di Matteo Parigi per ComeDonChisciotte.org
Neanche il tempo di aspettare l’entrata effettiva dei nuovi membri BRICS+ ad anno nuovo che gli USA si cimentano in uno studio matto e disperato per dare filo da torcere, si fa per dire, alla c.d. Belt and Road Initiative (BRI), ossia il progetto cinese di Nuova Via della Seta, giunto proprio adesso al decimo anniversario.
Durante il summit G20 di Nuova Delhi svoltosi lo scorso 9-10 settembre il premier indiano Narendra Modi ha accolto con telefonato entusiasmo l’iniziativa offerta da Biden che mira a creare l’alternativa alla BRI: denominato India-Middle East-Europe Corridor (IMEC), il piano consiste in $20 miliardi investiti da Washington nella creazione di un corridoio che dall’indiana Mumbai percorre il Mar Arabico per poi attraversare la penisola mediorientale e infine connettersi all’Europa grazie al Pireo di Atene. Tuttavia, non è illusoria l’impressione che questo IMEC sia l’ennesima aggiunta alla serie di vie della seta asfaltate dall’Occidente sulla strada delle buone intenzioni. Chi conosce il proverbio sa dove porta.
Cos’è l’IMEC
Il Corridoio India-Medio Oriente-Europa è, come anticipato nell’introduzione, un piano di investimenti stipulato da USA e India a cui si è aggiunto il supporto di Arabia Saudita, Emirati Arabi, Francia, Germania, Italia e l’Unione Europea rappresentata da Ursula Von Der Leyen. Il piano prevede investimenti per un totale iniziale di $20 miliardi finalizzati a costruire infrastrutture logistiche, affinché prenda forma una via di collegamento commerciale tra l’Europa e l’Asia, passando per la Penisola Arabica. Attualmente l’ipotesi di via euro-asiatica prevede l’implementazione di due dei maggiori porti del continente eurasiatico, il Pireo di Atene e il porto internazionale di Mumbai.
All’incirca 5500 chilometri intervallati da alcune tappe strategiche: a partire da Atene, Haifa (Israele), Al Haditha, Riad, Harad (Arabia Saudita), Al Guwaifath, Jebel Ali (Emirati Arabi Uniti) ed infine Mumbai (India). Per adesso non c’è ovviamente nient’altro di concreto al di là delle buone volontà. Gli USA di Biden cercano in tutti i modi di aggiudicarsi il controllo dell’India così da costruire la muraglia anticinese intorno all’Impero Celeste che già esiste come linea di tensione insieme a Taiwan e Giappone.
L’India facente già parte del QUAD è in questo momento con un piede in due scarpe[1] vista la contemporanea partnership con la Russia in quanto fornitrice imprescindibile di petrolio e armi. La proprietà transitiva vuole in questo caso che la rivalità con la Cina non sia acerrima come si suol dire, stemperata appunto dal comune interesse ad avere una Russia forte contro l’Occidente capeggiato dagli Stati Uniti. Ma al netto di tali considerazioni, è difficile per il momento che gli indiani siano davvero interessati, nonostante l’esultanza apparente di Modi[2], ad un impegnativo progetto di trasporto passante per zone delicate e destabilizzate (v. Giordania e Israele), frenato e inflazionato da almeno cinque confini nazionali che richiedono controlli, certificati, permessi; interrotto da due mari che obbligano le merci a divincolarsi tra molteplici cambi di tragitto: navi mercantili all’andata, trasporti su ruote sulla penisola e infine di nuovo rituffate in mare.
Un forte disincentivo rispetto al classico canale di Suez il quale permette di commerciare tra il mondo e il Vecchio Continente con la sola marina mercantile. Non sono mancate già altre osservazioni critiche, tanto che alcuni ritengono potrebbe addirittura favorire la Via della Seta invece di combatterla[3]. Hussein Askary vicepresidente del Belt-and-Road Institute in Svezia sottolinea l’assurdità di sballottare container porta-merci tra mare, terra (con il clima del deserto) e di nuovo mare (e un’altra volta terra). Kamran Bokhari del New Lines Institute for Strategy and Policy osserva che il corridoio fallisce nell’intento eventuale di togliere influenza all’Iran, nella misura in cui esso non tocca minimamente gli stati più vicini a Teheran (Siria, Iraq, Yemen, Libano). Al massimo potrebbe funzionare da facilitatore tra coppie di stati o rotte singole, come tra Israele e l’Europa, ad esempio, ma l’interezza del progetto appare tutt’altro che efficiente.
