di Andrea Turi
“Ripetete una bugia cento, mille, un milione di volte e diventerà una verità”. Questa frase, comunemente attribuita a Joseph Goebbels, Ministro della Propaganda del Terzo Reich (ma su questa attribuzione torneremo più avanti), è diventata una delle leggi fondanti del marketing non solo strettamente pubblicitario, ma anche politico; sebbene non sia da prendere a dogma infallibile, la scienza psicologica ha dimostrato che la sua formulazione non è così errata se rapportata al quotidiano.
Anche Aldous Huxley nel suo libro “Brave New World” faceva sua questa pratica quando scriveva che “gli studenti annuirono, approvando energicamente una dichiarazione che oltre sessantaduemila ripetizioni nell’oscurità avevano fatto loro accettare, non solamente per vera ma per assiomatica, intuitiva, assolutamente inconfutabile”. Nell’opera distopica dello scrittore britannico, infatti, alcune affermazioni venivano ripetute in modo incessante – soprattutto nel momento del sonno – per introdurre nelle coscienze quelle credenze in modo che rimanessero permanentemente radicate e diventassero, di conseguenza, dogmi indiscutibili per l’individuo.
Non è peregrino, quindi, affermare in una sorta di parallelo che questi tempi contemporanei si rispecchiano in quelli letterari di Huxley; vivendo una realtà caratterizzata da un profondo e acritico sonno intellettuale, da una diffusione sempre maggiore di informazioni errate e tendenziose ed in cui è sempre più difficile discernere il resoconto puntuale dalla propaganda o dalla manipolazione, la verità dei fatti dalla interpretazione dei fatti, diventa, allora, importante conoscere le trappole che il nostro processo mentale ci tende e sulle quali costruiamo la nostra percezione del mondo e i nostri giudizi e pregiudizi. Anche il campo delle relazioni internazionali non fa eccezione ma, anzi, ne è investito poiché la maggior parte delle persone modella in modo ingenuo le proprie convinzioni sul mondo, è influenzata da argomenti deboli, non respinge le informazioni irrilevanti e, spesso, si affida alle semplificazioni per immagini evocative[1].
La ripetizione è uno dei modi utilizzati per influenzare le opinioni e, insieme, spargere il seme di una manipolazione strumentale al fine di fornire una visione del mondo confacente gli interessi di un certo attore internazionale. Chi possiede rudimenti in psicologia sa che esiste quello che si conosce come “effetto illusorio di verità”, il quale si riferisce al fatto che la ripetizione dell’informazione ne accresce la verità soggettiva; in parole semplici, più qualcosa viene ripetuto, più siamo propensi a credere che sia vero. Non c’è alcuna ragione logica per pensare che la ripetizione influisca sulla verità, tuttavia, è noto che gli esseri umani non sempre pensano in modo logico.
L’effetto illusorio di verità è dovuto a una trappola tesaci dal nostro cervello il quale – tendendo ad economizzare le risorse a disposizione – è sostanzialmente pigro. Pertanto, l’effetto di verità indotto dalla ripetizione è in gran parte dovuto alla fluidità dell’elaborazione nella quale, a livello cognitivo, la ripetizione rende le informazioni più facili da elaborare; una facilità che spesso viene scambiata come verità. La ripetizione offre il vantaggio della familiarizzazione, mentre le nuove acquisizioni richiedono un maggiore sforzo cognitivo per essere interpretate; di conseguenza, avremo la tendenza ad abbassare la guardia e ad accettare ciò che viene ripetuto. Siamo di fronte ad una strategia che il nostro cervello mette in campo per ottimizzare tempo e risorse: in pratica, quando qualcosa “risuona” in noi con ripetitività tendiamo ad essere meno critici a riguardo e, al contempo, a dargli più importanza pensando di essere davanti a qualcosa di più credibile rispetto ad altre idee e informazioni che ci sono meno familiari.
Recuperando la frase attribuita a Goebbels con cui abbiamo iniziato questo scritto, si può affermare che una bugia non si trasforma in verità poiché viene ripetuta e reiterata mille volte; questo non basta, ovviamente, perché si rende necessario il fatto che chi ce la propone sia convincente nel farlo. Tale citazione ha già in sé l’essenza di quanto recita: propinata come di sicura attribuzione, non risulta documento che ne attesti la reale formulazione da parte del Ministro della Propaganda del nazionalsocialismo, ma èpiù plausibile che sia piuttosto una semplificazione di un passo inserito dal gerarca in Dié Zeit ohne Beispiel – un suo articolo del 1941 – che in tedesco recita “Die Engländer gehen nach dem Prinzip vor, wenn du lügst, dann lüge gründlich, und vor allem bleibe bei dem, was du gelogen hast! Sie bleiben also bei ihren Schwindeleien, selbst auf die Gefahr hin, sich damit lächerlich zu machen[2]”, passaggio che tradotto in italiano suona così: “gli inglesi seguono il principio secondo cui se menti, menti completamente, e soprattutto resta coerente con la tua menzogna! Così rimangono con le loro bugie, anche a rischio di prendere in giro se stessi”.
L’unione del concetto di effetto illusorio della verità e delle tecniche comunicative elaborate dagli inglesi, oggi, dagli Stati Uniti – in tempi di guerradenunciate da Goebbels – sono alla base della narrazione fornita dagli occidentali riguardo uno dei pilastri della moderna propaganda anti-cinese, la cosiddetta diplomazia della trappola del debito (da qui, trappola del debito), una strategia che si vorrebbe messa in campo da Pechino per fini egemonici, neo-imperialisti e neo-coloniali, la quale prevede l’utilizzo predatorio dell’erogazione di prestiti verso Paesi in via di sviluppo al fine di estorcere dallo Stato debitore – incapace di ripagare Pechino – concessioni e vantaggi sia economici che politici; nel leggere le analisi proposte da analisti, commentatori, giornalisti, politici, esperti si nota come alla Cina vengono cuciti addosso le vesti del “lupo cattivo” che sbrana i poveri Paesi in via di sviluppo che, in quest’ottica, si trovano intrappolati nella tanto vituperata trappola del debito, senza altra via d’uscita praticabili se non ricorrere a politiche di aggiustamento strutturale e cessioni di asset nazionali strategici che, peraltro, corrispondono alla doxa neoliberista prevalente nell’ordine finanziario internazionale a partire dagli anni Ottanta, da quando, cioè, sotto la spinta delle politiche promosse e attuate dal Presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e dal Primo Ministro britannico, Margaret Thatcher, si è assistito ad una vera e propria globalizzazione del neoliberismo,realizzata sostanzialmente attraverso due strumenti – tuttora in auge – quali il debito e, appunto, politiche di aggiustamento strutturale.
Tutto deriva da quel che avvenne dopo il 1973, quando furono piazzati presso i Paesi del Terzo Mondo dell’enorme quantità di petrodollari che – “invitati” da Washington – i Paesi arabi avevano depositato presso le proprie banche, poiché era risultata poco conveniente da investire nelle economie dei paesi industrializzati. Questi Paesi – i quali avevano ricevuto ingenti prestiti dalle sempre generose istituzioni politico-economiche occidentali – non avevano, però, avuto la capacità di farli rendere adeguatamente cosicché a cavallo tra gli anni ’70 e gli anni ’80 la situazione debitoria di molti di loro verso le banche Usa era divenuta drammatica per il rischio di insolvenza altissimo che si presentava all’orizzonte. Ai primi anni ’80, allora, l’Amministrazione Reagan pensò bene di approfittare di questa situazione imponendo – attraverso il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e la Banca mondiale – delle misure di salvataggio in cambio di provvedimenti, riforme e politiche di stampo neoliberista – come tagli alle spese dello Stato sociale, leggi sul lavoro più flessibili, privatizzazioni, deregolamentazioni, cessioni di sovranità.
È qui che nascono le politiche di aggiustamento strutturale, un semplice ma efficace strumento con cui – facendo leva sui debiti e sul ricatto derivante dalle difficoltà di ripagarli da parte di alcuni Paesi, sfruttandone tutte le potenzialità – imporre senza rischio di resistenze popolari le politiche neoliberiste a livello internazionale. L’aggiustamento strutturale – regolarmente imposto dal Fondo Monetario Internazionale e dalle altre grandi istituzioni internazionali ai Paesi in difficoltà – diventerà la politica di riferimento fino a oggi[3], lasciando per lo più intatto il debito ma neoliberalizzando in profondità un gran numero di Paesi sia del Sud che del Nord del mondo – privati così di numerosi asset strategici e, in generale, depauperati delle loro ricchezze – e contribuendo con estrema efficacia alla diffusione planetaria del neoliberismoe alimentando una sorta di nuovo concetto di neocolonialismo.
Tra gli effetti più rilevanti delle politiche di aggiustamento strutturale, infatti, ci sarà un massiccio trasferimento di risorse, di asset strategici e di profitti dal Sud del mondo verso le banche e le imprese del Nord del mondo. In virtù di questo, David Harvey, autore del volume A brief history of neoliberalism nota come la restaurazione del potere dell’élite economica, o dei ceti elevati, negli Stati Uniti e in altri Paesi a capitalismo avanzato si è basata soprattutto sui surplus prelevati dal resto del mondo attraverso i flussi finanziari[4].
Prendendo a prestito una felice intuizione del sito internet China Focus, l’Occidente, dopo aver intrappolato molti Paesi, compreso sé stesso, nei debiti, vuole ora infangare la Cina e la Belt and Road Initiative (BRI) usando la narrativa della trappola del debito[5], un approccio largamente dominante nelle analisi presenti nei media italiani e internazionali relativi al comportamento tenuto da Pechino nei rapporti con i Paesi più in difficoltà.
