L’America Latina e i rapporti con la Cina: verso l’espansione della BRI

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Dopo la conclusione delle guerre d’indipendenza dalla corona spagnola, l’America Latina è divenuta una regione che ha risentito notevolmente dell’influenza esercita da Washington. Le politiche degli Stati Uniti attuate nei confronti dell’America Latina – guidata dai principi della Dottrina Monroe – hanno sempre, di fatto, considerato questa regione del mondo come una zona ricca di opportunità per promuovere i propri interessi e consolidare, così, la propria influenza in quella zona definita America’s backyard, il “giardino di casa” degli Stati Uniti.

Questo articolo fa parte del focus L’America latina nel mondo multipolare

Originariamente formulata come una politica difensiva, la Dottrina Monroe, intendeva proteggere i territori dell’America che avevano recentemente ottenuto l’indipendenza dalla supremazia europea; tale dottrina si basava sul concetto di neutralità e non interferenza statunitense – mantenuta fino ad allora – negli affari interni degli Stati europei, e, così, allo stesso modo, gli Stati Uniti non avrebbero permesso interventi negli affari del continente americano.

Qualsiasi azione intrapresa da una potenza europea contro i governi stabiliti in America sarebbe stata considerata ostile nei confronti degli Stati Uniti stessi (Perkins,1963).

L’America agli americani” con queste parole il presidente degli Stati Uniti Monroe nel 1823 promuoveva e sosteneva i movimenti per l’indipendenza dall’influenza europea, ai tempi ancora in gran parte presente su tutto il territorio latino americano.

Se la dottrina Monroe e il sostegno statunitense alla causa dell’indipendenza dei paesi della regione latino americana furono inizialmente accolti con favore e apprezzati anche dai diversi “libertadores” dell’America Latina, tra cui per esempio Simon Bolivar, tuttavia, nel corso dell’Ottocento, i principi originali della dottrina subirono diverse trasformazioni e all’inizio del Novecento, con l’avvento degli Stati Uniti sulla scena internazionale come nuova potenza industriale e mondiale fece sì che la Dottrina Monroe divenne il mezzo giustificatore per realizzare le nuove ambizioni imperialiste statunitensi sul territorio latino americano.

Questa prospettiva è stata ulteriormente rafforzata durante il periodo della Guerra Fredda in quanto, l’instaurazione di un ordine internazionale bipolare basato sulla competizione tra i sistemi politico-economici degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica, ha costretto gli statunitensi ad intraprendere numerosi interventi in America Latina con il fine di impedire la diffusione dell’influenza sovietica e dell’ideologia comunista in una regione che Washington considerava sotto la sua più completa disponibilità; questi interventi sono noti alla grande maggioranza del pubblico mondiale: si passa dall’Operazione Condor, per esempio, volta a creare una cooperazione a sostegno delle dittature latino americano nella repressione di oppositori politici alle sanzioni economiche contro Cuba, oltre a varie operazioni condotte dalla CIA in Colombia e in America centrale per contrastare gruppi di narcotrafficanti e movimenti di guerriglia.

Le motivazioni e le paure “politiche” – diffusione del comunismo – soggiacevano, in realtà, il fatto che gli Stati Uniti avevano chiari e predominanti interessi economici nella regione; favorevole ai loro obiettivi di espansione neoimperialista poiché consentiva loro di trarre notevoli benefici dalle ricchezze naturali dell’America Latina, la linea politica era orientata all’estrazione delle risorse naturali della regione con una prospettiva orientata allo sfruttamento agevolata dall’aver stabilito con i Governi latinoamericani relazioni commerciali sbilanciate e sfavorevoli per le popolazioni locali. Ad esempio fu il caso delle “Repúblicas Bananeras” una serie di nazioni dell’America Centrale in cui le grandi multinazionali statunitensi, in particolare la United Fruit Company, traevano vantaggio dall’estrazione di risorse e dallo sfruttamento dei prodotti primari e agricoli, ricambiando la popolazione locale con compensi inadeguati e condizioni di lavoro estremamente svantaggiose.

