di Stefano Vernole
Premessa
Nel 1979, sotto l’Amministrazione Carter, vennero ufficialmente instaurate delle relazioni diplomatiche tra Repubblica Popolare Cinese e Stati Uniti. L’atto si poneva come il compimento di un percorso iniziato nel 1972 con la celebre visita di Richard Nixon a Pechino. La mossa seguente, da parte di Washington, fu la cessazione del riconoscimento di Taiwan.
Il comunicato congiunto Cina-USA sull’instaurazione delle relazioni diplomatiche, pubblicato nel dicembre 1978, afferma: “Il Governo degli Stati Uniti d’America riconosce la posizione cinese secondo cui la Cina è una sola e Taiwan fa parte della Cina”. Afferma inoltre: “Gli Stati Uniti d’America riconoscono il Governo della Repubblica Popolare Cinese come l’unico Governo legale della Cina. In questo contesto, il popolo degli Stati Uniti manterrà relazioni culturali, commerciali e altre relazioni non ufficiali con il popolo di Taiwan”1.
Tuttavia, allo stesso tempo, gli Stati Uniti si impegnarono tramite il TRA – Taiwan Relations Act a difendere la sovranità territoriale dell’isola attraverso la vendita di armamenti e la fornitura di sistemi di difesa (consentendo agli USA di mantenere delle posizioni strategiche nella regione). Di fatto, attraverso scorciatoie semantiche, gli Stati Uniti stanno recentemente sostenendo che con gli accordi del 1979 non hanno mai riconosciuto il principio della “Cina unica” richiesto da Pechino. Gli USA avrebbero cioè semplicemente preso atto della posizione cinese, ma non avrebbero mai dichiarato che la RPC è l’unica Cina. Cosa che secondo il PCC, al contrario, sarebbe implicita nell’accordo. A ciò si aggiunga che esiste una sorta di tacita intesa sull’esistenza di una “Cina Unica” tra PCC e Kuomintang risalente ai primi anni ’90 e nota come 1992 Consensus. Tale intesa oggi è sottoposta ad ampie critiche da parte dei partiti indipendentisti di Taiwan (in particolare il Partito Democratico Progressista al governo dell’isola con Tsai Ing-wen)2.
Washington non ha mai rispettato i patti stretti con la “diplomazia del ping pong”
La politica di Washington è rimasta estremamente ambigua sull’argomento nel corso degli ultimi quattro decenni. L’amministrazione Reagan, con le “sei assicurazioni” del 1982, si impegnò a non avviare alcuna mediazione tra RPC e Taiwan. Nella seconda metà degli anni ’90 Bill Clinton, nel corso di una visita istituzionale a Shanghai, mise in atto la politica dei “tre no” nei confronti di Taiwan: a) diniego alle aspirazioni separatiste; b) diniego del possibile sistema una Cina, una Taiwan; diniego di una rappresentanza internazionale per l’isola (cosa che presuppone il requisito ed il riconoscimento della sua statualità). Tuttavia, Clinton fu anche colui che inviò la flotta nello stretto di Taiwan al primo accenno di crisi tra Taipei e Pechino. L’Amministrazione Bush Jr., a sua volta, attuò una politica di doppia deterrenza sia contro le aspirazioni cinesi alla riunificazione, sia contro le tentazioni indipendentiste di Taiwan. Obama, al contrario, puntò sulla cooperazione sino-taiwanese, pur procedendo a tre consistenti vendite di armamenti all’isola durante i suoi due mandati presidenziali. Il repentino incrinarsi del rapporto lo si deve soprattutto alla politica messa in atto dall’amministrazione Trump e “peggiorata” da quella guidata da Biden3.
Nella prima visita di un alto funzionario nordamericano a Taiwan degli ultimi venticinque anni, Nancy Pelosi ha fatto tutto quello che poteva infastidire di più Pechino: è andata innanzitutto in visita allo Yuan legislativo, il Parlamento taiwanese che per Pechino potrebbe mettere in discussione la sovranità sull’isola. Lì Pelosi ha parlato di “sostegno bipartisan” da parte del Congresso americano nei confronti di Taiwan, la cui storia “è un’ispirazione per chiunque ami la libertà: gli Stati Uniti non vi abbandoneranno. Porto l’impegno americano a sostegno della democrazia”4. Durante la sua visita, la speaker della Camera ha incontrato anche la presidente taiwanese Tsai Ing-wen, che l’ha insignita dell’Ordine della Nuvola di buon auspicio, il massimo riconoscimento civile della “Repubblica di Cina” (come si autodefiniscono i separatisti di Taipei).
Secondo Pechino, l’arrivo della seconda carica degli USA a Taiwan “ha minato gravemente lo sviluppo pacifico dei legami nello Stretto, gravemente messo a repentaglio la pace e la stabilità e gravemente danneggiato gli interessi fondamentali della nazione cinese. Chi gioca col fuoco finirà bruciato”, ha sottolineato il Presidente Xi Jinping al telefono con Joe Biden.
La reazione non si è fatta attendere e per la prima volta le Forze Armate cinesi hanno condotto esercitazioni militari fin dentro le acque taiwanesi e, istituendo un vero e proprio blocco aeronavale, hanno praticamente circondato l’isola: cinque missili sarebbero finiti nella zona economica esclusiva del Giappone, dove proseguiva la visita della Pelosi.