Oggigiorno, infatti, oltre a quello politico, economico, culturale e militare, il campo di battaglia in cui si combatte tra potenze è quello discorsivo-mediatico; anche la guerra intentata dall’Occidente nei confronti di Pechino non viaggia su binari differenti, poiché la Cina cerca sempre più di “raccontare la sua storia” al mondo e cerca di amplificare il proprio potere discorsivo; diviene, allora, fondamentale esaminare quale sia la Cina, a chi si rivolge e come le sue narrazioni possano influenzare il suo status e il suo comportamento nel sistema internazionale; le narrazioni e le visioni strategiche possono rappresentare dimensioni chiave della competizione tra grandi potenze. Seguendo le intuizioni del filosofo Michel Foucault, il discorso viene visto come potere e la società internazionale come un’arena per la lotta tra discorso e potere. Secondo Miskimmon et al. le “narrazioni strategiche” possono essere definite come un mezzo per gli attori politici di costruire un significato condiviso del passato, del presente e del futuro della politica internazionale per modellare il comportamento degli attori nazionali e internazionali. Ed è così che, sul fronte internazionale, narrazioni come la “teoria della minaccia cinese” o, ultimamente, la “trappola del debito”, l’etichetta di “diplomazia del lupo guerriero” e altre interpretazioni del comportamento della politica estera cinese sono state viste come una minaccia per gli interessi cinesi. Ma se inizialmente la Cina si è preoccupata soprattutto di dissipare questi concetti negativi, negli ultimi anni l’abbandono di una politica estera di basso profilo si è anche manifestata in sforzi più proattivi per la narrativa strategica della Cina; con l’arrivo sulla scena di Xi Jinping, la Cina ha iniziato a proporre una visione dell’ordine mondiale incarnata dai concetti di “comunità del destino condiviso dell’umanità” da cui deriva un nuovo tipo di relazioni internazionali in cui la cooperazione economica win-win è la principale modalità di interazione tra Stati e istituzioni internazionali: “il sistema internazionale auspicato deve essere pluralistico, senza discriminazioni tra Paesi piccoli e grandi, tra regimi autoritari e democratici e tra scelte di sviluppo nazionali. L’universalismo deve essere sostituito dal particolarismo. Al posto delle alleanze rivolte a terzi, questo ordine alternativo deve basarsi su partenariati per obiettivi positivi di sviluppo comune”[6].
L’Occidente ha, dunque, da tempo, individuato nella Cina il suo avversario principale e dichiarato per gli anni a venire e la sua macchina propagandistica si è messa in moto per demonizzare i principi che guidano la proiezione cinese nel mondo e le sue iniziative internazionali con l’intento di far credere all’opinione pubblica che Pechino voglia intrappolare le nazioni – per adesso quelle più piccole – nei debiti per realizzare le sue ambizioni geostrategiche. Ma in realtà, la trappola del debito è proprio ciò che l’Occidente ha fatto ai Paesi in via di sviluppo negli ultimi decenni; come tutte le potenze, la Cina ha certamente degli obiettivi nei suoi legami economici allacciati con le altre nazioni, ma si tratta di aspirazioni economiche e di sviluppo legittime, non basate sulla mentalità a somma zero di cui è intriso il modus operandi occidentale, soprattutto quello di matrice anglosassone. Di questo, ne dona lucida lettura un articolo pubblicato sull’Australian Alert Service – il bollettino diramato dall’Australian Citizen Party – titolato Geopolitical strategists fabricated BRI ‘debt-trap diplomacy’ narrative (in italiano, Gli strateghi della geopolitica hanno inventato la “trappola del debito” della BRI) in cui si legge che dovremmo essere consapevoli del fatto che le accuse di diplomazia della trappola del debito rivolte alla Cina, usate per agitare la guerra, “sono del tutto infondate. Piuttosto, la narrativa della trappola del debito è stata inventata e promossa dagli apparati della sicurezza nazionale e dai sostenitori delle teorie geopolitiche britanniche che definiscono le relazioni internazionali come un gioco a somma zero, in cui il progresso di una nazione può avvenire solo a spese di altre. La loro agenda è quella di distorcere la percezione della visione infrastrutturale cinese, in modo che non sia vista come un contributo positivo allo sviluppo economico globale, [un fattore] che può aiutare a sollevare miliardi di persone dalla povertà – come è stata inizialmente accolta dall’Australia e da molti altri Paesi – ma interamente in termini geopolitici, come motivata esclusivamente dal presunto secondo fine cinese di dominare il mondo”[7].
Non deve, dunque, stupire se il concetto di trappola del debitosia diventato particolarmente popolare nel corso dell’ultimo decennio per muovere critiche all’approccio cinese alla cooperazione per lo sviluppo applicato, soprattutto, con quel novero di Paesi conosciuto oggi con l’espressione di Sud del Mondo; decennio, quest’ultimo, i cui eventi si sovrappongono allo sviluppo della Belt and Road Initiative e alle politiche intraprese all’interno della sua cornice progettuale che prevede il finanziamento e la realizzazione di opere infrastrutturali di respiro globale con l’obiettivo di collegare Pechino con i mercati esteri, creare stabilità, innalzare il livello medio di ricchezza dei Paesi aderenti, favorire la connettività, lo sviluppo della cooperazione internazionale e promuovere il ruolo di una rinata Cina sullo scenario globale; alla luce di quanto detto, va da sé che dalle parti di Washington analisti, strateghi geopolitici e teorici delle relazioni internazionali vedono nell’ascesa cinese una minaccia alla propria posizione di egemone globale e percepiscono e, di conseguenza, descrivono la Belt and Road Initiative come una strategia messa in campo da Pechino per soppiantare gli Stati Uniti nel ruolo di guida di un mondo unipolare che sta venendo meno.
Come ben delineato dal professor Zhang Weiwei (direttore del China Institute della Fudan University e autore di diversi importanti libri sulla Cina, tra cui The China Wave: Rise of a Civilizational State) al webinar Building a multipolar world – Ten years of the Belt and Road Initiative, la BRI è costruita sui concetti socialisti di discutere insieme, costruire e trarre beneficio insieme; la Cina è uscita dall’ordine mondiale periferico-centrale ed è diventata il primo grande Paese socialista che ha spezzato in modo significativo il giogo della dipendenza dall’Occidente mentre “Sul piano interno, Pechino ha completamente sradicato la povertà estrema, ha ottenuto l’assicurazione medica per tutti, la pensione per tutti, e ora ha un tasso di alfabetizzazione superiore a quello degli Stati Uniti e un’aspettativa di vita più alta di quella degli Stati Uniti (2 anni in più, 2021). Sul piano estero, la Cina è diventata contemporaneamente il più grande partner dei Paesi periferici e dei Paesi centrali in termini di commercio, investimenti, risorse finanziarie e tecnologie. Ecco perché nel 2018 abbiamo giustamente previsto che gli Stati Uniti perderanno la loro guerra commerciale e tecnologica contro la Cina. Tutto questo ha spianato la strada al lancio della BRI da parte del presidente Xi Jinping dieci anni fa e al suo straordinario successo fino ad oggi. Il successo ha a che fare con quelli che possono essere definiti hard power e soft power della BRI.
La Cina è l’unico Paese in grado di fornire beni, esperienze e tecnologie delle Quattro Rivoluzioni Industriali ai Paesi in via di sviluppo e ha aiutato l’Africa a costruire 6.000 chilometri di ferrovie e 6.000 chilometri di autostrade. Molti Paesi senza sbocco sul mare non sono più senza sbocco sul mare, molti Paesi senza ferrovia sono ora dotati di ferrovia. Molte persone che non potevano permettersi gli smartphone ora li hanno e i loro Paesi hanno reti 4G o addirittura 5G.
La Cina è spesso in grado di fornire soluzioni complete per l’industrializzazione dei Paesi in via di sviluppo. Ad esempio, la Cina ha completato un pacchetto completo di produzione petrolchimica da zero per Paesi come il Ciad, il Sudan e il Turkmenistan. Essendo il più grande mercato di consumo al mondo, la Cina può accogliere un gran numero di merci provenienti dai Paesi in via di sviluppo. Ad esempio, con il completamento della ferrovia Cina-Laotian, la Cina è diventata il più grande mercato per il famoso frutto tailandese durian, con un balzo del 65% dalla costruzione della ferrovia. Il solo commercio del durian ha creato un giro d’affari di 3 miliardi di dollari per la Thailandia e i consumatori cinesi hanno beneficiato di questo commercio […] Costruire insieme deriva dallo spirito cinese del fare. Molti africani hanno descritto i progetti occidentali in Africa come NATO (No Action, Talk Only), mentre i progetti cinesi sono orientati all’azione e, una volta raggiunto il consenso delle parti interessate, le azioni seguono immediatamente.
Beneficiare insieme significa, a parte i progetti di aiuto alla Cina, che la BRI non è un’opera di carità e che la maggior parte dei progetti BRI sono commercialmente validi e vantaggiosi per tutte le parti interessate.
In breve, queste idee e pratiche ben collaudate sono guidate da una radicata convinzione filosofica cinese. “Se il credo occidentale può essere descritto come divide et impera, quello cinese è unisci e prospera. Lo pratichiamo in patria con straordinario successo e ora lo promuoviamo nella BRI, e sta funzionando bene. In conclusione, l’hard power e il soft power stanno ancora guadagnando slancio, come dimostrano l’ascesa della Cina e il successo della BRI, e questo incoraggerà sicuramente sempre più Paesi del Sud globale a collaborare in modo significativo per cambiare l’ordine globale unipolare in uno multipolare[8]”.
L’Occidente collettivo a guida egemonica statunitense continua a crescere nella puerile credenza che ciò che avviene in un mondo in continuo e rapido cambiamento siano episodi di una lotta tra bene e male, democrazia e autocrazia, libertà contro tirannia. Non deve e non può stupire, allora, il fatto che la demonizzazione di tutto quello che non è asservito alla difesa dei valori – o meglio interessi – occidentali sia la principale narrazione con cui si cerca di difendere a tutti i costi il dominio mondiale così come è stato concepito fino ad oggi.
Emblematica di questa visione del mondo è la lettura di un articolo del generale Kenneth S. Wilbach, comandante delle Pacific Air Forces, pubblicato sul numero estivo del Journal of Indo – Pacific Affairs con un titolo che lascia poco spazio alle interpretazioni, The Malign Influence of the People’s Republic of China in International Affairs (“L’influenza maligna della Repubblica Popolare Cinese negli affari internazionali”).
Si legge che “la Repubblica Popolare di Cina (PRC) continua aggressivamente a cercare di tornare alla ribalta internazionale ed ha amplificato sempre di più la sua presenza come potenza globale.
Il Partito Comunista Cinese (PCC) ha chiarito in modo inequivocabile di avere in mente di rimodellare l’ordine mondiale a suo piacimento. All’interno della regione dell’Indo-Pacifico, la RPC ha elaborato strategicamente le sue politiche internazionali attraverso la Belt and Road Initiative (BRI), progettata per ottenere vantaggi e sfruttare la crescente potenza economica e militare di Pechino”. Secondo il Council on Foreign Relations, la visione del presidente Xi Jinping comprende “la creazione di una vasta rete di ferrovie, gasdotti energetici, autostrade e attraversamenti di frontiera semplificati, sia verso ovest, attraverso le montagnose repubbliche ex sovietiche, sia verso sud, verso il Pakistan, l’India e il resto del sud-est asiatico. Attraverso questo quadro di riferimento, sono emerse quattro tattiche osservabili: l’uso della diplomazia del debito, le dispute di confine con le nazioni vicine, il generale disprezzo degli accordi e delle norme internazionali e, più di recente, le azioni minatorie di Pechino in risposta alla pandemia da COVID-19. Un osservatore obiettivo potrebbe considerare le politiche internazionali della RPC come sovversive e, come minimo, potenzialmente in grado di avere un impatto sull’intera regione Indo-pacifica.”
