di Andrea Fais
Sta volgendo ormai al termine, dopo due intensi giorni di confronto e dibattito, il vertice BRICS di Johannesburg. Lanciato in via ufficiosa nel 2006 durante un incontro tra ministri degli Esteri a margine dell’Assemblea Generale dell’ONU, il gruppo dei BRIC – Brasile, Russia, India e Cina – mosse i suoi primi passi sostanziali tra il 2008 e il 2009, quando chiamò in causa anche i capi di Stato e di governo dei Paesi coinvolti. Tra il 2010 e il 2011 fu poi ufficializzato anche l’ingresso del Sudafrica, che stabilì il nuovo acronimo “BRICS”.
Guardato in Occidente con fiducia o diffidenza, a seconda dei diversi punti di vista, il consesso ha acquisito, nel corso di tre lustri, un’importanza sempre maggiore. Negli ultimi anni, in particolare, sono improvvisamente aumentate le richieste di adesione da parte di altri Paesi non occidentali, tra i quali spiccano, per importanza e peso economico, Indonesia, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto ed Algeria.
Ad alimentare l’attenzione internazionale sulla realtà dei BRICS è stata ed è indubbiamente l’affermazione globale della Cina, vera capofila delle economie emergenti, ed il suo ambizioso processo di trasformazione e transizione da economia in via di sviluppo, trainata dall’export di prodotti a medio o basso valore aggiunto, ad economia avanzata, guidata dai consumi interni e dall’innovazione ad alto contenuto tecnologico. Un percorso caratterizzato, sul fronte estero, anche dal lancio dell’Iniziativa Belt and Road (BRI), finalizzata a ricostruire in chiave moderna le antiche direttrici commerciali della Via della Seta.
Pechino è innegabilmente un riferimento per tutti quei Paesi in via di sviluppo – non solo in Asia ma in tutto il cosiddetto Sud Globale – che hanno aperto le rispettive economie al mercato, senza tuttavia rinunciare alla loro sovranità nella determinazione del proprio modello di sviluppo, attraverso forme miste o «con caratteristiche nazionali», mutuando l’espressione in voga in Cina. Non da adesso, ovviamente.
Nonostante le difficoltà della pandemia ed una ripresa ancora da consolidare, il gigante asiatico, che ormai da tempo contribuisce per circa un terzo alla crescita globale, prosegue la sua storica marcia verso il gradino di prima economia mondiale ma è già oggi la principale potenza commerciale del pianeta, il primo investitore in energie pulite e rinnovabili, il primo Paese per brevetti depositati [nel 2021-2022 ha raggoiunto il 55% del totale globale soltanto di quelli relativi ai semiconduttori, Mathys & Squire] e tra i protagonisti indiscussi nel campo di tecnologie emergenti quali AI, machine learning, IoT, big data e così via.
In questo senso, il discorso del presidente cinese Xi Jinping al BRICS Business Forum, letto dal ministro per il Commercio Wang Wentao, sarà oggetto di studio per i prossimi mesi, o forse addirittura per i prossimi anni.
Sottolineando l’importanza della «congiuntura cruciale» cui è giunta l’umanità, il leader del colosso asiatico ha chiesto alla platea: «Dovremmo perseguire la cooperazione e l’integrazione o, piuttosto, soccombere alla divisione e allo scontro? Lavorare insieme per mantenere la pace e la stabilità oppure barcollare verso l’abisso di una nuova guerra fredda? Abbracciare la prosperità, l’apertura e l’inclusività, o consentire azioni egemoniche e vessatorie che gettino tutti noi nella frustrazione? Approfondire la fiducia reciproca tramite gli scambi e l’apprendimento reciproco o permettere l’arroganza e il pregiudizio verso una coscienza cieca? Il corso della storia dipenderà dalle scelte che faremo».
Le considerazioni e i riferimenti, nemmeno troppo velati, di Xi toccano tutti i temi più sensibili della politica internazionale: dal commercio agli investimenti, dalla sicurezza alle catene di fornitura, dal multilateralismo allo sviluppo infrastrutturale ed altro ancora. «Il nostro mondo è diventato una comunità dal futuro condiviso, di cui tutti noi deteniamo una grande quota di sussistenza», ha sottolineato il capo di Stato cinese, aggiungendo che ciò a cui i popoli del pianeta guardano non è di certo una nuova guerra fredda o un piccolo blocco chiuso di nazioni, bensì un mondo «aperto, inclusivo, pulito e meraviglioso» che possa godere di «pace duratura, sicurezza universale e prosperità comune».
