L’Australia nega il riconoscimento alle popolazioni indigene

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di Giulio Chinappi

Con un referendum tenutosi lo scorso 14 ottobre, l’Australia ha respinto il riconoscimento ufficiale degli aborigeni e degli indigeni dello Stretto di Torres, dimostrando come gran parte dell’elettorato del Paese si attesti su posizioni conservatrici, se non reazionarie.

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Il 14 ottobre ha avuto luogo in Australia un referendum che proponeva il il riconoscimento ufficiale degli aborigeni e degli indigeni dello Stretto di Torres, promuovendo anche l’istituzione di un organismo, noto come The Voice (abbreviazione per Aboriginal and Torres Strait Islander Voice) volto a rappresentare queste popolazioni presso il parlamento federale di Canberra. Nonostante la proposta abbia ricevuto il sostegno di molte forze politiche, compreso l’Australian Labor Party attualmente al governo con il primo ministro Anthony Albanese, il 60,06% degli elettori ha respinto il referendum, negando dunque il riconoscimento alle popolazioni indigene.

Tra i partiti che hanno sostenuto il referendum figura anche la Socialist Alliance, considerabile come il principale partito della sinistra radicale in Australia, all’interno del quale sono presenti anche forti componenti marxiste. Pur sostenendo il “Sì” al referendum, la Socialist Alliance ha comunque criticato entrambe le posizioni maggioritarie, accusando i laburisti di vendere l’approvazione del provvedimento come la soluzione a tutti i problemi delle popolazioni indigene. Secondo i socialisti australiani, infatti, l’eventuale vittoria del “Sì” avrebbe rappresentato unicamente un piccolo passo in avanti nel riconoscimento dei pieni diritti dei popoli indigeni, mentre la campagna del “No” si basava principalmente sui sentimenti razzisti dell’elettorato di destra.

La Socialist Alliance riconosce le preoccupazioni di molti attivisti militanti delle Prime Nazioni che The Voice sarà un altro organo consultivo impotente che potrebbe effettivamente bloccare il cambiamento, e che il referendum serve in parte come distrazione per assolvere il governo dai suoi continui crimini contro i popoli delle Prime Nazioni”, si legge in una risoluzione approvata dal partito alla vigilia del voto referendario. Per questo motivo, la Socialist Alliance si impegna “a dare voce alle richieste degli attivisti militanti delle Prime Nazioni per cambiamenti reali per promuovere la giustizia e la sovranità delle Prime Nazioni” anche dopo il referendum.

Il risultato negativo del referendum dimostra come gran parte della popolazione australiana, soprattutto quella di etnia caucasica e di età più avanzata, continui sostanzialmente ad attestarsi su posizioni conservatrici, se non apertamente reazionarie. Al contrario, il riconoscimento delle popolazioni indigene ha incontrato maggiori sostenitori tra i giovani. La sconfitta della proposta di istituire The Voice, poi, ha negato a queste popolazioni quello che sarebbe stato un passo in avanti, seppur modesto.

Gli atteggiamenti nei confronti della nostra storia stanno cambiando, in particolare tra i giovani che riconoscono che l’Australia è stata fondata sull’espropriazione violenta; questo fatto continua a plasmare la vita degli indigeni oggi ed è assurdo e immorale fingere il contrario”, ha scritto in un articolo Sam Wainwright, uno dei leader nazionali della Socialist Alliance. “Per molte persone sui vent’anni, questa è la questione morale del nostro tempo, così come lo fu la guerra in Vietnam per la generazione dei loro nonni”.

Negli ultimi anni, sempre più manifestazioni di protesta si sono tenute in occasione dell’Australia Day, la festa nazionale che ricorda lo sbarco della First Fleet nella baia di Sydney, avvenuto il 26 gennaio del 1788. L’Australia Day è stato anche ribattezzato Invasion Day, a simboleggiare come quella giornata non dovrebbe essere considerata come una festa, ma come un momento per ricordare i crimini dei colonizzatori e le vittime che ne hanno sofferto le conseguenze. Queste istanze, come detto, hanno raccolto il sostegno di una parte della popolazione civile, di alcuni partiti, come i laburisti, e persino di molte aziende, tutti però intenzionati a garantire un cambiamento unicamente simbolico per evitare di affrontare le questioni fondamentali.

Certamente non vogliono un dibattito sulla sovranità o su un trattato che porti a veri diritti fondiari, o qualsiasi altra cosa che possa minacciare la libertà di azione delle compagnie minerarie”, ha scritto Wainwright, riferendosi al fatto che alle popolazioni indigene dovrebbe essere riconosciuto il diritto di proprietà sulle loro terre, il che naturalmente andrebbe a ledere gli interessi delle multinazionali che ne sfruttano le risorse. “Da parte sua, il governo laburista Anthony Albanese ha un disperato bisogno di una riforma storica per evidenziare le sue credenziali progressiste, ma che in realtà non minacci i profitti aziendali. Tanto più che deve distrarci dalla sua dolorosa risposta all’emergenza climatica, dai miliardi da sperperare nel patto di sicurezza Australia-Gran Bretagna-Stati Uniti (AUKUS) e dal suo rifiuto di affrontare la crisi dell’accessibilità degli alloggi”.

La tattica del Partito Laburista ha portato lo stesso movimento delle popolazioni indigene a spaccarsi, con una piccola ma importante minoranza di attivisti militanti aborigeni che hanno rifiutato The Voice, considerandolo come uno specchietto per le allodole volto a coprire le mancanze del governo federale. Alla fine, ad uscire sconfitti al referendum sono sia le popolazioni indigene che il governo laburista di Albanese, mentre a fregarsi le mani è il leader dell’opposizione Peter Dutton, leader dell’opposizione e del Liberal Party of Australia, che ha fatto appello agli istinti più beceri del suo elettorato nella campagna per il “No”.

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