di Melvin Goodman
“Ma se dobbiamo usare la forza, è perché siamo l’America, siamo la nazione indispensabile. Siamo alti e vediamo più lontano di altri Paesi nel futuro, e vediamo il pericolo per tutti noi. La memoria della nostra nazione è lunga e la nostra portata è lontana”.
Segretario di Stato Madeleine Albright, 1998.
“Siamo la nazione indispensabile. La leadership americana è ciò che tiene insieme il mondo”.
Presidente Joe Biden, 2023.
“Gli Stati Uniti sono ancora… la ‘nazione indispensabile’ in Medio Oriente”.
David Ignatius, editorialista del Washington Post, 2024.
Non c’è miglior indicatore dichiarativo dell’arroganza e della presunzione americana del titolo autoproclamato di “nazione indispensabile“.
Gli opinionisti e i critici liberali ritengono che il concetto di nazione indispensabile abbia avuto origine nel periodo successivo alla Guerra Fredda, dopo il crollo dell’Unione Sovietica avvenuto nel 1991. In realtà, le origini ideologiche della nazione indispensabile erano “presenti alla creazione“, se posso prendere in prestito il titolo di un’incisiva memoria del Segretario di Stato, Dean Acheson.
Nel 1789, l’idea della posizione internazionale unica degli Stati Uniti faceva già parte del dibattito tra i Padri fondatori che si interrogavano sul ruolo globale americano.
Gli opinionisti e i critici liberali sostengono che l'”internazionalismo” degli Stati Uniti sia un fenomeno unico della diplomazia del XX secolo, ma le nostre nozioni di libero commercio e democrazia liberale erano già presenti all’inizio. Nella loro discussione sull'”internazionalismo”, gli stessi analisti citano gli ex presidenti Woodrow Wilson, Franklin Roosevelt e Harry Truman.
Ma John Quincy Adams, sostenendo che l’America “non va all’estero in cerca di mostri da distruggere“, vedeva gli Stati Uniti come una minaccia per i regimi autocratici europei. Adams aggiunse che “l’influenza del nostro esempio” li avrebbe “rovesciati tutti senza una sola eccezione”.
Il successo della guerra rivoluzionaria ha creato, così, un senso di nazionalismo e internazionalismo americano che si è manifestato nelle guerre del XIX secolo contro la Gran Bretagna (1812), il Messico (1846) e la Spagna (1898).
La Costituzione ha poco da dire su guerra, pace e diplomazia:
- l’articolo I concede al Congresso il potere di dichiarare la guerra;
- l’articolo II concede al Presidente il potere di fungere da comandante in capo.
Ma i Padri fondatori accettarono il dettame di George Washington: “Se desiderate la pace, preparatevi alla guerra”. Già nel 1783, Alexander Hamilton chiese la stesura della prima strategia di sicurezza nazionale.
L’idea di David Ignatius, editorialista del Washington Post, che gli Stati Uniti siano la “nazione indispensabile” in Medio Oriente è particolarmente ingenua; in realtà, il Medio Oriente è il nostro terreno di coltura. Non abbiamo alcuna influenza su Israele, la superpotenza della regione; non siamo stati in grado – forse non lo vogliamo – di ridurre la miseria patita da palestinesi innocenti a Gaza e in Cisgiordania; e non siamo stati in grado di dissuadere gli attori regionali dall’usare la forza nonostante la nostra presenza militare.
Gli Stati Uniti e Israele sono totalmente in disaccordo sullo scenario postbellico, sull’idea di una soluzione a due Stati, sul ruolo dell’Autorità Palestinese a Gaza e sul ruolo degli Stati arabi nella ricostruzione di Gaza.
Il discorso del Presidente Biden nel 100° giorno della guerra di Gaza non ha fatto alcun cenno agli oltre 24.000 palestinesi uccisi nella guerra, soprattutto donne e bambini.
Visti i dispiegamenti navali nella regione, la decisione di Biden di estendere la guerra al Mar Rosso era prevedibile, ma è improbabile che abbia un impatto favorevole (per gli Stati Uniti, ndt) sulle azioni e sulle politiche dello Yemen e degli Houthi. Gli attacchi statunitensi e britannici potrebbero, tuttavia, portare a una guerra più ampia, che coinvolga anche Hezbollah al confine settentrionale di Israele.
Il 16 gennaio, le Guardie rivoluzionarie iraniane hanno lanciato missili contro una struttura di intelligence israeliana operante nella regione del Kurdistan iracheno, non lontano dal consolato statunitense.
È probabile anche un aumento del terrorismo nella regione.
Se c’è un fattore indispensabile in questo ambiente internazionale in rapida evoluzione, è la necessità dell’azione diplomatica e la cooperazione globale. Le principali sfide internazionali riguardano la stabilità strategica, la proliferazione di armi convenzionali, il terrorismo internazionale e il cambiamento climatico. Non esistono singole nazioni indispensabili in queste difficili sfide geopolitiche.
Abbiamo bisogno di un’abile diplomazia statunitense e dobbiamo smettere di ricorrere a bromuri controproducenti come quello della “nazione indispensabile“.
L’ironia della sorte vuole che una nazione così sicura – situazione frutto dell’avere ai confini Stati amichevoli sia a nord che a sud e protetta dagli Oceani a est e a ovest – sia diventata così insicura.
La complicità degli Stati Uniti con i crimini di guerra israeliani comprometterà la loro influenza in altre situazioni internazionali e le prove schiaccianti del genocidio israeliano creeranno ulteriori problemi. Gli Stati Uniti non saranno aiutati dai commenti del Presidente Biden, del Segretario di Stato Blinken e del portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale John Kirby, che hanno tutti liquidato le accuse di genocidio come “prive di merito“.
L’amministrazione Biden vuole che la Russia segua i principi del diritto internazionale in Ucraina, ma non ha il coraggio di convincere Israele a fare lo stesso a Gaza.
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