischio derivante da un assetto regionale instabile e propenso a sfociare in una crisi oltre alle conseguenze di una non improbabile escalation con Teheran e ai timori per la sicurezza nazionale dati dalle minacce di matrice terroristica.
Da non sottovalutare, infine, è il vantaggio competitivo di cui gli Emirati hanno beneficiato con la sottoscrizione degli accordi di Abramo[34] che risiede nel primato su Riyadh nel campo energetico e negli investimenti con paesi terzi: gli Emirati Arabi Uniti, attraverso la diversificazione economica, si sono allontanati la dalla dipendenza dal petrolio[35] e Dubai è presto diventata un polo commerciale e finanziario globale, attirando investimenti in vari settori, tra cui turismo, immobiliare e tecnologia. Questa operazione ha contribuito a delineare non solo l’attrattiva degli Emirati Arabi Uniti per gli investitori stranieri, ma, addirittura, a preferirla a Riyadh: gli investimenti emiratini hanno creato un ambiente favorevole alle imprese, in cui le moderne infrastrutture della città, le zone franche ed il progetto Dubai Smart City ne sono una testimonianza.
Inoltre, gli Emirati Arabi Uniti hanno investito nelle energie rinnovabili[36], compresa l’energia solare e nucleare: il parco solare Mohammed bin Rashid Al Maktoum ha attirato l’attenzione e l’interesse internazionale degli investitori nel settore dell’energia pulita e rendendo il regno emiratino anche un partner attento alle problematiche del domani.
Altro, invece, grande protagonista dell’azione diplomatica nell’intricato quadro fra Hamas ed Israele è il Qatar, che fin da subito s’è distinto fra le monarchie del Golfo per la decisa presa di posizione con la diffusione di durissimo comunicato di accusa verso il governo israeliano,
“il solo responsabile dell’escalation a causa delle sue continue violazioni dei diritti del popolo palestinese, comprese le recenti incursioni nella Moschea di Al-Aqsa sotto la protezione della polizia israeliana”[37].
Il Qatar ha un legame forte e solido con Gaza, testimoniato fin dal 2014[38], anno in cui è diventato uno dei principali finanziatori degli aiuti umanitari ed economici destinati alla Striscia. Consolidando nel tempo il rapporto con Hamas, il governo qatarino ha accolto in patria gran parte della dirigenza del movimento, fra cui il leader Ismail Haniyeh: l’ospitalità verso l’organizzazione non solo ha alimentato voci secondo cui il Qatar appoggiasse l’islam politico radicale, ma ha sottoposto il regno ad un duro embargo politico ed economico[39].
Nonostante le tali prese di posizione, l’azione politica qatarina rimane, di fatto, ambigua: il Qatar ha ribadito con fermezza il supporto ai diritti della popolazione palestinese pur continuanto ad avenre rapporti commerciali con Israele[40]
Da ciò si evince che, Doha non rientrerebbe nello schema di Abramo poiché seppur legata a Washington – ospitando una delle basi americane più rilevanti della regione[41], e commerciando con Israele, le frizioni con gli altri attori regionali stanno spingendo il Qatar verso un “terzo blocco” con la Turchia[42].
Il famoso terzo blocco turco-qatarino è stato caratterizzato da legami diplomatici, partenariati economici e convergenze su questioni regionali e internazionali[43]: negli ultimi anni, è cresciuta la collaborazione economica tra Qatar e Turchia, con investimenti ed accordi commerciali, in cui le aziende turche sono state coinvolte in progetti infrastrutturali in Qatar e i legami economici si sono ampliati in settori quali l’edilizia, la finanza e la tecnologia.
Inoltre, il Qatar e la Turchia sono impegnati nella cooperazione militare, attraverso esercitazioni militari congiunte e accordi di difesa. Questa intesa nel campo della difesa deve essere letta alla luce degli obiettivi regionali dei due paesi: entrambi hanno criticato il blocco imposto al Qatar da alcuni dei paesi vicini del Golfo e hanno coordinato le loro posizioni in risposta alle sfide regionali. Infatti, anche i due attori hanno mostrato sostegno ad alcuni movimenti islamici nella regione, a causa del terreno comune nell’approccio all’Islam politico – culminato col sostegno ai gruppi affiliati ai Fratelli Musulmani in vari paesi, fra cui lo stesso Hamas.
Quest’ultimo aspetto testimonia come il Qatar e la Turchia abbiano allineato le loro posizioni su questioni regionali chiave, compresi i conflitti in Siria, Libia e Palestina, coordinando gli sforzi diplomatici e sostenendo soluzioni politiche alle crisi regionali.
Dal punto di vista diplomatico, il Qatar ha saputo ritagliarsi un ruolo non indifferente sullo scenario: grazie alla scaltrezza dimostrata dall’intrattenere sia relazioni con i governi israeliani che con la leadership politica di Hamas, è considerato come mediatore d’eccellenza fra i due belligeranti.