Riguardo l’utilizzo della diplomazia del debito da parte di Pechino per fini predatori nei confronti dei Paesi coinvolti nella Belt and Road Initiative, un generale statunitense scrive che “una politica internazionale che la RPC è solita utilizzare è la pratica della diplomazia della trappola del debito. Questa si verifica quando la RPC presta enormi somme di denaro ai Paesi in via di sviluppo, rendendoli poi vulnerabili all’influenza della RPC e alle sue intenzioni di ottenere garanzie economiche o politiche”. Il termine diplomazia della trappola del debito è stato originariamente coniato dal professor Brahma Chellaney nel 2017 per il think tank apartitico Australian Strategic Policy Institute con sede a Canberra[…]. Nell’Interim National Security Strategic Guidance, pubblicato di recente, il Presidente Joe Biden ha sottolineato alcune delle tattiche applicate dalla Cina affermando che: “In molti settori, i leader cinesi cercano vantaggi sleali, si comportano in modo aggressivo e coercitivo e minano le regole e i valori alla base di un sistema internazionale aperto e stabile. Quando il comportamento del governo cinese minaccia direttamente i nostri interessi e valori, risponderemo alla sfida di Pechino. Questo comportamento cinese ha attirato le ire della comunità internazionale, in quanto la RPC cerca di sovvertire la stabilità della regione, in particolare quando pratica questa diplomazia in Paesi come lo Sri Lanka, le Isole Salomone e Timor Est. Il timore è che Pechino stia compiendo passi graduali per stabilire un ordine economico mondiale dominato dalla Cina. Esistono numerosi esempi di tattiche diplomatiche di trappola del debito da parte della Repubblica Popolare Cinese in tutto l’Indo-Pacifico, che risalgono a molto prima che il termine fosse coniato. La RPC ha utilizzato questo approccio all’indomani della guerra civile dello Sri Lanka, terminata nel 2009. Pechino ha visto l’opportunità di piantare radici imperialistiche nell’Asia meridionale, facendo leva sulla necessità di ricostruzione dello Sri Lanka e fornendo al Paese prestiti per progetti nella capitale Colombo e nei suoi dintorni, ma anche per un noto gruppo nella città natale [dell’allora presidente Mahinda Rajapaksa], Hambantota. Hambantota, dove vivono solo 40.000 persone, è riuscita a ottenere oltre 1 miliardo di dollari di prestiti dalla China Exim per un nuovo porto in acque profonde, un aeroporto e uno stadio di cricket.
A causa dell’incapacità dello Sri Lanka di rimborsare questi prestiti di sfruttamento, il Governo di Colombo è stato costretto ad affittare il porto strategico di Hambantota a Pechino per un periodo di 99 anni consentendo alla RPC di gestire il porto in modo autonomo”.
Sulla questione del porto di Hambantota torneremo più avanti, mentre adesso è interessante proseguire nella lettura di quanto pubblicato dal Journal of Indo-Pacific Affairs nell’estate del 2021: “Sebbene questi progetti infrastrutturali favoriscano l’economia locale, secondo il professor Chellaney, il motivo principale per la RPC non è “sostenere l’economia locale, ma facilitare l’accesso cinese alle risorse naturali, oppure aprire il mercato ai prodotti cinesi a basso costo e scadenti. La RPC non sta risparmiando l’Oceania dalla sua diplomazia della trappola del debito visto che, interpretando in questo contesto, se la RPC seguirà lo stesso schema utilizzato nello Sri Lanka, le Isole Salomone potrebbero cedere il controllo di un’importante risorsa a vantaggio della RPC. La caduta delle Isole Salomone nelle mani della RPC è un altro passo verso la realizzazione della visione di Pechino di una Nuova Via della Seta come parte della BRI, garantendo alla RPC una presenza importante in Oceania”.
Nel finale del paragrafo tutto dedicato alla Trappola del Debito, Wilsbach fa notare al lettore che “uno degli aspetti più preoccupanti di questi prestiti è la loro mancanza di trasparenza, insieme ad altri rischi nascosti che di solito accompagnano la loro sottoscrizione. L’Harvard Business Review ha sollevato questa preoccupazione, confrontando le pratiche di prestito della RPC con quelle del Fondo Monetario Internazionale (FMI): I prestiti del FMI sono trasparenti e di solito sono condizionati a un piano di miglioramento delle politiche nazionali. I prestiti e i debiti che la Repubblica Popolare Cinese ha contratto fanno parte di uno sforzo continuo per promuovere la BRI ed espandere la sua portata globale, e la mancanza di trasparenza in queste transazioni è un tema ricorrente quando si parla delle politiche di Pechino”[9].
Fatto proprio a più livelli, il concetto di trappola del debito trova le sue origini tra le righe di un articolo pubblicato da Brahma Chellaney con il titolo China’s debt-trap diplomacy[10] a fine gennaio del 2017. Prima di proseguire nella trattazione, è necessario concettualizzare un nuovo strumento di politica estera – come lo è la diplomazia della trappola del debito – in termini più ampi per valutarlo correttamente. Date le sue caratteristiche, la diplomazia della trappola del debito può essere classificata come uno degli strumenti economici di politica estera, accanto a quelli militari e diplomatici, un’idea nuova nelle relazioni internazionali. Lo studioso indiano, suggerisce che:
“La Diplomazia della Trappola del Debito è uno strumento per i responsabili politici quando il Paese prestatore (in questo caso, la Cina) promuove progetti infrastrutturali nel Paese mutuatario (tipicamente un Paese in via di sviluppo, un Paese che sulla scacchiere internazionale occupa una posizione strategica) spesso concedendo al governo mutuatario prestiti eccessivi. In altre parole, lo Stato in via di sviluppo cade vittima del potere dello Stato sviluppato, dopo essere rimasto intrappolato nella trappola del debito. Di conseguenza, lo Stato in via di sviluppo non è in grado di restituire i prestiti; di conseguenza, lo Stato in via di sviluppo trasferisce alcuni dei suoi beni (come le infrastrutture) allo Stato sviluppato per ridurre i suoi obblighi di debito nei confronti di quest’ultimo (questa fase finale è nota anche come debt-for-equity).
La Cina ha registrato una crescita fenomenale sia della sua economia interna che dei finanziamenti esteri allo sviluppo e attualmente detiene il titolo di maggior creditore ufficiale al mondo. Negli ultimi due decenni, il governo cinese e le sue banche statali hanno ampliato la loro influenza e il loro sostegno finanziario su scala globale mentre, nel 2013, Xi Jinping lanciava il piano One Belt One Road (OBOR), ora noto come Belt and Road Initiative, un’enorme raccolta di progetti di investimento che si estendono su più continenti”.
Secondo il blocco occidentale guidato dagli Stati Uniti, la BRI è un piano geopolitico per creare un nuovo ordine mondiale sino-centrico che andrebbe a soppiantare quello costruito e guidato da Washington e dagli interessi statunitensi. Ma non tutto è geopolitica e derubricare tutta la questione del debito come dannosa trascura i suoi potenziali benefici nel favorire lo sviluppo socioeconomico di un Paese, soprattutto se in via di sviluppo. Una gestione responsabile del debito, infatti, è una pratica comune nelle strategie di crescita economica ed etichettarlo universalmente come dannoso per fini di tenuta del sistema internazionale è una rappresentazione distorta della realtà dei fatti. Inoltre, rimanendo sulla Cina, le collaborazioni di investimento e finanziamento concordate da Pechino con altri Paesi mirano principalmente ai settori infrastrutturale e produttivo e sono volti ad alleviare alcuni vincoli critici per lo sviluppo. Questi sforzi collaborativi permettono ai Paesi di potenziare la propria capacità di sviluppo autonomo, aumentando il reddito reale globale fino al 3%. Non è un caso che, diversamente da quanto fa l’Occidente, nessun partner di Pechino abbia accusato la Repubblica Popolare Cinese di creare trappole del debito.
Ovviamente, nel 2017 Brahma Chellaney era di tutt’altro avviso. L’introduzione al saggio del ricercatore indiano inquadra, già, l’impianto teorico di accuse imbastito contro la Repubblica Popolare Cinese, in quegli anni nel pieno della sua ascesa a potenza internazionale: “Se c’è una cosa in cui i leader cinesi eccellono davvero, è l’uso di strumenti economici per promuovere gli interessi geo-strategici del Paese. Attraverso l’Iniziativa da 1.000 miliardi di dollari One Belt, One Road, la Cina sostiene progetti infrastrutturali in Paesi in via di sviluppo strategicamente posizionati, spesso concedendo ingenti prestiti ai loro governi. Di conseguenza, alcuni di questi Paesi si stanno caricando di debiti, lasciandoli ancora più saldamente sotto il controllo della Cina”. Chellaney prosegue mettendo in evidenza che, “naturalmente, la concessione di prestiti per progetti infrastrutturali non è intrinsecamente negativa. Ma i progetti che la Cina sostiene spesso non sono destinati a sostenere l’economia locale, ma a facilitare l’accesso cinese alle risorse naturali o ad aprire il mercato per i suoi prodotti di esportazione a basso costo e scadenti. In molti casi, la Cina invia persino i propri lavoratori edili, riducendo al minimo il numero di posti di lavoro locali creati”.
Scorrendo il saggio, si può leggere che “inoltre, alcuni Paesi, sommersi dai debiti verso la Cina, sono costretti a venderle quote di progetti finanziati dalla Cina o a cederne la gestione a imprese statali cinesi. Nei Paesi finanziariamente a rischio, la Cina richiede ora la proprietà della maggioranza in anticipo. Questo mese, ad esempio, la Cina ha concluso un accordo con il Nepal per la costruzione di un’altra diga di proprietà cinese, con la China Three Gorges Corporation, società statale, che detiene una quota del 75%. […] Come se non bastasse, la Cina sta adottando misure per garantire che i Paesi non possano sfuggire ai loro debiti. In cambio della rinegoziazione dei rimborsi, la Cina chiede ai Paesi di assegnarle contratti per ulteriori progetti, rendendo così interminabili le loro crisi debitorie. Lo scorso ottobre, la Cina ha cancellato 90 milioni di dollari di debito della Cambogia, solo per assicurarsi nuovi importanti contratti”.
Se valutati a posteriori, allora, “i disegni della Cina potrebbero sembrare ovvi. Ma la decisione di molti Paesi in via di sviluppo di accettare i prestiti cinesi, in molti modi, è comprensibile. Trascurati dagli investitori istituzionali, [i Paesi in via di sviluppo] avevano un gran bisogno – insoddisfatto – di infrastrutture. Così, quando la Cina si è presentata, promettendo benevoli investimenti e facile accesso al credito, erano tutti dentro. È diventato chiaro solo dopo che il vero obiettivo della Cina era la penetrazione commerciale e la leva strategica; a quel punto, era troppo tardi, e i Paesi sono rimasti intrappolati in via circolo vizioso”.