A loro volta, gli Stati Uniti hanno inviato alti funzionari militari per suggellare nuove intese e lanciato un piano per rifornire l’Australia di sottomarini nucleari, posizionando quattro navi da guerra nelle acque a est di Taiwan; inoltre, Washington ha avviato un patto economico regionale finalizzato a contrastare la pacifica ascesa della Repubblica Popolare Cinese, ribadendo che “l’Asia non verrà abbandonata nonostante la crisi in Ucraina”5.
Le manovre navali dell’Esercito di liberazione cinese hanno costretto molte navi commerciali a circumnavigare l’isola, mettendo sotto stress le catene di forniture globali; largo 180 chilometri, lo stretto di Taiwan è un passaggio strategico per il commercio regionale tra Cina, Giappone e Corea del Sud, nonché per il resto del mondo.
Taiwan e il diritto internazionale
Come ribadito dal Libro Bianco: “La questione di Taiwan e la riunificazione della Cina nella nuova era”, uscito nei giorni successivi alla crisi: “La risoluzione 2758 è un documento politico che racchiude il principio di “una sola Cina”, la cui autorità legale non lascia spazio a dubbi ed è stata riconosciuta in tutto il mondo. Taiwan non ha alcun motivo o diritto per entrare a far parte dell’ONU o di qualsiasi altra organizzazione internazionale la cui appartenenza sia limitata agli Stati sovrani. Negli ultimi anni alcuni elementi in un ristretto numero di Paesi, tra cui gli Stati Uniti in primis, sono collusi con le forze a Taiwan, affermando falsamente che la risoluzione non ha risolto in modo definitivo la questione della rappresentanza. Richiamando il trattato illegale e non valido di San Francisco e ignorando la Dichiarazione del Cairo, la Proclamazione di Potsdam e altri documenti legali internazionali, gli Stati Uniti professano che lo status di Taiwan deve ancora essere determinato e dichiarano il loro sostegno alla “partecipazione significativa di Taiwan nel sistema delle Nazioni Unite”. Quello che gli USA stanno effettivamente tentando di fare è alterare la posizione di Taiwan come parte della Cina e creare “due Cine” o “una Cina, una Taiwan” come parte di uno stratagemma politico, usando Taiwan per contenere la Cina. Queste azioni, in violazione della Risoluzione 2758 e del diritto internazionale, costituiscono una evidente contraddizione degli impegni politici assunti da questi Paesi. Danneggiano la sovranità e la dignità della Cina e trattano con disprezzo i principi fondamentali del diritto internazionale. Il Governo cinese li ha condannati ed ha espresso la sua risoluta opposizione nei loro confronti.6”
Naturalmente, l’inasprimento delle tensioni non è funzionale alla strategia economica e pacifica portata avanti da Pechino in questi anni attraverso il rafforzamento delle relazioni istituzionali, le misure per facilitare gli scambi commerciali e culturali (entrambi condividono la tradizione e l’etica della nazione cinese) e i progetti volti a migliorare il benessere della popolazione di Taiwan, tra i quali: la consegna di acqua dalla provincia costiera del Fujian all’isola di Kinmen, abbonamenti elettronici per i residenti di Taiwan per entrare ed uscire dalla Repubblica Popolare Cinese, permessi di soggiorno sulla terraferma affinchè i taiwanesi abbiano uguale accesso ai servizi pubblici e possano beneficiare delle sue opportunità di sviluppo. Tale cooperazione non è venuta meno durante il peggior periodo della pandemia, attraverso l’organizzazione di eventi sinergici come lo Straits Forum, pur essendo divenuta la comunicazione online la principale forma di interazione interpersonale tra le due parti7.
Contraddicendo il tacito accordo raggiunto tra Kuomintang e PCC, le autorità del Partito Progressista Democratico (PDP) hanno adottato una posizione separatista e hanno collaborato con forze esterne in successive azioni provocatorie volte a dividere il Paese. Esse si rifiutano di riconoscere il principio di “una sola Cina”, affermando che Taiwan e la terraferma non dovrebbero essere subordinate l’una all’altra e proclamano una nuova teoria dei “due Stati”. Sull’isola, i loro esponenti politici premono costantemente per la “desinizzazione” e promuovono “l’indipendenza incrementale”, ottenendo un forte aumento di investimenti per l’industria bellica.
L’aumento delle spese militari comprende anche fondi per nuovi caccia, ed è stato svelato a poche settimane dalle imponenti esercitazioni militari tenute dalla Cina attorno all’isola in seguito alla visita della speaker della Camera dei Rappresentanti Usa, Nancy Pelosi.
Il piano per la Difesa rappresenta il sesto aumento annuale consecutivo dal 2017: il budget è stato rivelato dallo Yuan Esecutivo, il governo dell’isola, e dovrà essere approvato dallo Yuan Legislativo, il parlamento di Taiwan. Complessivamente, le spese militari contano per il 14,6% del bilancio del governo per il prossimo anno e sono la quarta voce di spesa per il 2023.