Fino agli anni 2000, gli Stati Uniti mantenevano così una posizione predominante come principale partner economico dell’America Latina. Tuttavia, anche per fallimenti dell’esperienza di numerosi governi neoliberali, la configurazione politica della regione ha iniziato a mutare già all’inizio del XXI secolo. Questo periodo è spesso descritto come un “giro a la izquierda” ed è stato caratterizzato dall’ascesa di vari governi di orientamento di sinistra che hanno respinto le politiche neoliberali e capitalistiche, abbracciando invece un modello di ispirazione socialista; tra questi, ricordiamo l’Ecuador di Rafael Correa, il Venezuela di Hugo Chávez, la Bolivia di Evo Morales e il Nicaragua di Daniel Ortega. Allo stesso tempo, ci sono stati governi più progressisti, meno populisti, come il Brasile di Luiz inácio Lula, l’Argentina di Néstor Kirchner, il Cile Ricardo Lagos e Michelle Bachelet ed infine  il Perù di Alejandro Toledo. Va qui, però, sottolineata la diversità delle esperienze tra questi Governi, alcuni dei quali hanno rispettato i limiti costituzionali e il sistema democratico, mentre altri hanno assunto caratteristiche più simili a governi nazional-popolari, muovendosi più liberamente tra i limiti imposti dalle Carte costituzionali.

Questi cambiamenti hanno avuto un impatto significativo sulle relazioni tra l’America Latina e gli Stati Uniti: molti Governi, infatti, soprattutto quelli più intransigenti, hanno adottato politiche anti-imperialiste statunitensi e anticapitaliste, mentre anche i Governi moderati hanno cercato di limitare l’egemonia statunitense nella regione, cercando una maggiore cooperazione regionale e diversificando i loro partner economici e politici.

Alcuni dei progetti promossi volti all’integrazione regionale e alle cooperazione economica furono per esempio l’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR), la Comunità degli Stati Latino Americani e Caraibici (CELAC) o l’Alleanza Bolivariana per i popoli della nostra America (ALBA).

In particolare l’ALBA, fu un progetto di cui Cuba e Venezuela si fecero promotrici opponendosi all’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA) proposta invece dagli Stati Uniti. Il progetto tramontò proprio a causa dell’inclinazione dei paesi latino americani a promuovere un’alleanza che non fosse solo di tipo economico ma anche cooperante in altri settori e che avesse come principio fondante la promozione degli interessi latino americani.

Divenne, dunque, naturale l’esclusione degli Stati Uniti d’America da tali iniziative.

Nello specifico per esempio Morales in Bolivia creò una serie di accordi economici bilaterali  con Argentina e Brasile per prodotti energetici, ridusse la presenza Statunitense sul territorio nazionale chiudendo l’agenzia USAID e sottoscrivendo una serie di accordi commerciali con la Cina.

Anche l’Ecuador seguì la stessa linea cercando di limitare la presenza di basi militari statunitensi sul proprio territorio nazionale, riappropriandosi degli affari domestici interni legati alle politiche antidroga, creando accordi tecnologico – militari con la Russia (Mosca avrebbe garantito un rifornimento di armi russe in cambio di petrolio ecuadoriano).

In Nicaragua, invece, oltre all’attiva partecipazione alle organizzazione regionali e l’inclinazione all’antiamericanismo, rilevante fu la cooperazione economica e commerciale stipulata con la Cina e l’accordo militare stipulato con la Russia nel 2010 che permetteva alle navi da guerra russa di utilizzare i porti del Paese.

In politica estera il governo cileno e peruviano si presentarono, invece, più cauti e promotori del libero scambio cercando di differenziare i loro partner economici senza necessariamente escludere la presenza statunitense e una collaborazione con Washington.

Anche Lula e Kirchner, se pur forti promotori dell’integrazione regionale, si mossero con maggiore disinvoltura rafforzando ugualmente i loro rapporti sia con i partner occidentali – Unione Europea e Stati Uniti – che con i paesi asiatici, africani e con la Russia.

In questo periodo, per gli Stati Uniti il vero, nuovo, nemico pubblico numero uno nel continente sudamericano era rappresentato dal Venezuela di Hugo Chavez il quale iniziò a subire una serie di sanzioni economiche simili soltanto a quelle applicate a Cuba dopo la rivoluzione cubana del 1958; Cuba e Venezuela, Chavez e Castro, e quello che venne definito castrochavismo vennero dunque identificati come i principali nemici dell’ordine capitalista stabilito e del sistema democratico a guida egemonica statunitense.