Riassumendo, all’epoca l’analista indiano accusò il Governo di Pechino di utilizzare la Belt and Road Initiative come un’arma dai connotati prettamente geopolitici con la quale la Cina elargisce con maligna cattiveria ingenti prestiti ai Paesi in via di sviluppo per sostenere progetti infrastrutturali strategici, con l’obiettivo finale di intrappolare i Paesi in una trappola del debito, rendendoli “vulnerabili all’influenza cinese” e ai suoi “progetti di neocolonialismo”.
Nell’impianto accusatorio di Brahma Chellaney gli eventi verificatisi in Sri Lanka rappresentano l’Exhibit “A”, la prova “A”della diplomazia del debito messa in atto da Pechino inun Paese che – anche se piccolo – è strategicamente collocato tra i porti orientali della Cina e il Mediterraneo tanto che il Presidente Xi Jinping lo considera vitale per il completamento della via della seta marittima[11]: stando alla ricostruzione resa dall’analista, la Repubblica Popolare Cinese avrebbe permesso allo Sri Lanka l’accesso ad una ingente somma presa a prestito per la costruzione del porto strategico di Hambantota, sapendo in partenza che il Governo dell’isola non avrebbe mai avuto le capacità economiche di ripagare il debito; la ricostruzione degli eventi vuole che la Cina – verificatosi proprio questo scenario – si sarebbe impossessata del porto in cambio di una riduzione del debito, con l’intenzione di utilizzarlo per ospitare le navi della marina cinese. I problemi dell’isola, però, non erano da addebitare agli istinti predatori di Pechino quanto piuttosto a criticità strutturali nell’economia e nell’eccessiva esposizione dello Sri Lanka ai capitali presi a prestito dal Fondo Monetario Internazionale e da istituti e Governi occidentali.
Un articolo pubblicato dal sito Orizzonti Politici ricostruisce la vicenda del porto di Hambantota mettendo in luce una decisiva divergenza dei fatti rispetto alla narrazione degli stessi messa in piedi da media, think tanks, circoli di intelligence e agenzie di sicurezza nazionale sparsi in tutti quei Paesi legati all’egemone statunitense. Contrariamente alla narrazione comune, “il porto di Hambantota era voluto dal governo srilankese[12]. Questo progetto faceva parte del piano stilato dalla dinastia politica Rajapaksa per ricostruire e sviluppare lo Sri Lanka, in particolare il loro distretto natio di Hambantota. Il progetto inizialmente fu presentato all’India e agli Stati Uniti, che respinsero l’opportunità di investire nell’isola, che era ancora nel mezzo degli ultimi e più cruenti anni della sua lunga guerra civile. Dopo anni di stallo, nel 2007 la Cina si fece avanti per finanziare e costruire il porto (sei anni prima dell’annuncio della BRI). Tuttavia, il piano srilankese fu ostacolato da corruzione e mala gestione, in particolare da parte dei Rajapaksa. […] Nel 2016, l’insostenibilità del piano, finanziato principalmente tramite prestiti, portò il Paese sull’orlo di una crisi finanziaria. Tuttavia, solo il 16% del debito estero srilankese era cinese, la maggioranza era verso banche multilaterali di sviluppo e creditori internazionali.
In seguito a un bailout del FMI, Colombo si trovò disperatamente in bisogno di valuta estera. Dopo vari tentativi falliti di affittare il porto di Hambantota ad aziende indiane e giapponesi, il primo ministro srilankese Ranil Wickremesinghe chiese direttamente al presidente cinese Xi Jinping di intervenire. Il risultato fu un accordo tra Colombo e il colosso portuario statale cinese CMPort che acquisì una partecipazione azionaria di maggioranza in due filiali dell’autorità portuale srilankese per gestire e sviluppare il porto. Il porto però rimase proprietà srilankese e non ci fu nessuno scambio di un bene strategico per la cancellazione di debiti. Dall’accordo il governo srilankese ottenne $1,12 miliardi che poteva usare per ripagare i suoi prestiti cinesi, ma che invece utilizzò per pagare i suoi debiti verso l’Occidente dato che questi avevano tassi d’interesse notevolmente più alti. Inoltre, non c’è nessuna prova che il porto di Hambantota sia mai stato utilizzato per scopi militari, anche perché l’accordo proibisce esplicitamente attività militari nelle sue vicinanze.[13]Come osservato argutamente dall’economista singalese Subhashini Abeysinghe, direttore di ricerca dell’istituto Verité Research, “Lo Sri Lanka potrebbe affondare nell’Oceano Indiano e buona parte del mondo occidentale non se ne accorgerebbe”, ma, adesso, le vicende dell’isola sono diventate manifesto della denuncia della diplomazia del debito perpetrata dalla Cina e dei suoi appetiti neo-imperiali ed è ancora largamente utilizzata dai media occidentali come monito di avvertimento contro quelle nazioni che vogliono unirsi alla Belt and Road Initiative; così, quando, nel luglio del 2022 lo Sri Lanka fu colpito da una forte crisi economica, la ricostruzione degli eventi resa dai media, da un lato, ha alimentatoquell’effetto illusorio di veritàche abbiamo presentato nell’introduzione di questa breve trattazione mentre, dall’altro, ha aiutato a mettere in cattiva luce le azioni di Pechino; un esempio, tratto dalla stampa italiana, è l’articolo firmato da Federico Rampini per il “Corriere della Sera”, pubblicato con il seguente – parlante – titolo: Cosa insegna lo Sri Lanka (alla fame) al resto del mondo sulla Cina e il «bio», un piccolo bignami dei capisaldi della narrazione anti-cinese propugnata dal campo occidentale; si legge, ad esempio, che “Pechino è il principale creditore dello Sri Lanka, e ora ne sta ristrutturando il debito con modalità durissime e che una delle peculiarità dello Sri Lanka è questa: l’isola rientra nella fattispecie dei Paesi che sono scivolati dall’orbita finanziaria dell’Occidente verso quella della Cina. Chi era abituato a denunciare i misfatti del Fondo monetario internazionale (che nella vulgata vetero-marxista degli anni Sessanta e Settanta veniva equiparato a un braccio finanziario dell’imperialismo americano) ora deve constatare che l’alternativa non è esaltante. La Cina è diventata il principale creditore dello Sri Lanka, con 12 miliardi di dollari di prestiti, per lo più inghiottiti in progetti infrastrutturali rovinosi, «cattedrali nel deserto», forse con qualche vantaggio per i fratelli Rajapaksa, di sicuro non per la popolazione dell’isola. La Cina non è un creditore malleabile né indulgente. Già cinque anni fa Pechino «pignorò» un porto costruito con i suoi prestiti nello Sri Lanka, che ora è di proprietà cinese. Xi Jinping negozia la ristrutturazione del debito dello Sri Lanka con atteggiamento ben più duro di quanto farebbe il Fmi. La vicenda è istruttiva e viene osservata con attenzione in altre parti del mondo. L’elenco dei Paesi debitori della Cina e già in bancarotta o a rischio di insolvenza si sta allungando: Pakistan, Laos e Zambia sono fra i più pericolanti[14].
Dopo anni di pressante promozione a più livelli (politico, economico, diplomatico, mediatico) dell’immagine della Cina come una fiera che si aggira famelica nel contesto internazionale azzannando i Paesi suoi debitori dopo averli strangolati con i prestiti è talmente radicato nelle coscienze che, ormai, è riportato come qualcosa che si dimostra da sé, una sorta di dogma ad uso e consumo dell’Occidente collettivo.
Nel corso del 2018, l’apparato politico di Washington mutua i presupposti e la teoria elaborata da Chellaney l’anno precedente e la adatta alle sue esigenze geopolitiche volte a contenere la Cina e screditarla nel consesso internazionale. Il 4 ottobre del 2018, il vicepresidente dell’Amministrazione di Donald J. Trump, Micheal Richard Pence, intese sostenere con vigore che “la Cina usa la cosiddetta diplomazia del debito per allargare la sua influenza. Oggi, il Paese sta offrendo centinaia di miliardi di dollari in prestiti per progetti infrastrutturali ai Governi, dall’Asia all’Africa e all’Europa e persino in America Latina. Eppure, i termini di questi prestiti sono a dir poco opachi e i benefici sono destinati in maniera preponderante a Pechino.
Chiedete allo Sri Lanka, Paese che si è indebitato enormemente per lasciare che le aziende statali cinesi costruissero un porto di discutibile valore commerciale[15] ma che sarebbe diventato presto un avamposto militare per la crescente flotta cinese”.
Anche l’allora Segretario di Stato Mike Pompeo aveva a più riprese accusato Pechino di svolgere attività economiche predatorie e di aver imbrigliato alti dirigenti di Paesi “in cambio di progetti infrastrutturali che danneggeranno il popolo di quella nazione” ma è nel dicembre di quello stesso anno (4 dicembre 2018), in occasione della presentazione della nuova strategia africana voluta dall’Amministrazione Trump che si palesa in modo chiaro la visione che gli Stati Uniti hanno dell’operato internazionale della Cina; quel giorno, infatti, John Bolton, consigliere per la Sicurezza Nazionale, dichiarò senza mezzi termini che “La Cina usa tangenti, accordi opachi e l’uso strategico del debito per tenere gli Stati africani prigionieri dei desideri e delle richieste di Pechino. Le sue iniziative di investimento sono infarcite di corruzione e non rispettano gli stessi standard ambientali o etici dei programmi di sviluppo statunitensi. Queste azioni predatorie sono sotto-componenti di iniziative strategiche cinesi più ampie, tra cui One Belt, One Road, un piano per sviluppare una serie di rotte commerciali da e verso la Cina con l’obiettivo finale di far avanzare il dominio globale cinese. In Africa, stiamo già vedendo gli effetti inquietanti della ricerca di maggiore potere politico, economico e militare da parte della Cina”[16].
Nel corso del 2018 viene diffuso anche il paper intitolato Debtbook Diplomacy: China’s strategic leverage of its newfound economic influence and the conseguences for US foreign policy, un documento che – muovendo dalle argomentazioni di Brahma Chellaney – metteva in guardia dal fatto che Pechino, attraverso l’indebitamento dei Paesi in via di sviluppo, si sarebbe impossessata di importanti leve economiche al fine di guadagnare potere militare; gli autori – Sam Parker e Gabrielle Chefitz, all’epoca due studenti al secondo anno del Master in Public Policy – stilarono anche una lista di sedici Paesi[17] identificati come vulnerabilialla coercizione economicaattuata dalla Cina, specificando, però, che il loro Country Vulnerability Assessment non avesse carattere scientifico. Chiacchiere, dunque, ben strutturate e impacchettate che i media occidentali hanno promosso in modo sensazionale come la prova accademica dell’azione predatoria cinese e che hanno influenzato i circoli della sicurezza nazionale e della difesa di Washington.