Taiwan aveva annunciato lo scorso anno un budget extra per la Difesa di 8,69 miliardi di dollari entro il 2026, ed escludendo quello destinato ad attrezzature militari, la proposta di aumento delle spese militari è del 12,9% rispetto allo scorso anno8. L’aumento record della spesa militare farebbe entrare Taiwan nella Top 20 mondiale; Taipei spenderebbe una cifra quasi pari a quella spesa nel 2021 dalla Spagna, sedicesima al mondo secondo i dati dello Stockholm International Peace Research Institute (Sipri), e di poco superiore a quella spesa dal Brasile, nel 2012 diciassettesimo con 19,2 miliardi di dollari.
La Marina militare degli Stati Uniti ha quindi preso a pretesto la crisi per sfoggiare le navi della Settima Flotta nello stretto; secondo il portavoce del ministero degli Esteri cinese Zhao Lijian: “Con il pretesto della libertà di navigazione, le navi da guerra americane mettono in mostra la loro forza: non si tratta di una promessa di ‘libertà e di apertura’, ma di una provocazione che cerca di scatenarsi sulla libertà e di un deliberato sabotaggio della pace e della stabilità regionali”9.
Come indiretta risposta, dal 29 agosto al 5 settembre si sono tenute le esercitazioni militari congiunte tra Russia, Cina, India, Bielorussia e Tagikistan nel sud della Federazione Russa denominate “Vostok 2022”. Inoltre, dal 1 al 7 settembre 2022, Cina e Russia hanno condotto manovre navali congiunte nel Mar del Giappone per perfezionare la difesa delle rotte marittime e delle aree di attività economica. Le manovre di “Vostok 2022”, a cui hanno preso parte oltre 50.000 militari, sono state supervisionate dal capo di Stato maggiore di Mosca, Valery Gerasimov e hanno avuto luogo nel Mare di Okhotsk, nel Mar del Giappone e nei territori del Distretto militare orientale russo.
Per tutta risposta, l’Amministrazione Biden ha chiesto nei giorni successivi l’autorizzazione al Congresso per una vendita di armi pari a 1,1 miliardi di dollari a Taiwan, un pacchetto comprendente 60 missili antinave Agm-84L Harpoon Block II per 355 milioni e 100 missili aria-aria Aim-9X Block II Sidewinder per 85 milioni, oltre a 655,4 milioni per l’estensione di un contratto per la sorveglianza radar, scatenando la reazione delle autorità diplomatiche cinesi a Washington: “Gli Stati Uniti devono interrompere immediatamente la vendita di armi a Taiwan e i contatti militari con Taiwan. Devono smettere di creare fattori che potrebbero portare a tensioni nello Stretto di Taiwan, e dovrebbero dar seguito alla dichiarazione del Governo USA di non sostenere l’indipendenza di Taiwan”, ha sottolineato Liu Pengyu, portavoce dell’Ambasciata di Pechino negli Stati Uniti10.
Nonostante tali avvertimenti, gli Stati Uniti hanno quindi intensificato le vendite di armi a Taiwan, cercando di rendere l’isola “il più spinosa possibile” per scoraggiare un attacco cinese. Ciò ha incluso la fornitura di grandi volumi di armi asimmetriche, come missili da crociera, sistemi di difesa aerea, e siluri, radar e altri sistemi di supporto.
Gli Stati Uniti non intendono allentare la loro pressione sulla RPC
Lo scorso 18 settembre il presidente Joe Biden ha fatto notizia quando ha affermato in un’intervista di 60 minuti che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti in difesa di Taiwan se la Cina avesse lanciato un attacco non provocato. Il suo abbraccio alla chiarezza strategica, tuttavia, non è stato il suo commento più notevole su Taiwan, poiché questa era la quarta volta che Biden articolava un simile impegno. Invece, il commento che ha sollevato più allarmi a Pechino è stata l’affermazione di Biden secondo cui “Taiwan emette i propri giudizi sulla propria indipendenza … questa è la loro decisione”. Sebbene questo commento possa sembrare innocuo, segnerebbe un cambiamento significativo nella politica statunitense.
Da quando gli Stati Uniti hanno interrotto le relazioni diplomatiche con Taiwan (formalmente la “Repubblica di Cina”) nel 1979 e hanno stabilito legami diplomatici formali con la Repubblica Popolare Cinese, la politica degli Stati Uniti è stata quella di non sostenere l’indipendenza di Taiwan. Il sito web del Dipartimento di Stato attualmente afferma: “non sosteniamo l’indipendenza di Taiwan” e il Segretario di Stato Antony Blinken ha usato la stessa definizione nel suo discorso principale mentre delineava la politica cinese dell’Amministrazione Biden.
A questo proposito, la postura è la stessa dei suoi predecessori.