Europa: Global Gateway
Come accennato nell’introduzione, il “piano Marshall per l’Eurasia” prende posto accanto ad altri progetti infrastrutturali, quali il Partenariato Trans-Pacifico(TTP) e l’«Iniziativa per l’Indo-Pacifico libero e aperto». Dalle idee di Ursula e del suo padrino politico Biden, è scaturito il Global Gateway[4], una “strategia intelligente” per “ridurre il divario globale degli investimenti”. Quest’ultimi, precisa l‘istituzione stessa, produrranno benefici per le comunità locali. Ora, è sospetto quanto una strategia che intende sviluppare reti sedicenti globali possa allo stesso tempo rispettare le località territoriali. Non può che apparire un vero e proprio bipensiero di orwelliana memoria, per cui tutto è pensabile contemporaneamente al suo contrario, nonostante la contraddizione irrisolvibile.
Ma per tornare al programma concreto, l’UE ha stanziato 300 miliardi di euro da investire, non a caso, nei settori digitale, energetico, logistico, sanitario, istruzione e ricerca. Sulla questione del digitale, è interessante notare che in nessun punto l’UE parla di sviluppo tecnologico, bensì soltanto di digitalizzazione, ma sono due cose totalmente diverse. E non finisce qui: l’UE ammette di puntare ad una vera e propria trasformazione digitale. I commissari non eletti di Bruxelles ammettono di voler mutare letteralmente l’antropologia e l’intero modo di vivere degli europei, del popolo dello spirito parafrasando Hegel. Tra l’altro il concetto di trasformazione digitale è forse l’unico vero punto in comune con il nuovo mondo multipolare, visto che i BRICS utilizzano la stessa identica espressione, almeno da quanto scritto nella dichiarazione ufficiale dell’ultimo incontro avvenuto a Johannesburg[5]. In ogni caso, i tentativi dell’Europa per connettersi con altri mercati, in particolare quello asiatico, altro non sono che cavalli di troia per un duplice scopo: muovere guerra alla preponderanza cinese e ottenere accesso a risorse di cui, in seguito alle sanzioni contro la Russia, l’Europa stessa si è amputata.
Stati Uniti: Build Back Better World
Durante il primo G7 di Biden in giugno 2021 il neoeletto presidente approvò un piano di ben $40 trilioni da investire entro il 2035 per creare un network di infrastrutture avanzate (Blue Dot Network) di ampiezza globale. Il nome del piano ripete quello della politica adottata in patria per risollevare l’economia a stelle e strisce dalla crisi sociosanitaria (Build Back Better). I settori principalmente presi in considerazione dovrebbero essere sanità, tecnologia, clima e uguaglianza di genere[6]. L’iniziativa è stata interpetrata come un ritorno all’approccio multilaterale, pensato dagli Usa per coinvolgere più partner possibili contro la Cina.
Nonostante una forte opposizione del Senato, a giugno 2022 Biden intavolò un rinnovo del piano, promettendo la mobilitazione di $600 miliardi dai privati interessati all’interno del G7, di cui 1/3 sarebbero stati interamente americani. Tuttavia, già a partire da dicembre 2022 non si hanno più tracce di una prosecuzione del piano, così come si è arenata l’economia interna sconfessando l’intera gestione economica della squadra Biden. Va notato che i requisiti per l’accesso ai fondi consistono, tanto per cambiare, nei seguenti valori: clima, sanità e “sicurezza sanitaria”, tecnologia digitale, uguaglianza e giustizia di genere (leggasi nel complesso: Grande Reset). In tal senso il GG europeo è perfettamente sovrapponibile al B3W.