L’inizio del XXI secolo ha visto ulteriori cambiamenti nella politica estera, soprattutto a causa del rapido sviluppo e ascesa internazionale della Repubblica Popolare Cinese. In poche decadi, la Cina è passata da un’isolata economia chiusa a diventare una potenza economica su scale globale e, l’espansione dell’influenza di Pechino non ha risparmiato neppure l’America Latina dove sempre maggiore presenza cinese unita all’espansione del suo soft power sono state percepite da Washington come una sfida diretta al predominio degli Stati Uniti nella regione.

La preoccupazione degli Stati Uniti riguardo alla Cina in America Latina è alimentata dalla possibilità che il Beijing Consensus, le iniziative cinesi nella regione, possano essere accolte più positivamente negli Stati in via di sviluppo rispetto ai principi su cui si fonda il Washington Consensus, messe in discussione – se non del tutto rifiutate – proprio dopo la svolta politica che ha fatto seguito alla decade neoliberista.

Il “Washington Consensus,” un termine coniato dall’economista Williamson, fa riferimento a un insieme di misure economiche condivise e promosse da istituzioni con sede a Washington, come il Fondo Monetario Internazionale (FMI), da applicare ai paesi in via di sviluppo, tra cui molti paesi dell’America Latina.

Il “Washington Consensus” è stato oggetto di forti critiche dopo la decadenza del neoliberismo in America Latina, che ha portato a una riduzione del debito pubblico dei paesi e a una crescita economica relativa, ma con costi sociali molto elevati, tra cui un aumento della povertà, della disoccupazione e dell’ineguaglianza.

D’altra parte, anche  il “Beijing Consensus” – un termine coniato da Joshua Cooper – si riferisce a un insieme di misure da applicare ai paesi in via di sviluppo ma, a differenza del “Washington Consensus,” il “Beijing Consensus” mira a creare relazioni più equilibrate con le quali promuovere il mutuo beneficio e la reciproca e comune prosperità tra Paesi. In particolare, uno dei principi fondamentali del “Beijing Consensus” è la volontà di non interferire negli affari interni dei paesi partner di Pechino.

Nonostante la narrativa occidentale a riguardo proponga un racconto del tutto negativo, l’obiettivo della Cina non è quello di competere al fine di sostituire gli Stati Uniti nel ruolo di potenza egemone, bensì, Pechino intende ricoprire un ruolo rilevante all’interno di un ordine internazionale che oggi si vorrebbe multipolare in modo da poter bilanciare e ridistribuire il potere a livello di potenze mondiali.

In particolare, la Cina ha adottato una strategia di “win-win diplomacy“, cercando di raggiungere i propri obiettivi (“core interest“) nel rispetto dell’ordine internazionale esistente, sebbene ciò spesso sfidi l’ordine stabilito.

La logica sottostante la “win win diplomacy” si contrappone a quella che informa la “zero sum diplomacy” formulata dal pensiero occidentale e che – basandosi sul concetto mutuato dalla teoria dei giochi per cui il risultato finale di una relazione debba essere nullo – consiste in una situazione in cui il beneficio di un attore dipende da uno svantaggio procurato all’altro attore.

La win win diplomacy ignora questo concetto e prevede, piuttosto, una relazione in cui si possa creare una situazione vantaggiosa per le parti coinvolte in un processo in cui cooperazione, compromesso e partecipazione di gruppo sono qualità riconosciute necessarie per portare un beneficio per tutti i partecipanti; tale concetto è radicato, inoltre, nei dettami della tradizione e nei valori culturali propri della Cina che si fondano sui principi di “pace e cooperazione” ed è in linea con quei principi di convivenza pacifica e reciproco beneficio promossi da Pechino a livello internazionale negli ultimi anni; in generale, quindi, si può sostenere che a partire dalla 18ª Assemblea Nazionale del Partito Comunista Cinese (CPC) viene ripreso il concetto di armonia della tradizione cinesi nel XXI secolo portandolo al centro dell’azione politica.