Nel comunicato del 1982 tra Stati Uniti e Cina, l’Amministrazione Reagan dichiarò di non avere alcuna intenzione di “perseguire una politica di due Cine o una Cina, una Taiwan” (cioè non avrebbe sostenuto l’indipendenza di Taiwan). Nel giugno 1998, il presidente Bill Clinton andò oltre nella sua dichiarazione dei “tre no”, affermando che gli Stati Uniti non sostenevano due Cina o una Cina, una Taiwan, l’indipendenza di Taiwan o l’appartenenza di Taiwan a organizzazioni internazionali che richiedevano la statualità. Quando il presidente di Taiwan, Chen Shui-bian, ha flirtato con un referendum che avrebbe cambiato lo status di Taiwan, l’Amministrazione Bush ha espresso la sua “opposizione” a tale mossa, con il segretario di Stato Colin Powell che ha dichiarato: “Non sosteniamo un movimento di indipendenza a Taiwan”. Il presidente George W. Bush ha successivamente rimproverato pubblicamente Chen, avvertendolo: “Ci opponiamo a qualsiasi decisione unilaterale della Cina o di Taiwan di cambiare lo status quo. E i commenti e le azioni fatte dal leader di Taiwan indicano che potrebbe essere disposto a prendere decisioni unilaterali per cambiare lo status quo, a cui ci opponiamo”.
Questo decennale non sostegno bipartisan all’indipendenza di Taiwan era radicato nella convinzione che se Taiwan dovesse dichiarare l’indipendenza, probabilmente spingerebbe la Cina continentale a usare la forza contro l’isola. Pechino lo ha chiarito nella sua legge anti-secessione, in cui si afferma: “Nel caso in cui le forze secessioniste dell’indipendenza di Taiwan dovessero agire sotto qualsiasi nome o con qualsiasi mezzo per provocare la secessione di Taiwan dalla Cina … lo Stato impiegherà mezzi non pacifici e altre misure necessarie per proteggere la sovranità e l’integrità territoriale della Cina”11.
La maggior parte degli esperti americani prende in parola la Cina; un recente sondaggio del CSIS (Center for Strategic and International Studies) ha rilevato che il 77% ritiene che la Cina continentale invaderebbe immediatamente Taiwan se dichiarasse l’indipendenza12.
In effetti, i funzionari statunitensi credono da tempo che Washington debba essere ferma nel non sostenere l’indipendenza di Taiwan per dissuadere Taipei dall’intraprendere azioni che potrebbero provocare un attacco. Mentre alcuni taiwanesi desiderano il giorno in cui potranno perseguire l’indipendenza de jure, anche loro capiscono che così facendo probabilmente si scatenerà un attacco, motivo per cui il sostegno allo status quo tra i cittadini dell’isola rimane forte. Secondo un sondaggio di lunga data, più taiwanesi vogliono mantenere lo status quo a tempo indeterminato (28,6%) rispetto a qualsiasi altra opzione, mentre la seconda risposta più popolare è mantenere lo status quo e decidere in un secondo momento (28,3%). Solo il 5% degli intervistati desidera perseguire l’indipendenza il prima possibile13.
Alcuni sostengono che Joe Biden si è semplicemente espresso male – in effetti, dopo l’intervista del presidente, la Casa Bianca ha chiarito che la politica degli Stati Uniti non è cambiata. Ma i funzionari di Pechino hanno inteso questo discorso come un’ulteriore prova che gli USA si stanno allontanando dalla loro politica di una sola Cina. Essi vedono questa dichiarazione insieme all’osservazione della portavoce Nancy Pelosi secondo cui “spetta a Taiwan decidere” se dichiarare l’indipendenza e concludono che è in corso uno sforzo coordinato per cambiare la politica degli Stati Uniti. I rappresentanti cinesi notano anche l’appello dell’ex segretario di stato Mike Pompeo agli Stati Uniti a riconoscere Taiwan come Paese indipendente e la raccomandazione dell’ex Segretario alla Difesa Mark Esper di abbandonare la politica della Cina unica e interpretano tali cambiamenti come sostegno bipartisan alla secessione dell’isola da Pechino.
L’abbraccio della chiarezza strategica da parte del presidente Biden è un “gradito” e dovuto adeguamento alla politica degli Stati Uniti, ma un corollario fondamentale di tale cambiamento dovrebbe essere un preciso messaggio che tale impegno non sarebbe operativo se Taiwan dovesse provocare una crisi dichiarando unilateralmente l’indipendenza. Inoltre, il passaggio alla chiarezza strategica può e deve essere fatto in modo coerente con la politica statunitense di una sola Cina. Ultimo punto e più importante, le parole devono essere abbinate alle azioni se si vuole che abbiano l’effetto desiderato di scoraggiare la Cina e rassicurare gli alleati14.
Resta perciò ancora molto da fare se si vuole mantenere la stabilità nell’Indo-Pacifico, come dimostrato dalle mosse di Washington lo scorso 20 ottobre, quando Taiwan ha firmato un contratto di servizi tecnici da 2,49 miliardi di NT$ (77,8 milioni di USD) con gli Stati Uniti per migliorare le prestazioni dei suoi sistemi di difesa aerea Patriot nell’intercettazione dei missili dell’Esercito popolare di liberazione.
In base al contratto quinquennale, che durerà fino alla fine del 2027, gli Stati Uniti invieranno a Taiwan tecnici ed esperti degli appaltatori della difesa Lockheed Martin e Raytheon Technologies, secondo quanto annunciato dal Governo di Washington.