La ricerca si apre informando il lettore che “Nella National Defense Strategy del 2018, gli Stati Uniti avvertivano che la Cina sta facendo leva sulla economia predatoria come mezzo per ottenere fini strategici sia regionali che su scala globale. Una di queste politiche predatorie è quella che gli autori hanno chiamato diplomazia del debito, la leva coercitiva del debito per acquisire asset strategici o influenza politica sulle nazioni debitrici. […] Tre obiettivi strategici per la diplomazia del debito sarebbero: completare il filo di perle per proiettare il potere attraverso le rotte commerciali vitali dell’Asia meridionale; minare l’opposizione guidata dagli Stati Uniti alle rivendicazioni contestate di Pechino nel Mar Cinese Meridionale; supportare gli sforzi della Marina dell’Esercito Popolare di Liberazione a rompere la Prima Catena di Isole e proiettarsi nelle acque profonde e aperte dell’Oceano”[18].
Interessante è leggere il contenuto del capitolo 4, intitolato Gli interessi statunitensi in gioco e nel quale viene scritto che “la competizione geo-economica tra Stati Uniti e Cina non è a somma zero, né gli investimenti infrastrutturali cinesi nei Paesi in via di sviluppo sono
investimenti intrinsecamente contrari agli interessi statunitensi o globali. La diplomazia del debito della Cina diventa motivo di preoccupazione quando
A) crea una leva che la Cina può usare per raggiungere obiettivi strategici contrari agli interessi degli Stati Uniti e/o
B) mette in difficoltà un Paese ospitante – in cui gli Stati Uniti hanno interessi strategici – con un debito insostenibile che mina la stabilità interna del Paese”[19]. Da qui, le prescrizioni dei due autori di difendere gli interessi di sicurezza nazionale di Washington, tra le quali: “mantenere un equilibriostrategico vantaggioso nei confronti della Cina: sul lungo periodo, l’espansione dell’influenza regionale della Cina e l’accesso ai porti dell’Asia Meridionale e delle isole del Pacifico hanno il potenziale di alterare la situazione regionale, allontanando l’effettivo dominio navale degli Stati Uniti; garantire la vitalità e la stabilità delle rotte commerciali e dei mercati energetici: un fattore importante della strategia diplomatica cinese è la necessità di risolvere il dilemma di Malacca, che la Cina sa essere il suo tallone d’Achille in caso di conflitto con l’India o gli Stati Uniti. La creazione di rotte alternative per le sue importazioni di energia e l’espansione della sua impronta navale potrebbero rendere la Cina più stabile e durevole nei mercati del commercio e dell’energia; scoraggiare le massicce violazioni dei diritti umani: l’offerta cinese di un finanziamento senza condizioni offre un’interessante alternativa di finanziamento ai Paesi isolati dalla comunità internazionale. Questa pratica compromette la capacità degli Stati Uniti di usare la propria leva economica e diplomatica per promuovere i diritti umani e il buon governo all’estero”[20].
Quello che permette di inquadrare meglio il frame in cui nasce, si sviluppa e si diffonde il concetto di trappola del debito si trova in questo suggerimento elargito dagli autori del paper: gli apparati di Washington dovrebbero impegnarsi più a fondo per “impedire che la Cina riduca l’influenza degli Stati Uniti nei confronti dei partner chiave: i prestiti della Cina minano la capacità degli Stati Uniti di utilizzare la propria assistenza economica per promuovere gli obiettivi di sicurezza degli Stati Uniti”[21].
In un post di analisi al paper poc’anzi analizzato dal titolo Geopolitical Strategists fabricated BRI “dept-trap diplomacy” narrative, Melissa Harrison sostiene che in particolare, “il rapporto svela il nocciolo della tensione, ovvero che l’economia statunitense dominata da Wall Street non può competere con quella cinese guidata dalle banche di Stato. Il rapporto ammette che gli Stati Uniti e i loro alleati non sono in grado di offrire investimenti pubblico-privati di dimensioni paragonabili a quelle dei finanziamenti cinesi della BRI, osservando che a livello macroeconomico, gli Stati Uniti non hanno la volontà e le risorse per sfidare a distanza l’enorme portata degli investimenti cinesi della BRI”[22].
Emerge, così, chiaramente che la paura che la potenza egemone dell’Occidente collettivo palesa non è tanto quella che la Cina proietti il suo potere in tutto il mondo ma, piuttosto il timore che, coltivando la Cina buone relazioni con molti altri Paesi, gli Stati Uniti comincino ad essere limitati nella loro capacità di proiettare potere militare a livello globale, anche contro la stessa Cina, e vedano erodere le proprie capacità di dominio internazionale; con la diminuzione del loro potere, gli Stati Uniti non sarebbero più in grado di applicare la loro volontà egemonica che si basa sui dettami di quella che è conosciuta come dottrina di Wolfowitz – Washington dovrebbe fermare l’ascesa di ogni possibile rivale militare o economico – segnando, così, la fine dell’impero anglo-americano e dell’ordine mondiale unipolare.
Ma, se per chi adesso controlla il mondo delle regole questo sviluppo non rappresenta altro che l’incubo finale, per la maggior parte del resto del mondo – che, invece, sta valutando l’approccio cinese di uno sviluppo economico cooperativo come vincente e sempre più graditorispetto a quello statunitense che, invece, prevede guerre e azioni per cambi di regime, applicazione forzata dell’ordine basato sulle regole e del sistema di saccheggio economico delle istituzioni occidentali.
Il castello accusatorio contro la Cina facente leva sulla trappola del debito, quindi, non sarebbe altro che la risultante della somma delle ansie occidentali piuttosto che la fotografia della realtà dei fatti i quali, a ben vedere, sembrano di diversa natura. Sylvain Takoué, presidente dell’istituto ChinaAfrica International di Abidjan, Costa d’Avorio, sostiene come la questione relativa alla trappola del debito sia da inquadrare nel contesto della disinformazione. Verso la fine del XIX secolo e nella prima metà del XX secolo, la Cina è stata sottoposta allo smembramento da parte delle potenze straniere dell’epoca. Dopo la fondazione della Repubblica Popolare Cinese, 74 anni il 1° ottobre 1949, questa è l’epoca del Bashing China, la denigrazione dell’economia cinese da parte dell’Occidente.
“La questione del debito cinese in Africa viene troppo spesso discussa con una tendenza alla spacconeria e alla fantasia dagli stessi scagnozzi dell’Occidente che sognano solo una cosa: veder crollare l’economia cinese. Diffondendo a piacimento la voce della trappola del debito cinese, i toni di coloro che vi si prestano sono inebrianti. In primo luogo, il debito è un modo normale di finanziare lo sviluppo di un Paese. In secondo luogo, un rapporto britannico (Debt Justice) mostra che i Paesi africani hanno un debito tre volte maggiore nei confronti delle istituzioni finanziarie private occidentali rispetto alla Cina, e per di più con interessi doppi.
D’altra parte, secondo le statistiche della Banca Mondiale, dei debiti esterni totali di 696 miliardi di dollari contratti dai 49 Paesi africani, i debiti verso le istituzioni finanziarie multilaterali e i creditori commerciali – esclusi quelli della Cina – rappresentano circa i tre quarti dei debiti totali, dato che li rende i principali creditori dei debiti africani. In secondo luogo, è bene evidenziarlo, la Cina ha sempre collaborato con i Paesi africani su base paritaria e vantaggiosa, sulla base dell’uguaglianza e del vantaggio reciproco; la Cina si è sempre adoperata per aiutare l’Africa ad alleviare la pressione del suo debito: a tal fine, ha firmato accordi di riduzione del debito o ha raggiunto un consenso sulla riduzione del debito con 19 Paesi africani e ha sospeso i debiti in maniera più concreta tra tutti i membri del G20. Questi sono solo alcuni esempi”[23].
Intanto occorre dire che ci sono alcuni problemi che rendono quantomeno dubbio il mito della trappola del debito, facendo così propendere per il fatto che questo sia piuttosto una menzogna creata ad hoc, un atto di deliberata disinformazione.
Il primo problema è che si presuppone che la Cina imponga unilateralmente i progetti della Belt and Road Initiative per attirare altri Paesi nella trappola di questi prestiti che si vogliono predatori, quando in realtà, il finanziamento dello sviluppo cinese è in gran parte determinato non da Pechino ma, piuttosto, dai Governi beneficiari attraverso interazioni e accordi bilaterali, in base ai propri interessi economici e politici.
Il secondo problema è relativo al fatto che la narrazione si basa sul presupposto che sia la politica cinese ad imporre termini e condizioni onerosi per intrappolare i Paesi nel debito. In realtà, la Cina spesso accorda prestiti a tassi di interesse piuttosto bassi ed è, spesso, disposta a ristrutturare i termini dei prestiti esistenti per essere più favorevoli al Paese mutuatario – se non, addirittura, a condonare del tutto i prestiti[24].
Infine, il terzo problema è che, contrariamente a ciò che si afferma con assoluta certezza, la Cina non ha mai sequestrato nessun bene perché un Paese non ha rimborsato un debito contratto con Pechino.
Il lettore che ha seguito il filo del discorso fino a questo punto avrà, ormai, chiaro che la teoria della diplomazia della trappola del debito cinese altro non è che una narrazione fabbricata per screditare Pechino ma che risulta funzionale anche ad oscurare le politiche imperialiste messe in atto dalla potenza egemone che guida l’Occidente collettivo e a spostare l’attenzione dalla pratica consolidata del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale di concedere prestiti ad alto tasso di interesse e, spesso, a condizione di privatizzare i settori pubblici, smantellare i programmi di assistenza sociale e liberalizzare il commercio per arricchire gli interessi capitalisti dell’alta finanza e dei poteri forti occidentali. Questa è la vera trappola del debito.
Non è un caso che nell’agosto del 2022 il portavoce del Ministero degli Esteri cinese, Wang Wenbin, abbia denunciato il fatto che la cosiddetta trappola del debito non sarebbe altro che una bugia fabbricata ad arte dagli apparati di Washington e di alcuni dei suoi alleati occidentali per scaricare le colpe del loro operato durato decenni ed accusare, invece, in modo gratuito Pechino per il suo operato sullo scenario internazionale nel quale, con il tempo, si è ritagliata un posto di rilievo tra le potenze globali; rispondendo agli addebiti rivolti al suo Paese dal segretario di Stato Antony Blinken nel corso del suo tour in Africa, Wang Wenbin ha dichiarato che “tali accuse contro la Cina sono semplicemente insostenibili”.