Nelle ultime settimane, la stampa internazionale, in particolare quella occidentale, ha evidenziato alcune divergenze in seno al BRICS, tra chi intende procedere speditamente all’allargamento del gruppo e chi, invece, ritiene sia più prudente attendere e valutare con ponderazione i nuovi ingressi.
È naturale che, all’interno del consesso, coabitino posizioni ed interessi differenti tra Paesi che non condividono praticamente alcun carattere sostanziale: ubicati, come sono, ai diversi angoli del mondo, Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica rappresentano realtà politiche, sociali, culturali ed etno-linguistiche profondamente difformi l’una dall’altra.
Ci possono essere – e ci sono – alcune sintonie di vedute tra il socialista Lula, il socialdemocratico Ramaphosa e il Partito Comunista Cinese, così come tra Xi Jinping e Vladimir Putin in merito all’importanza di contrastare l’egemonismo degli Stati Uniti su più fronti: militare, commerciale e monetario. Durante il mandato di Narendra Modi, invece, i rapporti tra India e Cina hanno registrato non pochi momenti di tensione e addirittura qualche schermaglia militare nelle zone di confine contese, all’altezza della Valle del Fiume Galwan.
Eppure, l’originalità del BRICS è proprio questa: nessuna logica da blocco o alleanza militare, nessuna “linea di comando”, nessuna gerarchia verticale. Piuttosto, una piattaforma di coordinamento e cooperazione di carattere commerciale e finanziario per meglio perseguire i rispettivi interessi nazionali in un quadro condiviso. Questa impostazione “leggera”, ispirata ad una pragmatica concezione multipolare delle relazioni internazionali, ha sempre caratterizzato il gruppo sin dalle sue origini ed incarna abbastanza bene lo spirito dei tempi, pur con tutti i limiti del caso. Lo stesso non si può dire del G7, dove sostanzialmente un solo Paese detta la linea mentre gli altri – che al contempo sono anche suoi alleati militari – si limitano ad eseguire o al massimo a suggerire qualche proposta.
Brasilia, Nuova Delhi e Pretoria sono democrazie di impronta liberale ma mantengono tutt’ora vaste sacche di povertà e sottosviluppo all’interno dei rispettivi contesti sociali. Mosca, da parte sua, si presenta con un sistema democratico e pluripartitico ma piuttosto chiuso e semi-autoritario, fortemente concentrato (anche per ragioni storiche) sulla difesa della sicurezza interna e sulla stabilità del cosiddetto “estero vicino”. Pechino è invece ritenuta da tutti i suoi partner occidentali una “dittatura” pienamente autoritaria, anche se ha totalmente eliminato la povertà assoluta ed il suo indice di sviluppo umano (HDI) è nettamente superiore a quello dell’India [ONU, 2022]. Anche senza prendere in considerazione i numeri, del resto, è sufficiente dare uno sguardo ai contesti urbani dei due Paesi per rendersene conto: sempre più innovativi, tecnologici e sostenibili in Cina, ancora gravemente arretrati e problematici in India. Paradossale, poi, che gli stessi governi critici verso il “modello Xi” ricerchino costantemente opportunità d’affari sul mercato cinese.
La realtà, insomma, mette quotidianamente a nudo i limiti dell’interpretazione occidentale del mondo: una visione anacronistica (e opportunistica), ancorata alle logiche del secolo scorso, destinata prima o poi a tramontare del tutto. La rigida suddivisone del pianeta, rilanciata nel 2021 dall’Amministrazione Biden, tra “nazioni democratiche” e “nazioni autoritarie” regge insomma sempre meno.
Mario Del Pero, Professore di Storia internazionale e Storia degli Stati Uniti a SciencesPo, sostiene che «la retorica del “mondo libero” adottata durante la prima guerra fredda faceva sì acqua da molte parti […] ma rifletteva una plastica partizione in campi contrapposti, a lungo poco o nulla permeabili», mentre «gran parte dei membri della comunità delle democrazie di oggi sono invece strettamente integrati e interdipendenti con molti che nel perimetro di quella comunità non trovano posto» [Atlante, Treccani, 14/12/2021].
La conferenza stampa tenuta ieri da Jake Sullivan, consigliere per la Sicurezza Nazionale di Biden, ha confermato, per ora, l’incapacità della leadership statunitense di capire il mondo in trasformazione, ribadendo, tra le righe, l’eccezionalismo americano e perseverando in un’infantile ricerca del primato a tutti i costi e in tutti i campi. Il fatto stesso di aver messo in evidenza i motivi di potenziale attrito tra i BRICS, distinguendo le “democrazie” (Brasile, India e Sudafrica) dalle “autocrazie” (Russia e Cina), contraddice l’affermazione secondo cui Washington non vede il gruppo come rivale geopolitico. Non ci siamo ancora.
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