Il segretario di Stato USA Antony Blinken e l’ammiraglio Michael Gilday, il capo delle operazioni navali statunitensi, hanno entrambi lanciato nuovi avvertimenti in questi giorni, secondo cui la tempistica della Cina per il ricongiungimento con Taiwan potrebbe essere accelerata: “Quello che abbiamo visto negli ultimi 20 anni è che hanno mantenuto ogni promessa che avevano fatto prima di quanto avevano detto che l’avrebbero mantenuta”, ha detto Gilday all’Atlantic Council, un influente think tank politico statunitense. “Quindi, quando parliamo della finestra del 2027 nella mia mente, quella deve essere una finestra del 2022 o potenzialmente una finestra del 2023”, ha detto, aggiungendo: “Non posso escluderlo. Non intendo affatto essere allarmista nel dirlo. È solo che non possiamo desiderare che vada via”15.
Se la Cina concluderà che gli Stati Uniti stanno sostenendo l’indipendenza di Taiwan, risponderà intensificando la sua già dura campagna di pressione contro Taiwan. Ciò probabilmente includerebbe l’invio di più aerei militari e navi da guerra attraverso la linea mediana nello Stretto di Taiwan, l’imposizione di ulteriori sanzioni sui prodotti taiwanesi, l’ulteriore limitazione della partecipazione di Taiwan alle organizzazioni internazionali e l’eliminazione di alcuni dei suoi restanti partner diplomatici. Di conseguenza, Taiwan si troverebbe meno sicura.
Favorire l’aggressività di Taiwan mette a rischio la sicurezza regionale
Nel Mar Cinese Meridionale, la Repubblica Popolare Cinese è l’attore più assertivo, ma non quello che rivendica il territorio più ampio, un ruolo che ricopre invece proprio Taiwan16.
Tutto nasce dalla “linea degli undici punti” di una mappa pubblicata dal Guomindang (GMD) nel 1947, prima di perdere la guerra civile e rifugiarsi sull’isola. Quella mappa è rimasta alla base delle rivendicazioni territoriali di Pechino, che negli anni Cinquanta ha però rimosso due “linee” in corrispondenza del Golfo del Tonchino (racchiuso tra il Vietnam nordorientale e l’isola di Hainan), mentre rimane adottata da Taipei nella sua versione più estesa. Nella sua Costituzione, Taiwan infatti rivendica ancora la sovranità sull’intero territorio cinese.
La “linea degli undici punti” comprende tutti e quattro i gruppi di isole del Mar Cinese Meridionale (Pratas, Paracelso, Spratly e Macclesfield Bank come le chiamano gli occidentali) così come le acque a esse circostanti. Non si tratta di un puro esercizio teorico: l’amministrazione di Kaohsiung, infatti, controlla le isole Pratas, arcipelago strategico sulla rotta da Hainan al Pacifico orientale, attraverso la guardia costiera; mentre a Taiping, isola più grande delle Spratly e nell’intero Mar Cinese Meridionale, dal 1956 risiedono forze militari taiwanesi – oggi circa duecento.
Negli scorsi anni il governo taiwanese ha lamentato delle “azioni unilaterali e imprudenti” da parte di “Paesi dell’area,” ricordando le proprie rivendicazioni e citando i “quattro principi” e le “cinque azioni” della presidente Tsai Ing-wen. Questi fanno riferimento alla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 e promuovono la libera navigazione, il diritto di pesca, le consultazioni multilaterali, la cooperazione scientifica e i progetti umanitari, proponendo di stabilire proprio a Taiping un centro di collaborazione regionale. Un cambio di rotta rispetto all’ex-presidente Ma Ying-jeou del GMD, che giustificava invece le rivendicazioni marittime attraverso riferimenti storici all’impero Qing e che aveva ufficialmente visitato Taiping, nonostante le proteste di Stati Uniti e Vietnam.
Nonostante Tsai sia stata ripetutamente invitata ad abbandonare le rivendicazioni marittime, la presidente non si è mai mossa in questo senso poiché, da una parte, per Taiwan ciò significherebbe allontanarsi dal “principio di un’unica Cina” e, dall’altra, suggerirebbe una cesura storico-identitaria e una potenziale dichiarazione di indipendenza come “Repubblica di Taiwan”. Pechino, negli anni, ha infatti supportato Ma e continua a monitorare che l’attuale governo non si discosti troppo dalla linea degli undici punti.
Uno schema, quest’ultimo, che si ripete anche ad altre latitudini, per esempio nel Mar Cinese Orientale dove le isole Senkaku/Diaoyu sono rivendicate sia dalla Cina sia dal Giappone. Pechino ha chiesto appoggio a Taiwan per “salvaguardare la sovranità nazionale e l’integrità territoriale”, dopo che l’amministrazione della città giapponese di Ishigaki ha deciso di rinominare l’area contesa da Tonoshiro a Tonoshiro Senkaku. Un invito, quello cinese, che era stato raccolto dalla città taiwanese di Yilan (guidata dal GMD) che, a sua volta, ha cambiato denominazione dell’area, arrivando a ipotizzare l’apertura di un ufficio ad hoc. Tsai stessa ha inoltre rivendicato la sovranità di Taiwan sulle isole17.