Ma se ovvie sono le parole di rifiuto delle accuse da parte delle istituzioni cinesi, con il tempo sono stati pubblicati studi che certificano come non veritiere le conclusioni cui giungono gli accaniti sostenitori della trappola del debito.
Il primo è un working paper intitolato Debt relief With Chinese Characteristics[25] nel quale i tre autori minano alle fondamenta la narrazione comune sull’internazionalizzazione cinese affermando sin dall’abstract con cui si apre il lavoro che “il nostro studio ha trovato che tra il 2000 e il 2019, la Cina ha cancellato almeno 3.4 miliardi di dollari di debito in Africa. […] Non esiste una Cina Inc.: per i prestiti fruttiferi, il trattamento del debito intergovernativo e dei prestiti delle imprese cinesi viene negoziato separatamente, e spesso prestito per prestito piuttosto che per l’intero portafoglio. Mentre la rinegoziazione attraverso l’aumento del periodo di rimborso è comune, non lo sono le modifiche dei tassi di interesse, le riduzioni del capitale (haircut) o il rifinanziamento. Abbiamo scoperto che la Cina ha ristrutturato o rifinanziato circa 15 miliardi di dollari di debito in Africa tra il 2000 e il 2019. Non abbiamo riscontrato sequestri di beni e, nonostante le clausole contrattuali che richiedono l’arbitrato, non ci sono prove del ricorso ai tribunali per imporre i pagamenti o l’applicazione di tassi di interesse di penalizzazione. Sebbene i finanziatori cinesi abbiano applicato i termini del Club di Parigi ad alcune scadenze, su richiesta del mutuatario, i finanziatori cinesi preferiscono affrontare le ristrutturazioni in modo tranquillo, su base bilaterale, adattando i programmi a ogni situazione.
Dunque non esiste un caso, nessuno, che provi che Pechino abbia sequestrato un asset strategico di un Paese debitore; nonostante non vi siano prove che la Cina usi il debito come un’arma geopolitica contro le nazioni africane, il mantra viene ripetuto deliberatamente alimentando e diffondendo la disinformazione funzionale, come ad esempio quando l’agenzia di rating Moody’s ha avvertito che i Paesi ricchi di risorse naturali, come l’Angola, lo Zambia e la Repubblica del Congo, o con infrastrutture strategicamente importanti, come porti o ferrovie, come il Kenya, sono più vulnerabili al rischio di perdere il controllo su asset importanti nei negoziati con i creditori cinesi. Queste ipotesi di una Cina maligna sono state ripetute in pubblicazioni come il New York Times, che ha sostenuto che i prestiti cinesi utilizzano spesso beni nazionali come garanzia e richiedono un rifinanziamento ogni due anni (i nostri dati sull’Africa non supportano nessuna di queste affermazioni)”.
Nel febbraio del 2021, la stessa Deborah Brautigam insieme stavolta a Meg Rithmire tornerà sull’argomento con un articolo pubblicato sul sito del periodico statunitense The Atlantic dal titolo The Chinese “Debt Trap” is a Myth nel cui sottotitolo si può leggere che “la narrazione ritrae in modo errato sia Pechino che i Paesi in via di sviluppo con cui ha a che fare”.
La Cina, ci viene detto, “induce i Paesi più poveri ad accendere prestiti su prestiti per costruire infrastrutture costose che non possono permettersi e che produrranno pochi benefici, il tutto con l’obiettivo finale di far sì che Pechino alla fine prenda il controllo di questi beni dai suoi mutuatari in difficoltà. Mentre gli Stati di tutto il mondo accumulano debiti per combattere la pandemia di coronavirus e sostenere le economie in crisi, i timori di questi possibili sequestri si sono solo amplificati. Vista in questo modo, l’internazionalizzazione della Cina – come illustrato in programmi come la Belt and Road Initiative – non è semplicemente una ricerca di influenza geopolitica, ma anche, secondo alcune interpretazioni, un’arma. Una volta che un Paese è appesantito dai prestiti cinesi, come un giocatore d’azzardo sfortunato che prende in prestito dalla Mafia, è un burattino di Pechino e rischia di perdere un arto.
La narrazione sulla trappola del debito non sarebbe, dunque, altro da quello che realmente è: una bugia, e una di quelle più potenti”[26].
Nell’agosto del 2020 vede la luce un altro, importante, lavoro che mette in crisi il mito della diplomazia del debito; a pubblicarlo è, nientemeno, che la Chatham House: Debunking the Myth of “debt-trap diplomacy. How recipient countries shape China’s Belt and Road Initiative, questo il suo inequivocabile titolo, di Lee Jones e Shahar Hameiri, le firme.
Sulla pagina online dedicata si legge che “i critici della BRI accusano la Cina di perseguire una politica di diplomazia della trappola del debito: attirare i Paesi poveri e in via di sviluppo a concordare prestiti insostenibili per portare avanti progetti infrastrutturali in modo che, quando incontrano difficoltà finanziarie, Pechino possa impadronirsi del bene, estendendo così la sua portata strategica o militare. Il presente documento dimostra che le prove a sostegno di tali opinioni sono limitate”[27].
Nell’introduzione del testo, si inquadra il contesto in cui si diffondono le accuse rivolte alla Cina di ricorrere alla pratica di “armare” la Belt and Road Initiative[28] al fine di utilizzare la leva dei debiti contratti dai Paesi in via di sviluppo per conquistare posizioni di dominio a livello globale: “lanciata nel 2013, la Belt and Road Initiative (BRI) è ampiamente intesa come una strategia geopolitica volta a creare un nuovo ordine sino-centrico in Eurasia o addirittura nel mondo intero. L’opinione tipica è che la BRI comprenda una grande strategia cinese ben congegnata, perseguita per reclamare il dominio geopolitico in Asia […, sfidare] il dominio degli Stati Uniti e […] creare un ordine incentrato sulla Cina (Bhattacharya, 2016: p. 2). I think tank e gli studiosi descrivono la BRI come un’offensiva geopolitica e diplomatica (Godement e Kratz, 2015: p. 2), volta a niente di meno che riscrivere l’attuale panorama geopolitico (Fallon, 2015: p. 140), o addirittura a dominare il mondo (Fasslabend, 2015)”.
Nonostante le proteste di Pechino, che sostiene che questa visione travisa una politica intesa dalla Cina come un’iniziativa benevola, essa ha rapidamente preso piede nei circoli politici occidentali, in particolare negli Stati Uniti. Nel dicembre 2018, l’allora consigliere per la sicurezza nazionale John Bolton (2018) ha dichiarato che la BRI mirava a “far avanzare il dominio globale cinese”. Nell’ottobre 2017, durante il suo mandato, il Segretario di Stato Rex Tillerson (2017) ha affermato che “i prestiti cinesi per finanziare i progetti infrastrutturali erano una forma di economia predatoria, concepita per provocare inadempienze nei finanziamenti e la conversione del debito in capitale”. In effetti, si dice spesso che la Cina stia perseguendo una “diplomazia della trappola del debito”: attirare i Paesi poveri e in via di sviluppo a concordare prestiti insostenibili per portare avanti progetti infrastrutturali, in modo che, quando incontrano difficoltà finanziarie, Pechino possa impadronirsi dell’asset, estendendo così la sua portata strategica o militare. Questa affermazione, nata in un think tank di Nuova Delhi nel 2017 in relazione al porto di Hambantota dello Sri Lanka, è stata ampiamente ripetuta dai media e dalle élite politiche di alto livello in tutto il mondo (Bräutigam, 2020). Il vicepresidente degli Stati Uniti Mike Pence (2018), ad esempio, nell’ottobre 2018 ha criticato la Cina per aver utilizzato la diplomazia della trappola del debito in Sri Lanka per stabilire una “base militare avanzata per la crescente marina militare cinese”.
Gli autori, sin da subito, precisano al lettore che il presente documento dimostra che tali opinioni sono errate per una serie di ragioni. In primo luogo, la BRI è principalmente un progetto economico; in secondo luogo, il sistema cinese di finanziamento dello sviluppo è troppo frammentato e scarsamente coordinato per perseguire obiettivi strategici dettagliati, nonostante gli sforzi dei leader e delle agenzie centrali di orientare vagamente la direzione generale della BRI; in terzo luogo, il finanziamento dello sviluppo cinese è fortemente guidato dai beneficiari. La Cina non può e non vuole imporre unilateralmente ciò che viene costruito in nome della BRI. I Governi dei Paesi in via di sviluppo non sono vittime sfortunate di una Pechino predatrice; sono loro – e i loro interessi politici ed economici associati – a determinare la natura dei progetti BRI sul loro territorio. Lungi dallo svolgersi secondo un piano strategico cinese, la BRI viene in realtà costruita in modo frammentario, attraverso diverse interazioni bilaterali.
Le dinamiche politico-economiche e i problemi di governance da entrambe le parti spesso si traducono in progetti mal concepiti e mal gestiti, con sostanziali implicazioni negative a livello economico, politico, sociale e ambientale; tuttavia, il presente documento sostiene che spesso si tratta di conseguenze non volute e che non fanno parte di un piano intelligente concepito da Pechino. Inoltre, questi effetti negativi stanno generando una forma di ritorno di fiamma, costringendo la Cina a modificare il suo approccio alla BRI.
Il presente documento presenta studi dettagliati sui casi dello Sri Lanka e della Malesia, le due vittime più citate della diplomazia della trappola del debito. In realtà, i progetti più controversi in questi Stati non sono stati avviati dalla Cina, ma dai governi beneficiari, per perseguire i loro programmi interni. La loro sofferenza debitoria non è derivata prevalentemente dalla concessione di prestiti cinesi predatori, ma piuttosto dalla cattiva condotta delle élite locali e dei mercati finanziari dominati dall’Occidente. La Cina, inoltre, non ha beneficiato strategicamente degli sconvolgimenti di questi casi. Ha invece dovuto affrontare reazioni e spinte negative, anche se in misura minore rispetto a quanto comunemente immaginato, visti gli interessi in gioco nei Paesi beneficiari[29].
Nell’introduzione, quindi, si trovano anche le conclusioni.