All’attore qatarino, si aggiunge Il Cairo: congiuntamente, infatti, hanno mediato non solo per il rilascio degli ostaggi israeliani ed i palestinesi imprigionati nelle carceri d’Israele, ma soprattutto hanno ottenuto il risultato della tregua umanitaria – perdurata fino al 1 dicembre. Inoltre, dati i successi conseguiti dai due attori, c’è terreno fertile per pensare che la mediazione di Qatar ed Egitto possa gettare le basi per una co-sponsorizzare l’iniziativa di pace araba: sebbene originariamente promossa dal principe ereditario saudita Abdallah Ben Abdel Aziz Al Saud ma senza successo, l’azione egiziana-qatarina potrebbe segnare una svolta nell’attuale conflitto israelo-palestinese e nella gestione delle crisi future e mettere in atto quel che era stato tentato vanamente in passato.
Questa possibile – ma estremamente complessa nella sua attuazione – iniziativa di pace potrebbe sottolineare come ancora una volta il Qatar si dimostri come abile negoziatore e mediatore nello scenario mediorientale, veste di cui il sistema internazionale potrebbe tornare ad aver bisogno in futuro: anche la vicinanza ad Hamas, rivela come Doha voglia porsi come attore privilegiato nel dialogo intraregionale[44] tra lo schieramento sunnita a guida americana e l’Iran, con la galassia di attori locali da esso sostenuti.
L’azione diplomatica qatarina ha potenzialmente l’obiettivo di tagliare fuori l’Arabia Saudita ed il suo altalenante supporto alla causa palestinese[45]. Infine, la mediazione del Qatar è stata sollecitata anche dagli Stati Uniti ed Unione Europea – memori del peso che il Qatar ha giocato negli accordi di Doha e nel ritiro statunitense in Afghanistan[46]
Infine, i fatti del 07 ottobre hanno acceso anche il Mar Rosso: gli Houthi[47] hanno lanciato missili e droni verso Israele, nonché condotto attacchi marittimi destabilizzando il potere di Tel Aviv. La strategia condotta dal gruppo filoiraniano persegue due linee conduttrici: da un lato, il gruppo cerca di fomentare il sentimento pro-Palestina degli yemeniti – dunque, accaparrandosi il sostegno popolare fomentando la narrazione che vede Israele come una forza occupante; dall’altro, questi attacchi sono orientati al proprio rafforzamento come attori non statali, sfidando così l’influenza saudita nella regione e fare appello ai sentimenti antioccidentali col il supporto iraniano.
Si evince che, per gli Houthi il conflitto a Gaza è solo una finestra di opportunità[48] per elevare la minaccia dallo Yemen, consolidando il consenso pubblico interno e regionale – esemplificato dalla roboante potenza mediatica di azioni come il sequestro della Galaxy Leader[49].
In questo quadro fatto di interessi strategici, i grandi assenti restano, comunque, i palestinesi che subiscono violenza indiscriminata da uno Stato che applica una politica colonialista, non curante delle norme di diritto internazionale. Dalla prospettiva qui analizzata, emerge che la causa palestinese risulta sempre meno conveniente al fine di concretizzare gli obiettivi interni e regionali del Golfo, ma che allo stesso tempo venga strumentalizzata dai potenti dell’area per accaparrarsi il consenso e galvanizzare le proprie opinioni pubbliche interne.
NOTE AL TESTO
[1] https://www.reuters.com/article/uk-israel-gulf-usa-saudi-idUKKBN2663A1/
[2] https://www.bakerinstitute.org/research/gulf-states-iran-misunderstandings
[3] https://www.bbc.com/news/world-middle-east-42008809
[4] https://crsreports.congress.gov/product/pdf/IF/IF12106
[5] https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/Accordi_Abramo_opportunita_e_criticita.html
[6] https://www.ilpost.it/2020/09/23/palestina-rinuncia-presidenza-lega-araba/
[7] https://formiche.net/2023/10/normalizzazione-arabia-saudita-israele/
[8] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/iran-laccordo-con-larabia-saudita-da-respiro-allamministrazione-raisi-123961#:~:text=Il%2010%20marzo%2C%20infatti%2C%20Iran,Arabia%20Saudita%20di%20un%20importante
[9] https://www.brookings.edu/articles/who-are-the-houthis-and-why-are-we-at-war-with-them/
[10] Eleonora Ardemagni, analista esperta di Golfo per ISPI, podcast “Globally”.