Nel frattempo, l’emergenza dovuta al Covid-19 ha avvicinato Taipei alle potenze regionali, a partire proprio dal Giappone, i cui rapporti con Pechino sono in forte peggioramento. Oltre alla mancata visita di Stato di Xi Jinping e al programma China Exit, l’ex Primo Ministro Shinzo Abe aveva preso una posizione forte sui capitoli “interni” della Repubblica Popolare: da Hong Kong, attraverso marcate critiche alla legge sulla sicurezza nazionale, a Taiwan, chiedendo la partecipazione dell’isola all’Assemblea generale dell’Organizzazione mondiale della sanità e citando Taipei come “partner estremamente importante” nel rapporto annuale degli affari esteri. Non solo: Tokyo ha provato a coinvolgere Taiwan nel suo tentativo di rilancio del Quadrilateral Security Dialogue.
Ma la questione sulle “isole contese” nel Mar Cinese Meridionale è stata complicata soprattutto dalle ingerenze diplomatiche e militari statunitensi.
Nel luglio 2016 la Corte d’arbitraggio ad interim dell’Aja ha rigettato la sovranità di Pechino; pur essendo stata avanzata ufficialmente dalle Filippine, la causa legale è stata preparata e discussa da avvocati nordamericani e britannici di primo piano, alcuni dei quali riconducibili al team legale di Hilary Clinton18.
La posizione della Cina di non accettare e di non partecipare all’arbitrato sottoposto unilateralmente dalle Filippine trova però pieno fondamento nel diritto internazionale.
Prima di tutto, la parte cinese ha emesso una dichiarazione di eccezione facoltativa sulla base dell’articolo 298 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, che esclude in maniera precisa la delimitazione delle acque territoriali e le attività militari dalle procedure di arbitrato obbligatorie (ad oggi più di 30 Paesi hanno emesso simili dichiarazioni19). Ad eccezione degli Stati Uniti che non aderiscono alla Convenzione, gli altri quattro membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite si sono espressi sulle eccezioni facoltative. Non accettando né partecipando all’arbitrato, la Cina non ha fatto altro che esercitare un proprio diritto legittimo riconosciutole dal diritto internazionale.
In seconda battuta, le Filippine, invocando l’arbitrato, hanno voltato le spalle non soltanto alla promessa di risolvere le dispute territoriali con la Cina attraverso negoziati bilaterali ma anche al contenuto della Dichiarazione sulla Condotta nel Mar Cinese Meridionale (DOC), riconosciuta dalla RPC e da tutte le nazioni dell’ASEAN20.
La Cina confina in totale con 14 Paesi e con 12 di essi ha già risolto le controversie sulla delimitazione territoriale attraverso equi negoziati bilaterali; si tratta per la maggior parte di Stati medio-piccoli, nessuno dei quali ha censurato l’operato cinese durante le procedure di soluzione delle controversie. Tutti gli accordi e i trattati sui confini sono stati firmati sulla base di negoziati equi ed amichevoli tra le parti in causa. Inoltre, il fatto che le Filippine abbiano sottoposto unilateralmente la richiesta di arbitrato obbligatorio senza aver prima informato la parte cinese, costituisce una violazione dei principi della Convenzione.
La posizione di Pechino è che le varie controversie debbano essere risolte attraverso meccanismi regolari di reciproca consultazione e tengano conto dei principi di mutuo sviluppo, cooperazione, pace, stabilità e libertà di navigazione.
Al contrario, l’ex Presidente delle Filippine Benigno Aquino aveva firmato alcuni anni fa un accordo segreto di cooperazione che prevedeva la concessione agli Stati Uniti di cinque basi militari funzionali a completare il dispositivo di spionaggio anticinese, rappresentato dall’isola di Diego Garcia nell’Oceano Indiano (la più importante base navale della Marina a stelle e strisce), Pine Gap in Australia, Okinawa in Giappone (32 installazioni militari) e dall’isola coreana di Jeju (dove si trova la base navale USA di Gangjeong).
Si tratta dell’eredità del Pivot to Asia voluto dall’ex Presidente degli Stati Uniti, Obama, che già allora nell’area dell’Indo-Pacifico contava su 368.000 soldati in servizio attivo e quasi 400 basi militari per l’accerchiamento della Repubblica Popolare Cinese21.
Conclusioni
Legalmente, Taiwan non è uno Stato, pur soddisfacendo molti dei criteri legali della statualità, avendo una popolazione, un territorio definito e un governo indipendente ed efficace. La capacità di entrare in rapporti legali-diplomatici con altri Stati è però problematica, proprio perché la maggior parte degli altri Paesi non accetta che Taiwan goda dei diritti giuridici di uno Stato.
I diritti che mancano a Taiwan includono la piena rappresentanza diplomatica, la capacità di stipulare trattati multilaterali e l’appartenenza a organizzazioni internazionali come l’ONU.