In corso d’opera, gli autori sottolineano come “le interpretazioni che enfatizzano gli aspetti strategici geopolitici della BRI sono dominanti perché è più facile vedere il progetto come parte di una più ampia narrazione sul declino del potere occidentale e sull’ascesa della Cina, piuttosto che esaminare i suoi più complessi fattori economici. Sebbene il presidente Xi Jinping punti chiaramente a segnalare lo status di grande potenza della Cina attraverso la BRI, il piano rimane principalmente finalizzato ad affrontare le profonde crisi dell’economia cinese. Il Governo cinese ha lanciato la BRI principalmente per contribuire ad affrontare questi problemi sistemici sbloccando la domanda estera per l’industria, i progetti di costruzione e i prestiti cinesi; informano, inoltre, il lettore che il sistema cinese di finanziamento allo sviluppo è sempre stato guidato dai beneficiari, con progetti avviati formalmente attraverso richieste di governi stranieri. Pechino sottolinea spesso questo aspetto per distinguere l’assistenza allo sviluppo cinese da quella fornita dai donatori tradizionali. Di conseguenza, dobbiamo considerare la capacità dei beneficiari di plasmare la BRI, che viene trascurata – o implicitamente negata – nei resoconti semplicistici della diplomazia della trappola del debito”[30].
Come sottolineato in altri passaggi, il coinvolgimento del Paese che contrae il debito con Pechino è un aspetto cruciale per capire come uno dei pilastri della narrazione occidentale che vuole un’imposizione forzata da parte cinese di questi prestiti a Paesi già in difficoltà economica al fine di impossessarsi di asset strategici, in realtà, si sgretoli sotto il peso dei fatti: “Anche se la Cina disponesse di un piano generale di connettività globale, specificando tutti i progetti che desidera costruire per portare avanti la sua grande strategia geopolitica, non potrebbe costringere le altre nazioni ad accettare progetti sul loro territorio. I destinatari devono accettare di permettere alle imprese a conduzione statale cinesi di intraprendere i progetti, garantire le loro operazioni e concordare i prestiti che finanziano il loro lavoro.
L’interesse di altri governi a partecipare alla BRI può essere determinato dalla necessità, dall’avidità o da una combinazione di questi fattori. I Paesi in via di sviluppo hanno urgente bisogno di sviluppare le infrastrutture per generare crescita economica e migliorare gli standard di vita, che a loro volta le élite al potere devono spesso garantire per evitare disordini sociali e mantenere la legittimità interna. La Banca Mondiale stima che entro il 2040 siano necessari 97.000 miliardi di dollari di investimenti infrastrutturali in tutto il mondo, con un deficit previsto di 18.000 miliardi di dollari (Heathcote, 2017). La BRI cinese risponde quindi a un’esigenza reale, trascurata per decenni dalle agenzie di sviluppo occidentali e multilaterali a favore di programmi di buon governo”[31].
Dopo aver analizzato a fondo i casi di Sri Lanka e Malaysia, gli autori del paper giungono a questa conclusione: “i resoconti mainstream dipingono la BRI cinese come una forma predatoria di statecraft economico, che cerca di intrappolare i Paesi poveri per fini geopolitici. Il presente documento ha dimostrato che la BRI è, in realtà, motivata in gran parte da fattori economici. Ha inoltre dimostrato che il sistema di finanziamento internazionale dello sviluppo della Cina, frammentato e scarsamente coordinato, non è orientato alla promozione di obiettivi geopolitici coerenti. Inoltre, i Paesi beneficiari (come lo Sri Lanka e la Malesia) non sono vittime sfortunate, ma plasmano attivamente i risultati del sistema cinese di finanziamento allo sviluppo. Di conseguenza, la BRI non segue un piano dall’alto verso il basso, ma emerge in modo frammentario, attraverso diverse interazioni bilaterali, con risultati modellati da interessi, agende e problemi di governance da entrambe le parti. Cosa comporta questo per i politici e gli attori della società civile interessati alla BRI”?
Per rispondere a questo quesito, spostiamo, per un attimo l’attenzione sull’Africa – continente che verrà messo al centro della trattazione in due successivi articoli – area che, in passato, è stata alla mercé della potenza imperialista occidentale e delle sue brutali istituzioni monetarie. Ma questo scenario sta cambiando perché il continente africano ha improvvisamente trovato un’alternativa: la Cina. Le nazioni africane si sono liberate, realizzando il loro potenziale nascosto; tutto questo grazie alla BRI. La BRI non riguarda solo l’economia, le infrastrutture e lo sviluppo, ma anche la cultura, la salute, la conoscenza e il benessere delle persone. Mira a mettere in contatto individui di razze, vite, filosofie e credenze diverse. E i leader occidentali sono infastiditi.
“Non c’è nulla che confini l’Occidente più della prospettiva di perdere il controllo assoluto sul globo. Per l’Occidente non si tratta (e non si è mai trattato) di migliorare il benessere di centinaia di milioni di poveri. L’Occidente ha avuto per secoli il controllo totale del mondo e non ha fatto altro che arricchirsi rubando in ogni angolo del pianeta, soprattutto in Africa.
L’Occidente ritiene che si tratti di vincere o perdere e di mantenere le sue colonie e le sue nazioni clienti, con ogni mezzo. Per la Cina (attraverso la BRI) si tratta di prosperità condivisa. La forte convinzione della Cina è stata e sarà sempre quella di costruire un’Africa migliore e un mondo migliore; se l’economia globale va bene e produce frutti, anche la Cina prospererà. La Cina non costruisce la sua prosperità sul saccheggio, come ha fatto l’Occidente per molti decenni. I titoli dei giornali occidentali potrebbero affermare che la BRI non è perfetta e parlare continuamente di trappola del debito, ma su scala mondiale, la BRI è il meglio che il mondo abbia attualmente”[32].
Inoltre, un’analisi critica del modus operandi dei creditori occidentali rivela che essi non hanno mai desiderato vedere l’Africa liberata; ecco perché, per l’Occidente, è un disastro quando la Cina offre assistenza reciprocamente vantaggiosa ai Paesi africani, perché tale assistenza finirà per rendere i Paesi africani più autosufficienti, il che è direttamente contrario alle aspirazioni egemoniche di alcuni Paesi occidentali. Questo spiega in gran parte perché i commentatori occidentali hanno coniato frasi spaventose, come “trappola del debito” e “diplomazia del debito”, per spaventare i Paesi africani e indurli ad abbandonare le relazioni con Pechino. In realtà, i Paesi occidentali temono che, grazie alla cooperazione win-win sino-africana, la Cina stia conquistando i cuori dei Paesi africani, essenzialmente perché Pechino rispetta i Paesi africani ed è felice quando tutti prosperano. D’altra parte, le relazioni di Washington con i Paesi africani si basano sul desiderio di Washington di imporre ai suoi partner africani come gestire i loro affari.
In altre parole, “in politica estera, gli Stati Uniti cercano di esercitare apertamente la loro egemonia sui Paesi africani. È quindi chiaro che gli Stati Uniti non hanno mai cercato di stabilire una partnership con un altro Paese se questa partnership mina la presa totale degli Stati Uniti su quel Paese. Per l’Occidente, vedere la Cina che costruisce la capacità dei Paesi africani di porre fine alla loro dipendenza è una tragedia. È ciò che John Mearsheimer chiama la tragedia della politica delle grandi potenze. Pertanto, mentre gli Stati Uniti e i loro alleati bollano il partenariato Cina-Africa come una trappola del debito o una diplomazia del debito, i Paesi africani dovrebbero sapere che, nel contesto dello sviluppo sostenibile, gli Stati Uniti non sono e non saranno mai il partner migliore”[33].
Con l’intenzione di riassumere questa dissertazione sul mito della trappola del debito cinese, riportiamo, allora, l’intervento del professor di economica politica Bhabani Shankar Nayak dell’Università di Glasgow (Scozia), il quale afferma in un suo contributo dall’eloquente titolo Chinese ‘Debt Trap’ narratives are myth making propaganda manufactured in West che “gli ideologi reazionari e capitalisti, i loro mass media, scrittori, giornalisti, consulenti, think tank, leader e le loro macchine di propaganda sono impegnati in una campagna incessante per diffamare, delegittimare e sminuire i risultati cinesi. L’idea centrale di questa consorteria di propaganda anticinese è quella di minare il modello di sviluppo alternativo perseguito dalla Cina.
L’impegno economico e politico cinese in Asia, Africa e America Latina sta mettendo in discussione il modello di sviluppo basato sulla dipendenza dal debito e mette in discussione le fondamenta stesse della trappola del debito occidentale, progettata per sfruttare le risorse naturali dei Paesi in via di sviluppo. Il debito è uno strumento politico ed economico dei Paesi occidentali per controllare la politica e i sistemi economici dei Paesi in via di sviluppo e continuare l’egemonia capitalista. La Cina è una minaccia per questo ordine mondiale. Le campagne sull’autoritarismo cinese e sulla trappola del debito cinese sono propaganda ideologica basata su miti. Queste campagne non hanno alcun fondamento. La falsità è una norma per la sopravvivenza dell’egemonia occidentale sulle persone e sul pianeta.
La narrazione della trappola del debito cinese è una propaganda che crea miti. L’idea della diplomazia della trappola del debito è quella di minare Pechino e le sue relazioni con i Paesi in via di sviluppo. In realtà, la Cina fornisce tre diversi tipi di prestiti: i) prestiti senza interessi, ii) prestiti a lungo termine per le infrastrutture con interessi minimi e iii) prestiti commerciali. La Cina consente persino di ristrutturare i termini dei prestiti esistenti in base alle mutevoli condizioni economiche dei Paesi mutuatari. La Cina non si è mai accaparrata i beni dei Paesi che hanno preso in prestito dalla Cina. Le acquisizioni, gli investimenti e le integrazioni sono strategie commerciali occidentali nel commercio internazionale, ma la Cina persegue queste strategie con una differenza quando si tratta di modelli e politiche di prestito per i Paesi in via di sviluppo.
La Cina è uno dei maggiori creditori ufficiali con una presenza globale, ma non pone mai condizioni di aggiustamento strutturale, cambiamento delle leggi sul lavoro o liberalizzazione e privatizzazione dei loro sistemi economici durante i prestiti. La macchina propagandistica occidentale non manca mai di dipingere l’integrazione e le acquisizioni come dominio cinese e trappola del debito. L’impegno economico cinese con i Paesi in via di sviluppo sfida fondamentalmente l’egemonia occidentale. Pertanto, Pechino viene bollata come un diavolo autoritario che intende colonizzare e dominare il mondo. Non c’è un briciolo di verità in tutto questo, ma gli ideologi occidentali guardano sè stessi nella prigione dei loro stessi occhi. Il passato coloniale è uno specchio, dove i colonizzatori giocano la carta del vittimismo per nascondere il loro passato.
Le sfide economiche e politiche che i Paesi asiatici, africani e latinoamericani devono affrontare oggi sono il prodotto del loro passato coloniale e del loro presente neo-coloniale dominato dagli Stati Uniti e dall’Europa occidentale. La Cina sta fornendo prestiti per lo sviluppo delle infrastrutture, grazie ai quali i Paesi in via di sviluppo possono uscire dalla dipendenza occidentale e mobilitare le proprie risorse naturali.