[11] https://www.aljazeera.com/news/2023/9/26/israeli-minister-arrives-in-saudi-arabia-in-first-ever-public-visit
[12] https://www.aljazeera.com/news/2023/9/26/first-saudi-ambassador-to-palestine-welcomed-by-palestinian-authority
[13] Vision 2030: il progetto saudita per il futuro, https://lospiegone.com/2017/04/25/una-nuova-visione-saudita/
[14] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/medio-oriente-perche-la-guerra-sfida-gli-obiettivi-di-riyadh-147134
[15] Il processo di diversificazione economica dell’Arabia Saudita, vedi https://www.vision2030.gov.sa
[16] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/iran-laccordo-con-larabia-saudita-da-respiro-allamministrazione-raisi-123961
[17] https://www.ispionline.it/en/publication/irans-role-and-ambitions-in-the-hamas-israel-conflict-147332
[18] https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1111/mepo.12554
[19] https://www.bbc.com/news/world-middle-east-41747476
[20] https://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/saudi-arabia-adjusts-its-history-diminishing-role-wahhabism
[21] https://www.ilmessaggero.it/mondo/israele_arabia_saudita_accordo_congelato_ultima_ora-7690890.html?refresh_ce
[22] What the War in Gaza Means for Saudi Arabia, Israeli-Saudi Normalization Is on Hold—but Not off the Table, F. Gregory Gause III, Foreign Affairs https://www.foreignaffairs.com/middle-east/what-war-gaza-israel-means-saudi-arabia?check_logged_in=1&utm_medium=promo_email&utm_source=lo_flows&utm_campaign=registered_user_welcome&utm_term=email_1&utm_content=20231220
[23] Dal punto di vista economico l’Arabia Saudita e gli Stati Uniti contano grandi scambi commerciali, investimenti e partenariati commerciali. Gli USA beneficiano dell’export di beni e servizi in Arabia Saudita, mentre gli investimenti sauditi negli Stati Uniti contribuiscono allo sviluppo economico e alla creazione di posti di lavoro.
[24] https://tg24.sky.it/mondo/2023/11/11/guerra-israele-gaza-lega-araba
[25] https://www.uae-embassy.org/abraham-accords-sustainable-inclusive-growth
[26] https://www.reuters.com/world/middle-east/uae-after-israel-gaza-conflict-says-it-does-not-mix-trade-with-politics-2023-10-10/
[27] https://researchcentre.trtworld.com/wp-content/uploads/2021/09/UAE_Libya.pdf
[28] https://neaman.org.il/EN/Files/Report_The%20Economic%20Impact%20of%20the%20Abraham%20Accords%20After%20One%20Year_20211207114825.577.pdf
[29] https://formiche.net/2023/05/indo-abramitico-asse-italia-via-della-seta/
[30] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/accordi-di-abramo-battuta-di-arresto-147602
[31] https://www.timesofisrael.com/iai-and-uae-based-edge-join-forces-to-develop-anti-drone-tech/
[32] https://edgegroup.ae/news/edge-announces-strategic-deal-israel-aerospace-industries-develop-advanced-unmanned-surface
[34] https://www.aljazeera.com/news/2023/9/17/three-years-on-how-have-the-abraham-accords-done-for-the-uae
[35] https://www.dubai.com/blog/uae-economy-period-remarkable-growth-and-diversification/#:~:text=finance%2C%20and%20technology.-,Diversification%20Efforts,more%20balanced%20and%20resilient%20economy.
[36] https://www.uae-embassy.org/discover-uae/climate-and-energy/uae-energy-diversification#:~:text=The%20UAE%20Energy%20Strategy%202050,12%20percent%20clean%20coal
[37] https://www.aa.com.tr/en/middle-east/qatar-holds-israel-responsible-for-escalation-in-gaza/3010716
[38] https://www.france24.com/en/20141012-gaza-aid-talks-cairo-usa-kerry
[39] https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/Ragioni_fine_embargo_contro_Qatar.html
[40] https://www.globalvillagespace.com/qatar-stays-quiet-about-abraham-accord-in-talks-with-palestinian-authorities/
[41] https://militarybases.com/overseas/qatar/
[42] https://www.aljazeera.com/news/2017/11/14/how-turkey-stood-by-qatar-amid-the-gulf-crisis
[43] https://www.aljazeera.com/economy/2018/8/16/turkey-and-qatar-behind-the-strategic-alliance
[44]https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/Segnali_apertura_messaggi_decifrare.html
[45]https://www.treccani.it/magazine/atlante/geopolitica/Il_conflitto_Israele_Hamas_paesi_Golfo.html
[46] https://www.ankasam.org/the-search-for-a-solution-to-the-afghan-problem-and-the-role-of-qatar/?lang=en
[47] Gli Houthi sono un movimento yemenita chiamato ufficialmente Ansar Allah. Si tratta di un’organizzazione politica e militare di fede sciita ma di confessione zaidita Emerso dal governatorato di Sa’ana durante gli anni ’90, il movimento Houthi – che ha preso il nome dalla famiglia che lo guida – svolge un ruolo centrale nella guerra in corso in Yemen, che li vede contrapposti a una coalizione internazionale guidata dall’Arabia Saudita, storico rivale regionale dell’Iran e paese che ospita i luoghi sacri dell’islam (La Mecca e Medina). Pur mantenendo una ampia autonomia operativa, il movimento Houthi ha stretto negli anni rapporti molto intensi con l’Iran, soprattutto in ottica anti-saudita. Guerra Hamas-Israele: cosa c’entra l’Iran, ISPI https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/guerra-hamas-israele-a-gaza-cosa-centra-liran-152272
[48] https://www.affarinternazionali.it/gli-houthi-e-il-rompicapo-degli-stati-uniti-nel-mar-rosso/
[49] https://www.bbc.com/news/world-middle-east-67632940
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