RELAZIONI INSTABILI: LA PRESENZA CINESE NEI BALCANI

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di Veronica Vuotto

Gli ultimi dieci anni hanno visto un’espansione sempre crescente, sia in termini economici che politici, della Cina verso i Balcani occidentali. Un’espansione che si traduce principalmente in investimenti e progetti infrastrutturali, i quali, inevitabilmente, accrescono l’influenza di Pechino nell’area.

Possiamo far risalire l’inizio dell’avvicinamento diplomatico della Cina ai Paesi dell’Europa sud-orientale con il primo forum 17+1, un esempio che potrebbe far comprendere la complessità delle relazioni tra la Cina e l’Unione Europea.

Questo forum di cooperazione è nato nel momento in cui i Paesi dell’Europa Centro-Orientale (PECO) hanno rafforzato i legami bilaterali con Pechino anziché aderire alla politica comune dell’UE verso la Cina; questo spostamento di orizzonte trova causa non trascurabile anche nel peggioramento della situazione economica – in particolare dopo la crisi del 2008; da qui, la conseguente necessità di invogliare e convogliare gli investimenti esteri verso le proprie economie e territori.

Ed è così che il forum 17+1 ha avuto inizio, dove l’1 è la Cina, mentre i 17 sono rappresentati da 12 paesi membri dell’Unione (Repubblica Ceca, Estonia, Grecia (che ha aderito al gruppo solo nel 2019), Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Romania, Slovacchia e Slovenia) insieme ai 5 Stati balcanici: Albania, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro, Macedonia del Nord, Serbia.

A partire dal 2012, anno della sua fondazione avvenuta a Budapest, gli incontri di questo gruppo si tengono con cadenza annuale e, ogni incontro, vede riunirsi tutti i capi di Governo dei Paesi partecipanti.

Dal 2012, ci sono stati nove incontri, l’ultimo dei quali si è tenuto nel febbraio del 2021, dopo un anno di stallo del format.

Il vertice del 2020, infatti, che era previsto a Pechino ad aprile, inizialmente posticipato all’autunno, non si è poi più tenuto. Se da una parte le ragioni di tale cancellazione erano dovute alla pandemia di Covid-19 e i numerosi lockdown, gli ultimi tempi, in realtà, hanno palesato un’incrinatura più o meno accentuata nei rapporti tra la Cina e i Paesi PECO.

Ciò lo si può evincere anche dal comunicato della Commissione Europea che, nel marzo 2019, ha definito la Cina come “un concorrente economico nel perseguimento della leadership tecnologica” e “un rivale sistemico che promuove modelli alternativi di governance“, sottolineando, inoltre, anche il la modificazione dell’equilibrio che nel tempo si era venuto a creare tra sfide e opportunità.

La data di fondazione del gruppo 17+1 è importante visto, infatti, che soltanto un anno più tardi, nel 2013, Xi Jinping annuncerà l’avvio del progetto della One Belt One Road, divenuto poi BRI, Belt and Road Initiative.

Non vi è dubbio alcuno sulla necessità di uno sviluppo infrastrutturale dei Paesi in questione, così come non vi è dubbio sull’aiuto che le risorse finanziarie cinese possono ancora oggi garantire.

La posizione geostrategica dei Paesi PECO è vista da Pechino come una porta di accesso di straordinaria rilevanza al mercato dell’UE, oltre ad essere un’importante via di transito per la BRI, un progetto ambizioso per rafforzare i legami commerciali tra l’Asia orientale, l’Europa e l’Africa orientale.

Il forum 17+1 si concentra principalmente su infrastrutture, trasporti e logistica, ma la collaborazione si è nel tempo, e sempre con crescente costanza – ampliata fino ad includere nei lavori anche le questioni relative al commercio di materie prime e servizi, istruzione e cultura, turismo, nuove tecnologie, economia verde e finanza (Cooperazione tra Cina e Paesi europei, 2015).