Dieci anni di via della seta
Nel frattempo, in Cina si festeggia il decimo anniversario della Belt and Road Initiative figlia dell’epoca di Xi Jinping, anch’egli al decimo anno di presidenza. Dai megafoni rivali sorgono dubbi e critiche sull’effettiva trasparenza del progetto[7]. In particolare, vengono contestati la mancanza di liste ufficiali di paesi aderenti, trascuratezza dei procedimenti burocratici, la spesa enorme e forse insostenibile effettuata dalla Cina, danni ambientali e l’accusa di aver inserito molti paesi asiatici nella c.d. trappola del debito.
Ma i dati senza tanto stupore parlano invece di circa 150 paesi aderenti che hanno reso la Cina il primo investitore estero mondiale. A partire dal 2013, data di lancio della estensiva «Silk Road Economic Belt and 21st-Century Maritime Silk Road Development Strategy», i cinesi hanno realizzato rispettivamente[8]:
- In Africa: all’incirca 100.000km di strade, 10.00km di ferrovie e 100 porti nuovi o ristrutturati, scuole e ospedali. Inoltre, il 98% delle merci africane verso la Cina sono esentasse, incentivo quest’ultimo allo sviluppo dell’industria locale africana.
- Nell’Asia indo-sinica: linee ferroviarie ad alta velocità verso il Laos, Malesia, Singapore, mentre sono in costruzione collegamenti con Pakistan (Economic Corridor), il porto di Gwadar, quello di Kyaukphyu in Birmania e la ferrovia di collegamento con quest’ultima.
- Nel continente eurasiatico: sono in fase di realizzazione sei grandi corridoi economici: China-Mongolia-Russia, il Ponte Eurasiatico, China-Central Asia-West Asia, China-Indochina Peninsula, China-Pakistan e il Bangladesh-China-India-Myanmar. Il Western Land-Sea Corridor è riuscito a connettere 300 porti in ben 111 paesi diversi, compresa gran parte dell’Europa.
Il progetto ha inoltre rafforzato la cooperazione all’interno dell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO) compresa l’India che ne è entrata a far parte insieme al Pakistan nel 2017. Grazie alle due istituzioni fondiarie principali dell’Area, la New Development Bank e l’Asian Infrastructure Investment Bank, è stato possibile ottenere prestiti che hanno permesso la sostenibilità del colosso cinese. Senza, tra l’altro, dover ricorrere al mero indebitamento pubblico visto che la bilancia di Pechino è da anni in netto surplus e il 40% di esso proviene dal commercio con i paesi BRI. Inoltre, punto cruciale, il piano Marshall cinese non mette né presuppone istituzioni militari, come basi in territori stranieri, alleanze militari, commercio di armi.
La portata dell’impatto è decisamente vasto e il successo se ci sarà mai andrà visto nell’arco di almeno un altro decennio in parallelo all’implementazione di altri progetti mondiali quali l’Agenda 2030 e le politiche europee per la transizione green entro il 2035. Una guerra fredda commerciale e tecnologica che non nasconde l’intento di conquistare il cuore e le menti del mondo, probabilmente in tutti i sensi.
NOTE AL TESTO
[1] https://comedonchisciotte.org/fare-lindiano-in-tutti-i-modi-nuova-delhi-e-lago-della-bilancia-di-questo-mondo/
[2] https://www.ispionline.it/it/pubblicazione/g20-lindia-globale-e-la-sfida-alla-via-della-seta-143119
[3] https://www.scmp.com/news/china/article/3235111/western-led-trade-corridor-challenges-chinas-belt-and-road-not-so-fast-analysts-say?module=lead_hero_story&pgtype=homepage
[4] https://commission.europa.eu/strategy-and-policy/priorities-2019-2024/stronger-europe-world/global-gateway_it
[5] https://brics2023.gov.za/wp-content/uploads/2023/08/Jhb-II-Declaration-24-August-2023-1.pdf, pp. 22-23.
[6] Pietro Masina, Challenging the Belt and Road Initiative: The American and EuropeanAlternatives, p.13.
[7] https://time.com/6319264/china-belt-and-road-ten-years/
[8] http://www.chinatoday.com.cn/ctenglish/2018/commentaries/202309/t20
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