Almeno cinque fattori pesano a favore del fatto che Taiwan faccia parte della Cina:
per più di 40 anni, sia la RPC che la “RDC” hanno concordato che Taiwan fa parte di “una Cina” (pur contestando il legittimo governo su di essa), e la “Costituzione della RDC” lo dice ancora;
nessuno Stato estero (compreso il Giappone) ha affermato alcuna pretesa concorrente su Taiwan;
le potenze alleate e l’ONU affidarono Taiwan all’allora Governo cinese già dopo la Seconda Guerra Mondiale;
le Nazioni Unite non hanno considerato Taiwan un territorio colonizzato, soggetto al diritto all’autodeterminazione, dopo il 1945;
pochi Stati negano esplicitamente che Taiwan faccia parte della Cina e la maggior parte di essi ha acconsentito alla rivendicazione territoriale cinese.
Nel dicembre 2021 anche il Nicaragua con una nota – “Il governo della Repubblica Popolare Cinese è l’unico legittimo rappresentante di tutta la Cina, e Taiwan è parte inalienabile del territorio cinese” – ha chiuso i suoi rapporti ufficiali con l’isola e sono rimasti solo 14 Stati a riconoscere Taiwan: Belize, Città del Vaticano, Guatemala, Haiti, Honduras, Isole Marshall, Nauru, Palau, Paraguay, Saint Kitts e Nevis, Saint Lucia, Saint Vincent e Grenadine, e Swatini e Tuvalu22.
Anche uno dei più illustri avvocati internazionali dell’Australia, il defunto James Crawford, ex giudice della Corte internazionale di giustizia, concluse che Taiwan era territorio cinese, con una governance contestata: “Se Taiwan è territorio cinese dal 1945, non importa che la Repubblica popolare cinese non l’abbia mai governato. La sovranità statale sul territorio è distinta dalla capacità di un particolare governo di controllare quel territorio in un dato momento. Nelle guerre civili, le forze ribelli spesso detengono il territorio senza intaccare la sovranità dello Stato. In effetti, questa è la base della pretesa della Cina di avere il diritto di riprendere Taiwan con la forza: che desidera ripristinare il controllo sul territorio cinese detenuto dagli insorti in una guerra civile incompiuta. I Governi normalmente hanno il diritto, ai sensi del diritto internazionale, di sopprimere la ribellione nel loro territorio, anche da parte delle forze residue di un precedente Governo sconfitto. In questa luce, il recente comportamento cinese non può essere visto come un’aggressione, come viene spesso descritto in Occidente, ma come una legittima applicazione dei propri diritti. Inoltre, se Taiwan fa parte della Cina, gli altri Stati non hanno il diritto legittimo di interferire in quella che è una questione interna. Da questo punto di vista, Taiwan, non essendo uno Stato, non ha diritto all’autodifesa contro gli sforzi della Cina per ristabilire l’ordine nel proprio territorio e altri Stati violerebbero il diritto internazionale aiutando Taiwan a resistere”23.
Rimangono perciò solo due ostacoli alla riunificazione pacifica di Taiwan alla madrepatria cinese.
Le ambizioni interne di un settore del PDP — quello più vicino al presidente Tsai — che avrebbe voluto consolidare la propria base di potere all’interno del partito, di mantenere la tensione con Pechino come risorsa elettorale alle elezioni municipali di novembre nelle quali tuttavia è stato sconfitto e, infine, di ottenere il riconoscimento diplomatico tanto atteso dagli Stati Uniti24. Per il PDP, la rivalità sino-americana rappresenta una finestra di opportunità. Se ai suoi tempi il riconoscimento da parte degli Stati Uniti della Repubblica popolare cinese significava una cascata di riconoscimenti a favore di Pechino, forse l’abbandono della politica della “Cina unica” da parte di Washington – prima di fatto e poi di diritto – potrebbe essere il primo passo per il riconoscimento dell’isola come Stato sovrano. Al contrario, nel 1992 vi era stata un’intesa tra Pechino e Taipei denominata Consensus (contro il separatismo di Taiwan).
Le ingerenze esterne; Taiwan e Stati Uniti d’America hanno raggiunto “il consenso sul mandato negoziale” su 11 aree – tra cui clima, agricoltura e commercio digitale – con l’obiettivo di lavorare alla definizione di un accordo nell’ambito della “Iniziativa Usa-Taiwan sul commercio del XXI secolo” annunciata lo scorso giugno, pochi giorni dopo la “Iniziativa economica per l’Indo-Pacifico” che escludeva Taipei. L’intesa, se raggiunta, non sarà un accordo di libero scambio, su cui invece puntava l’isola, ma diverrà comunque un passo in avanti verso di esso.
Taiwan è il nono partner commerciale degli USA e Joe Biden ha confermato recentemente che gli Stati Uniti difenderebbero militarmente Taiwan in caso di attacco cinese.
La Cina eserciterà tutti gli sforzi per raggiungere la riunificazione pacifica. Si riserva però la possibilità di prendere tutte le misure necessarie per proteggersi dalle interferenze esterne e da tutte le attività separatiste, adottando misure non pacifiche per risolvere la questione di Taiwan come ultima risorsa.
NOTE AL TESTO
1 Andrew Glass, U.S. recognizes communist China, “Politico”, 15 dicembre 2018.
2 Daniele Perra, Alcune note su Cina e Taiwan, www.eurasia-rivista.com, 2 agosto 2022.
3 Ibidem.
4 ISPI, Taiwan, sfida tra potenze, 3 agosto 2022.
5 Ibidem. Il Ministero degli Esteri cinese ha detto di voler sanzionare Pelosi e la sua famiglia “per le interferenze esterne negli affari interni della Cina e per aver seriamente minato la territorialità e la sovranità della Cina”.