I Paesi africani, asiatici e latino-americani non hanno attualmente un debito cinese consistente. In effetti, la quota del debito cinese rispetto al rapporto debito totale/PIL è minima. È quindi giunto il momento di sfatare le narrazioni infondate e la propaganda sulla trappola diplomatica del debito cinese. L’espansione dell’impegno economico e politico cinese con i Paesi in via di sviluppo contribuisce a ridurre la loro dipendenza dal capitale occidentale, il che mette a disagio le potenze occidentali che continuano a diffondere menzogne contro la Cina. Si tratta di una strategia diversiva dei leader occidentali per nascondere i propri fallimenti politici ed economici. Scaricare falsamente tutte le colpe sulla Cina non servirà a nascondere i fallimenti del capitalismo e della cosiddetta democrazia occidentale. L’approfondimento della democrazia dipende da un’economia mondiale libera dal debito. Può essere facilitato da politiche di unità, pace, solidarietà e prosperità condivisa. L’economia e la politica cinese basate su pace, cooperazione, sviluppo e socialismo sono i quattro pilastri dell’alternativa cinese che il mondo deve perseguire.
Il dominio occidentale basato sul debito e sul capitalismo non è un’alternativa economica o politica. Ha fallito in diverse fasi della storia. Il mondo non ha bisogno di un ordine mondiale unipolare, bipolare e multipolare guidato da Stati Uniti, Cina, Francia, Gran Bretagna, Germania, Russia e India. La politica mondiale deve concentrarsi sulle persone, sulla pace e sul pianeta, sulla base dei valori egualitari di libertà, giustizia, fraternità e diritti di cittadinanza. Un ordine mondiale incentrato sulle persone e sul pianeta è la richiesta del giorno per un domani sostenibile.
[…] Con l’implementazione della BRI in alcune nazioni dell’Africa orientale, la Cina sta cercando di mostrare a queste nazioni la strada verso la prosperità e questo dimostra quanto la Cina rispetti il valore dell’amicizia con le nazioni dell’Africa orientale. Per questo motivo, le nazioni dell’Africa orientale stanno intensificando il loro impegno con i cinesi nell’ambito della BRI non perché questo cambi il loro bilancio, prosciugando le loro finanze, cosa che l’Occidente pensa possa portare a una trappola del debito, ma per i benefici economici che porta loro come risultato di redditività e accessibilità. Di conseguenza, per la prima volta, i Governi dell’Africa orientale sono stati in grado di trasformare il vantaggio delle risorse della regione in un vantaggio di sviluppo[34].
È questo uno dei motivi che hanno portato la Belt and Road Initiative a diventare una delle più significative piattaforme di cooperazione internazionale cui hanno aderito 150 Paesi e 30 organizzazioni internazionali e la Repubblica Popolare Cinese come partner affidabile per quel continente africano che sarà al centro dei prossimi articoli di questo focus.
NOTE AL TESTO
[1] Per chi volesse approfondire l’argomento, rimandiamo alla lettura di Anna Caffarena, La Trappola di Tucidide e altre immagini, Il Mulino, Bologna.
[2] Full text of “Die Zeit ohne Beispiel” (archive.org).
[3] Uno degli ultimi casi da annoverare in questa lista è la gestione della crisi della Grecia. L’ex premier italiano Mario Monti parlò de il più grande successo dell’Euro ma il programma di restituzione dei prestiti e gestione del debito contratto dal Paese con l’estero da parte della Troika non fu altro che un caso sottaciuto di trappola del debito.
[4]A Brief History of Neoliberalism | Oxford Academic (oup.com).
[5] Debunking Western Narrative of Sri Lanka’s Economic Crisis – China Focus (cnfocus.com).
[6]FilipSebok, China as narrative challenge for NATO member states, NATO Strategic Communication.
Cfr. Congress Proposes $500 Million for Negative News Coverage of China – The American Prospect.
[7]Melissa Harrison, Geopolitical Strategists fabricated BRI “debt-trap diplomacy” narrative in Australian alert Service, vol. 24, n. 19, 11 maggio 2022 (articolo consultabile al seguente indirizzo web debt-trap-diplomacy.pdf (citizensparty.org.au).
[8] Zhang Weiwei: la BRI è costruita sui concetti socialisti di discutere insieme, costruire insieme e trarre beneficio insieme – OP-ED – L’Antidiplomatico (lantidiplomatico.it).
[9] Gen. Kenneth S. Wilsbach, The malign influence of the People’s Republic of China in International Affairs in Journal of Indo-Pacific Affairs, vol. 4, num. 3, pp. 3 – 6 consultabile al seguente indirizzo web: Journal of Indo-Pacific Affairs Volume 4, No. 1 Spring 2021 (defense.gov).
[10] China’s Debt-Trap Diplomacy by Brahma Chellaney – Project Syndicate (project-syndicate.org). L’articolo fu pubblicato in partneship con l’Australian Strategic Policy Institute (ASPI) istituzione australiana che recentemente si è molto impegnata nel produrre dossier di accusa nei confronti di Pechino sulla questione uigura, prodigandosi in una mappatura dei presunti campi di prigionia sparsi nello Xinjiang.
[11]Ibidem.
[12] Ibidem.
[13] La trappola del debito” cinese esiste veramente? – Orizzonti Politici. Per un’analisi specifica sul tema, rimandiamo a Umesh Moramudali e Thilina Panduwawala, Evolution of Chinese Lending to Sri Lanka Since the mid-2000s – Separating Myth from Reality, John Hopkins School of Advanced International Studies, consultabile e scaricabile al seguente indirizzo Briefing+Paper+-+Sri+Lanka+Debt+-+V5.pdf (squarespace.com).
[14] Cosa insegna lo Sri Lanka (alla fame) al resto del mondo sulla Cina e il «bio»– Corriere.it.
[15] Remarks by Vice President Pence on the administrazion’s policy toward China, consultabile al seguente indirizzoRemarks by Vice President Pence on the Administration’s Policy Toward China – The White House (archives.gov).
[16] Remarks by National Security Advisor Ambassador John R. Bolton on the The Trump Administration’s New Africa Strategy – The White House (archives.gov).
[17] I Paesi indicati sono Sri Lanka, Pakistan, Malesia, Myanmar, Thailandia, Gibuti, Kenya, Laos, Cambogia, Filippine, Tonga, Vanuatu, Papua Nuova Guinea, Freely Associated States (Palau, Isole Marshall, Stati Federati della Micronesia).
[18] Sam Parker e Gabrielle Chefitz, Debtbook Diplomacy: China’s strategic leverage of its newfound economic influence and the conseguences for US foreign policy, Belfer Center for Science and Internazional Affairs, p. 3.
[19] Ibidem, p. 11.
[20] Ibidem, pp. 11 – 12.
[21] Ibidem, p. 11.
[22] Melissa Harrison, op. cit.
[23] Colloquio privato con Sylvain Takoué.
[24] Infatti, nell’agosto del 2022, il Governo cinese ha annunciato che stava condonando 23 prestiti senza interessi in 17 Paesi africani. In precedenza, tra il 2000 e il 2019, la Cina aveva anche ristrutturato un totale di 15 miliardi di dollari di debito e condonato 3,4 miliardi di dollari di prestiti concessi ai Paesi africani.
[25] Kevin Acker, Deborah Brautigam e Yufan Huang, Debt relief With Chinese Characteristics, Working Paper n. 2020/39, China-Africa Research Initiative, School of Advanced International Studies, John Hopkins University. (scaricabile al seguente indirizzo Debt Relief with Chinese Characteristics by Kevin Acker, Deborah Brautigam, Yufan Huang :: SSRN )
[26] There Is No Chinese ‘Debt Trap’ – The Atlantic.
Nell’articolo si spiega bene la vicenda del porto di Hambantota, Sri Lanka, uno dei miti legati a quello della trappola del debito. Essendo l’articolo in questione non di libero accesso, per informare il lettore ci appoggiamo al commento di CGTN all’articolo di The Atlantic che riporta come “uno di questi miti è che un’azienda cinese abbia spinto lo Sri Lanka a contrarre un prestito per la costruzione del porto di Hambantota e che alla fine un’azienda cinese abbia rilevato il porto quando lo Sri Lanka non ha pagato il debito. Tuttavia, gli studiosi hanno scoperto che si tratta di una menzogna. Secondo il documento di ricerca, circa due decenni fa, una società canadese e poi una danese hanno esplorato la fattibilità della costruzione del porto di Hambantota, una città nella punta meridionale dello Sri Lanka. Per una serie di motivi non sono andati avanti. Poi il Governo dello Sri Lanka si è rivolto agli Stati Uniti e all’India con il progetto di costruire un porto lì, ma entrambi hanno rifiutato. Nel frattempo, il China Harbor Group ha appreso dell’interesse del Governo dello Sri Lanka e si è aggiudicato l’appalto, sostenuto dalla China Exim Bank. L’onere del debito dello Sri Lanka è salito alle stelle da quando il Governo ha intrapreso un’iniziativa finanziata dal debito per costruire e migliorare le infrastrutture del Paese dopo la fine della guerra civile nel 2009. Secondo The Atlantic, dei 4,5 miliardi di dollari di servizio del debito che lo Sri Lanka pagherà nel 2017, solo il cinque per cento è dovuto ad Hambantota, e i governatori delle banche centrali sia sotto Rajapaksa che sotto Sirisena hanno affermato che “Hambantota, e la finanza cinese in generale, non è la fonte delle difficoltà finanziarie del Paese”. The Atlantic: Chinese ‘debt trap’ is a myth – CGTN.
[27] Lee Jones e Shahar Hameiri, Debunking the Myth of “debt-trap diplomacy. How recipient countries shape China’s Belt and Road Initiative, Chatham House 1. Introduction | Chatham House – International Affairs Think Tank.
[28] Sull’argomento è interessante leggere un report prodotto da Daniel r. Russell e Blake H. Berger nel settembre del 2020 per l’Asia Society Policy Institute dal titolo Weaponizing the Belt and Road Initiative.
[29] Lee Jones e Shahar Hameiri, op. cit., pp. 3-4.
[30] Ibidem, p. 5.
[31] Ibidem, p10.
[32] Mitchell Omoruyi, BRI offers development and NOT Debt Trap, Modern Concept and Developments in Agronomy, vol. 4, num. 4, 2019, p. 463.
[33] China-Africa cooperation is a win-win partnership: Debt Trap talk is Western propaganda | Development Watch Centre (dwcug.org).
[34] Chinese ‘Debt Trap’ narratives are myth making propaganda manufactured in West (counterview.in).
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