di Giulio Chinappi
Il vertice di Belém ha dato un chiaro segnale della posizione dei Paesi amazzonici, che si oppongono al “neocolonialismo verde” e chiedono ai Paesi industrializzati di pagare il loro debito storico con il resto del mondo investendo nella protezione delle foreste pluviali.
Dodici Paesi si sono riuniti in questi giorni nella città brasiliana di Belém do Pará in occasione del vertice dell’Amazzonia. All’evento hanno infatti partecipato i rappresentanti di Bolivia, Brasile, Colombia, Ecuador, Guyana, Perù, Suriname e Venezuela, ai quali si sono aggiunti la Repubblica Democratica del Congo e la Repubblica del Congo, in rappresentanza delle foreste pluviali del bacino del fiume Congo in Africa centrale, l’Indonesia, in rappresentanza del sud-est asiatico, e Saint Vincent e Grenadine, in rappresentanza dei Paesi caraibici.
Al termine del vertice, le parti hanno pubblicato un patto intitolato “Uniti per le nostre foreste“. La dichiarazione congiunta ha chiesto lo sviluppo di un meccanismo di finanziamento in modo che la comunità internazionale possa pagare per i servizi essenziali forniti dalle foreste: “I nostri Paesi devono esercitare maggiore influenza sulla gestione delle risorse assegnate alla conservazione e all’uso sostenibile della biodiversità“, si legge all’interno del testo. Il patto, inoltre, esorta le nazioni sviluppate a rispettare l’impegno esistente di fornire 200 miliardi di dollari all’anno per la conservazione della biodiversità, esprimendo preoccupazione per il fatto che una precedente promessa di fornire 100 miliardi di dollari all’anno in finanziamenti per il clima non fosse stata rispettata.
In una conferenza stampa a margine dell’evento, il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha assicurato che il vertice di Belém “è l’Amazzonia che parla al mondo, dando una risposta al mondo sulle cose di cui abbiamo bisogno“. Allo stesso modo, Lula ha evidenziato la partecipazione della società civile prima dell’incontro, attraverso i cosiddetti dialoghi amazzonici, evidenziando che “ha avuto luogo un dialogo meraviglioso con una capacità incredibile di discutere di questi temi“. A tal proposito, Lula ha ricordato che “promuovere e valorizzare la foresta significa non solo mantenere la sua dignità […], ma anche quella di quasi 50 milioni di abitanti che vivono in Amazzonia“.j
Il presidente brasiliano ha anche sottolineato come i leader amazzonici abbiano cercato una soluzione comune nei forum internazionali “per dire che non è il Brasile ad aver bisogno di soldi, né la Colombia, né il Venezuela, ma piuttosto la natura. […] La natura è ciò che ha bisogno di soldi. La natura è ciò che ha bisogno di finanziamenti”. Ha anche chiesto “che gli impegni sul clima dei Paesi sviluppati siano rispettati” e ha ricordato loro come “per lo sviluppo industriale che hanno portato avanti per 200 anni e che ha inquinato il mondo, ora devono pagare la loro parte“.
Infine, il presidente brasiliano ha evidenziato come il vertice di Belém abbia permesso di individuare “enormi convergenze con altri Paesi in via di sviluppo che possiedono foreste tropicali”. In questo senso, ha sollecitato “un’azione congiunta nei forum internazionali“, in cui ha anche rivendicato “una maggiore rappresentatività” di quelle nazioni. Questi Paesi dell’America Latina, dell’Africa centrale e del sud-est asiatico dovrebbero infatti fare fronte comune contro quello che lo stesso Lula ha chiamato “neocolonialismo verde”, ovvero il tentativo di controllare le risorse delle foreste pluviali attraverso il pretesto dell’ecologia.
Anche il presidente colombiano Gustavo Petro ha appoggiato la linea di Lula, sostenendo che le nazioni ricche dovrebbero scambiare il debito estero dovuto dai Paesi dell’Amazzonia con l’azione per il clima, affermando che ciò creerebbe investimenti sufficienti per alimentare l’economia della regione amazzonica. Il presidente boliviano Luis Arce ha a sua volta affermato che l’Amazzonia è stata vittima del capitalismo, riflesso dell’espansione incontrollata dei confini agricoli e dello sfruttamento delle risorse naturali, sottolineando che le nazioni industrializzate sono responsabili della maggior parte delle emissioni storiche di gas serra: “Il fatto che l’Amazzonia sia un territorio così importante non implica che tutte le responsabilità, le conseguenze e gli effetti della crisi climatica debbano ricadere su di noi, sulle nostre città e sulle nostre economie“, ha affermato Arce.
In linea con le parole del presidente brasiliano e degli altri leader, la dichiarazione finale pubblicata mercoledì critica quelle che vengono descritte come restrizioni commerciali camuffate da misure ambientali, un chiaro riferimento all’approvazione da parte dell’Unione Europea di una legge che vieta alle aziende di importare merci legate alla deforestazione. Il vertice ha indubbiamente raggiunto importanti risultati, considerando anche che un vertice di questo tipo non aveva luogo da quattordici anni. Tuttavia, non è riuscito a soddisfare le richieste più radicali degli ambientalisti e dei gruppi indigeni, inclusa quella che tutti i Paesi membri adottassero l’impegno del Brasile di porre fine alla deforestazione illegale entro il 2030. La dichiarazione, inoltre, non ha fissato una scadenza per porre fine all’estrazione illegale dell’oro, sebbene i leader abbiano accettato di collaborare sulla questione. Gli altri Paesi hanno poi respinto la proposta del presidente colombiano Gustavo Petro per porre fine allo sviluppo di nuovi giacimenti petroliferi in Amazzonia.
Quali sono, dunque, i punti principali raggiunti nell’agenda condivisa da parte degli otto Paesi amazzonici? Il testo finale ha affermato i diritti e la protezione degli indigeni, accettando anche di cooperare sulla gestione dell’acqua, sulla salute, sulle posizioni negoziali comuni ai vertici sul clima e sullo sviluppo sostenibile. La dichiarazione ha inoltre istituito un organismo scientifico che si riunisca ogni anno e produca rapporti autorevoli sulla scienza relativa alla foresta pluviale amazzonica, simile al Panel internazionale delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici.
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