Il presidente Xi Jinping ha dichiarato che gli interessi e il destino di tutti i Paesi sono legati tra loro e il mondo è diventato, con la globalizzazione, una comunità di destini comuni in cui tutti i membri sono strettamente interconnessi. Il concetto è stato fissato nel documento politico, approvato dal Congresso Nazionale Cinese nell’ottobre del 2017, che riflette la “persistenza nella promozione della costruzione della comunità come destino dell’umanità” come componente importante nel pensiero e nella strategia del Presidente Xi Jinping da declinarsi secondo le connotazioni del socialismo e rispettando le sue caratteristiche cinesi al fine di guidare l’intera società cinese nell’impegno e nell’attuazione di quattro compiti storici per il paese: lo sviluppo costante verso la modernizzazione, il completamento dell’unificazione nel paese cinese, la protezione per ottenere pace per tutti e la promozione della crescita e dello sviluppo reciproco (Jintao, 2017).

Il presidente Xi ha dichiarato inoltre che la Cina continuerà a essere attiva nel contribuire allo sviluppo globale e promotore della cooperazione Sud-Sud seguendo una strategia di reciproco vantaggio nell’apertura e adempiendo ai suoi impegni internazionali. La Cina condividerà le sue esperienze e opportunità di sviluppo con altri Paesi, mentre migliorerà le partnership di sviluppo comune per cercare di creare una comunità di interessi comuni, contribuendo, così, in modo significativo alla causa dello sviluppo su scala globale.

Tuttavia, il confronto tra Stati Uniti e Cina sta evolvendo, diventando sempre più teso. Anche se la Cina sembra promuovere una maggiore condivisione nella leadership a livello internazionale, questa sfida – come è ovvio che sia – si ripercuote direttamente sull’influenza e sulla presenza statunitense in varie aree del globo, anche in quelle – inclusa l’America latina – che sino a pochi anni fa si credeva fossero prerogativa esclusiva di Washington.

Durante la prima decade degli anni duemila la Cina è diventata un importante partner di molti Paesi dell’America Latina con i quali ha incremento i rapporti bilaterali e aumentato gli scambi commerciali, facendo crescere le esportazioni di alcuni prodotti quali soia, ferro, prodotti agricoli, minerali e petrolio.

Nel 2004, durante la sua visita in Cina Lula firmò una serie di memorandum volti ad aumentare le esportazioni di prodotti brasiliani verso il colosso asiatico. Diversi sono stati gli accordi commerciali stipulati da allora, tra questi il primo accordo di libero scambio del 2005 stipulato fra presidente cileno Lagos e il presidente cinese Hu Jintao, accordo che fu riconfermato e integrato nel 2013 con l’accordo Supplementare sui Servizi Commerciali dell’Accordo di Libero Scambio.

Seguendo le orme del Cile, nel 2011 la Costa Rica è stata il primo paese dell’America centrale a firmare un accordo di libero commercio con la Cina.

Alcuni dati rilevanti sono, per esempio, l’esportazione di soia da parte dell’Argentina che nel decennio che va dal 2000 al 2010 ha visto quadruplicare la quantità diretta verso il mercato cinese. 

In Venezuela invece, grazie ad un accordo bilaterale che prevede l’impegno e il finanziamento della Cina nel settore petrolifero venezuelano in cambio di forniture petrolifere, la quantità di barili esportati in Cina è passata da 200.000 a 400.000 in soli dieci anni.

Rilevanti anche gli accordi bilaterali tra Cina e Brasile e Cina e Perù che prevedono la riduzione di dazi per le relative merci importate. 

Seguendo un modus operandi che il mondo ha imparato a conoscere con la Belt and Road Initiative, per il territorio latinoamericano importanti si sono rivelati anche gli investimenti cinesi soprattutto per quanto riguarda il settore delle infrastrutture: nel periodo tra il 2005 e il 2019, ad esempio, il Venezuela ha potuto beneficiare di 60 miliardi di investimenti utilizzati per esempio per finanziare il progetto ferroviario Orinoco (iniziato nel 2000) e il progetto idroelettrico Hidroituango (iniziato nel 2010); l’Ecuador ha beneficiato di 18 miliardi tra le opere finanziate vi è l’aeroporto internazionale “Eloy Alafaro” danneggiato dal terremoto del 2016; la Bolivia ha ricevuto 3,2 miliardi mentre l’Argentina 17 miliardi per la realizzazione di ferrovie, autostrade, modernizzazione di aeroporti e di infrastrutture dedicate ai servizi pubblici e al sociale.