6 Tra il 4 e l’8 settembre 1951, gli Stati Uniti radunarono un certo numero di Paesi per quella che descrissero come la Conferenza di Pace di San Francisco. Né la RPC né l’Unione Sovietica ricevettero un invito. Il trattato firmato in questa riunione, comunemente noto come Trattato di San Francisco, includeva un articolo in base al quale il Giappone rinunciava a tutti i diritti, titoli e pretese su Taiwan e sulle isole Penghu. Questo trattato violava le disposizioni della Dichiarazione delle Nazioni Unite firmata da 26 Paesi – inclusi Stati Uniti, Regno Unito, Unione Sovietica e Cina – nel 1942, i principi fondamentali della Carta delle Nazioni Unite e le norme fondamentali del diritto internazionale. La RPC è stata esclusa dalla sua preparazione, redazione e firma, e le sue decisioni sul territorio e sui diritti sovrani della Cina – inclusa la sovranità su Taiwan – sono quindi illegali e non valide. Il Governo cinese ha sempre rifiutato di riconoscere il Trattato di San Francisco e non ha mai deviato da questa posizione sin dall’inizio. Anche altri Paesi, tra cui l’Unione Sovietica, la Polonia e la Cecoslovacchia, la Repubblica Popolare Democratica di Corea, la Mongolia e il Vietnam, hanno rifiutato di riconoscere l’autorità del documento”. Cfr. CeSEM, 12 agosto 2022.
7 Cctv.com, 22 novembre 2022.
8 Eugenio Buzzetti e Francesco Russo, Taiwan ha deciso un aumento record della spesa militare, AGI, 25 agosto 2022.
9 ISPI, Taiwan, sfida sullo Stretto, 29 agosto 2022.
10 RSI, USA: verso la vendita di altre armi a Taiwan, 30 agosto 2022.
11 Shi Jiangtao, Beijing may use Anti-Secession Law to seek Taiwan reunification, Chinese foreign minister says, “South China Morning Post”, 20 settembre 2022.
12 Scott Kennedy – CSIS, It’s Moving Time: Taiwanese Business Responds to Growing U.S.-China Tensions, ottobre 2022.
13 David Sacks, While Pledging to Defend Taiwan from China, Biden Shifted on Taiwan Independence. Here’s Why That Matters, “Council Of Foreign Relations”, 22 settembre 2022.
14 Ibidem.
15 Fars News, US signs $78 Million Deal to maintain Taiwan’s Patriot Air Defense System, 21 ottobre 2022.
16 Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, la Cina ha cercato di recuperare la propria sovranità non solo su Taiwan ma anche sulle isole Penghu, Xiisha e Nansha, occupate illegalmente dal Giappone durante il conflitto.
17 Lorenzo Lamperti, Taiwan e il precario equilibrio nel Mar Cinese Meridionale, ISPI, 29 luglio 2020.
18 Stefano Vernole, Trump e la Cina, in “Eurasia” rivista di studi geopolitici, 1/2017, p. 144.
19 Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, New York, 10 dicembre 1982, pp. 119-120.
20 ASEAN, Joint Statement on The Application of The Code for Unplanned Encounters at Sea in The South China Sea, asean.org, settembre 2016.
21 Il Pentagono ha suddiviso il mondo in cinque zone militari, ciascuna supervisionata da un comando regionale; la Cina è sotto la sorveglianza dell’USPACOM (U.S. Pacific Command).
22 La rottura tra Managua e Taipei è intervenuta in concomitanza con un’importante iniziativa statunitense, il cosiddetto Summit for Democracy, riunito online il 9 e 10 dicembre 2021, in chiara funzione anti-Pechino. Nel suo comunicato, Managua ha sottolineato che “Il Nicaragua non è una colonia di nessuna potenza e rivendica la dignità e il decoro nella legittima difesa dell’indipendenza e della sovranità nazionali”, cfr. Barbara Onnis e Francesca Congiu, Fino all’ultimo Stato. La battaglia diplomatica tra Cina e Taiwan, Carocci, Roma, p. 169. Il Nicaragua ha deciso di uscire anche dall’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) che ha definito “un’organizzazione attraverso la quale gli Stati Uniti cercano di imporre la propria egemonia e di sopraffare la volontà dei popoli”.
23 Explained: Taiwan international status, & can China take control by force?, “Business Standard”, 18 agosto 2022.
24 Sabato 26 novembre 2022 si sono svolte le elezioni locali a Taiwan che sono state vinte in maniera netta dal Guomingang. Il GMD ha ora il controllo di 13 delle 22 municipalità tra città, contee e municipalità speciali. A questo punto, le elezioni presidenziali del 2024 saranno cruciali per definire i futuri rapporti tra Taiwan e la Cina continentale. Cfr. Lorenzo Lamperti, Taiwan, che cosa cambia dopo le elezioni locali, ISPI, 1 dicembre 2022.
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