Inoltre a gennaio 2015, si era tenuto il primo Forum Cina-Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi (CELAC). Questo forum ha creato una piattaforma regionale per la cooperazione tra Cina e America Latina, paragonabile al Forum di Cooperazione Cina-Africa.

Nel corso del XXI secolo, nonostante il successivo cambiamento governativo avvenuto nella regione, la partnership tra gli attori in causa non si è arrestata; infatti, dopo l’esperienza dei governi progressisti e populisti in alcune regioni dell’America Latina si è verificata l’elezione di diversi governi in chiara controtendenza con quelli precedenti, tra questi l’Argentina di Mauricio Macrì, il Brasile di Jair Bolsonaro, il Cile di Sebastián Piñera, l’Ecuador di Gullermo Lasso e la Colombia di Iva Duque. Tali governi, a differenza dei precedenti, sono stati propensi a respingere l’antiamericanismo diffusosi in America Latina ed hanno favorito una nuova stagione di relazioni con gli Stati Uniti anche se durante i loro mandati questi Governi hanno, comunque, continuato a sviluppare relazioni – soprattutto di natura economica – con la Repubblica Popolare Cinese. A tal riguardo, basti pensare all’amministrazione Bolsonaro in Brasile che, nonostante i primi tempi risultassero assai critici, con il passare del tempo ha sviluppato relazioni tanto distese quanto pragmatiche con Pechino, con l’effetto di rafforzare le relazioni economiche bilaterali e aumentando considerevolmente l’esportazione di alcuni prodotti brasiliani – si pensi alla soia e alla carne – verso l”Asia.

Rilevante, invece, è stato l’accordo firmato dall’argentino Macrì con Pechino per il finanziamento delle opere infrastrutture – in particolare di porti e ferrovie – progettate con l’obiettivo di migliorare le vie di comunicazione nazionali al fine di facilitare e velocizzare la circolazione delle merci sul territorio nazionale e il collegamento con gli hub strategici.

Tuttavia, il progetto più rilevante proposto aella Cina per ampliare la sua area di influenza e riaffermare al contempo la volontà di creare un nuovo mondo incardinato sul concetto di multipolarità è sicuramente la Belt and Road Initiative, progetto lanciato da Xi Jinping nel 2013 e che – seppur inizialmente prevedeva di collegare principalmente i paesi dell’Asia orientale e dell’Europa – si è man mano ampliato fino ad estendersi anche in altre zone del mondo. Il mega-progetto infrastrutturale si basa su cinque grandi principi: (1) rispetto reciproco per la sovranità e l’integrità territoriale; (2) accordo reciproco di non aggressione; (3) accordo reciproco di non interferenza negli affari interni; (4) uguaglianza e beneficio reciproco; e (5) coesistenza pacifica. In questo senso, l’adesione alla BRI implica il riconoscimento di questi principi fondamentali ma estremamente importanti dal punto di vista cinese (Müller, 2016).

La portata globale di questa iniziativa è tale che in America Latina, sin dai primi tempi, si manifestarono preoccupazioni e delusioni riguardanti una possibile marginalizzazione economica dovuta all’assenza di inclusione della regione nella Belt and Road Initiative (da qui BRI) cinese.

Queste preoccupazioni erano state innescate dalla mancanza di riferimenti espliciti nella documentazione ufficiale della BRI e dalle discussioni dei commentatori cinesi riguardo a una potenziale “Via della Seta” da sviluppare attraverso il Pacifico (Jenkins, 2019); in effetti, il dibattito sulla possibilità di partecipare alla BRI è emerso prima in America Latina – ad esempio, sia in Ecuador che in Bolivia, si è discusso a lungo delle opportunità commerciali offerte da una possibile adesione alla BRI – e solo successivamente è stato preso in considerazione in Cina. .

Nel 2017 Panama è stato il primo paese dell’America Latina a formalizzare la sua partecipazione al progetto promosso da Xi Jinping stabilendo relazioni diplomatiche con la Cina il 13 Giugno 2017.

Uno dei documenti di questo passaggio diplomatici fu il Memorandum of Understanding for Strategic Cooperation che venne sottoscritto tra ETESA (Empresa de Transmisión Eletríca S.A.) una compagnia statale panamense e CEXIM ovvero la Export-Import Bank cinese.

A Panama il progetto della BRI prevedeva la costruzione di una ferrovia che collegasse la capitale con la provincia di Chiriquí, la costruzione di  un grande porto capace di ospitare le navi da crociera e un altro per i container, nonché il sesto centro di distribuzione globale di Huawei (Martinez, 2019).

Panama ha fatto da apripista per altri paesi della regione latinoamericana attratti dalla prospettiva di svolgere un ruolo più attivo in un contesto multipolare e di beneficiare anch’essi dei vantaggi di una cooperazione economica con la Cina: si sono così ufficialmente uniti al progetto 21 paesi della regione diventando partner della BRI: tra questi il Cile, il Venezuela, il Perù, la Bolivia, l’Uruguay, l’Ecuador, Cuba, la Costa Rica, Suriname, Jamaica, El Salvador, la Repubblica Dominicana, la Guyana, Nicaragua ed, infine, nel febbraio del 2022 l’Argentina.

Recentemente per esempio, si è svolto il terzo forum sulla “Belt and Road” in cui ha partecipato il nuovo presidente cileno Gabriel Boric eletto nel marzo 2022. La presenza di Boric al forum è rilevante in quanto va a sottolineare l’attitudine cilena di rafforzare le relazioni diplomatiche in particolare incentivare la cooperazione energetica di fonti rinnovabili. Infatti al termine dell’incontro svoltosi in Cina questo 17 ottobre il presidente Boric ha annunciato un investimento cinese di oltre 230 milioni di dollari per la creazione di una fabbrica di batterie al litio nel comune di Mejillones, situato nella regione di Antofagasta.

Sempre in ambito BRI, l’acquisizione del 90% di TCP Participações da parte di China Merchants Port Co., una società che gestisce il Porto di Paranaguá in Brasile, è stata vista come un tentativo di attrarre investimenti cinesi anche sul territorio brasiliano (De León, 2021; Oliveira & Myers, 2021).

Messico, Colombia e Brasile sono tuttavia ancora i grandi assenti.Tuttavia per Colombia e Brasile le elezione dello scorso anno di Lula e Petro sembrano rendere all’orizzonte più probabile lo scenario che il Brasile e la Colombia possano valutare l’adesione ufficiale al progetto cinese.

Infatti nel pomeriggio del 25 ottobre, il presidente cinese Xi Jinping ha tenuto un incontro con il presidente colombiano Gustavo Petro, in visita di Stato in Cina, presso la Grande Sala del Popolo. Durante questa occasione, i due leader hanno annunciato l’intensificazione dei legami tra Cina e Colombia attraverso l’istituzione di un partenariato strategico.Successivamente a questo incontro, sono stati siglati 13 accordi di cooperazione bilaterale in vari settori, tra cui trasporti, tecnologia, cultura e salute

Lula, a sua volta, tenace sostenitore di una “cooperazione sud sud” vede nella Belt and Road Initiative l’opportunità di contribuire alla creazione di un sistema internazionale più inclusivo e meno soggetto alla predominanza e all’influenza egemonica statunitense. A tal proposito, l’ambasciatore Celso Amorim, capo dell’ufficio di consulenze speciali della presidenza del Brasile, ha visto nella visita di marzo 2023 (poi rinviata ad Aprile a causa di problemi di salute del presidente) di Lula in Cina come un passo verso un maggiore coinvolgimento di Brasilia in questo progetto poiché tale scelta rafforzerebbe indubbiamente la cooperazione economica e diplomatica tra i due paesi. A tale riguardo, lo strsso Celso Amorim ha aperto alla BRI dichiarando che “non vi è alcun motivo per il Brasile per non aderire al progetto e unirsi ufficialmente“.

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