Inoltre, un giocare un ruolo di primo piano in Europa garantirebbe a Pechino la possibilità di un maggior dialogo con Bruxelles sul suo status di economia di mercato nel contesto dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), nonché, magari, tramite questi canali riuscire ad avviare un riavvicinamento con gli Stati Uniti.

Come detto in precedenza, i rapporti tra la Cina e alcuni di questi Paesi hanno subito, però, un cambio di direzione portando ad un raffreddamento – se non proprio creando delle crepe nelle loro relazioni. Il motivo principale di tale mutata traiettoria sta nel fatto che molti dei progetti infrastrutturali che erano stati scritti su carta, non hanno mai visto la luce, o magari continuano ancora oggi ad andare molto a rilento e a subire rallentamenti, facendo così dubitare i Governi sulla reale efficienza della cooperazione con il partner asiatico.

Esempi di questo possono essere gli ingenti investimenti che sono stati abbandonati nel settore energetico rumeno, come ad esempio quelli relativi alla centrale nucleare di Cernavoda; poi c’è anche il caso di Serbia e Ungheria le quali – sebbene siano tra le nazioni più vicine a Pechino – vedono l’ammodernamento della linea ferroviaria Belgrado-Budapest, un altro progetto molto importante, procedere a rilento.

C’è chi tra gli studiosi ipotizza per i Balcani che si siano avvicinati a Pechino il rischio della cosiddetta “trappola del debito”, teorizzazione più che altro di scuola e tutta da dimostrare, secondo la quale i Paesi PECO prenderebbero in prestito più di quanto possono permettersi per finanziare questi progetti, finendo così per indebitarsi, cadendo in questa “trappola”.

Questo non vale per tutti i Paesi, certamente, ci sono differenze tra realtà e realtà, scenario e scenario: ci sono, infatti, Paesi che ancora oggi supportano la cooperazione più marcata con la Cina, in primis la Repubblica Ceca, la Serbia e l’Ungheria; al tempo stesso, però, ci sono anche Paesi che invece preferiscono un’alleanza stretta con gli Stati Uniti, come l’Estonia, la Romania, la Polonia, la Lituania e la Lettonia; mentre la Croazia e la Bulgaria restano flessibili nelle loro posizioni.

Secondo il China Index 2021 che ha studiato e misurato l’influenza generale che il Partito Comunista Cinese ha su 46 Paesi in analisi, in determinati settori, i Paesi che sono meno esposti all’influenza e al soft power cinese sono, tra gli altri, la Lettonia (44esimo posto) e l’Albania (45esima).

La Serbia invece, il Paese dell’Europa orientale che è maggiormente sottoposta all’influenza della RPC, è al 27esimo posto nella classifica.

Nonostante ciò, gran parte dei Paesi hanno maturato dei dubbi su tale cooperazione: la Repubblica Ceca, ad esempio, si è rifiutata di partecipare all’ultimo summit dei 17+1, lamentando la mancanza di investimenti concreti, mettendo così in evidenza i contrasti tra Pechino e Praga.

Alcuni Stati non hanno voluto partecipare all’evento per la BRI tenutosi nel 2020, mentre altri ancora hanno firmato una dichiarazione con gli Stati Uniti al fine di bloccare l’espansione della rete 5G della Cina.

Il caso più rilevante è però l’abbandono, da parte della Lituania, dal gruppo 17+1, divenuto ormai 16+1. Tale decisione era stata annunciata dal Ministro degli Esteri lituano, Gabrielius Landsbergis, il quale riteneva la piattaforma cinese ormai divisiva dal punto di vista dell’Unione Europa e invitava i membri di quest’ultima a trovare un approccio 27+1 con la Cina che, nell’ottica del Paese baltico, potesse essere molto più efficace.

Lo stesso Landsbergis aveva precedentemente avanzato delle critiche verso Pechino per quanto riguarda gli investimenti infrastrutturali che avevano deluso le aspettative lituane.

Non si possono inoltre sottovalutare le decisioni prese negli ultimi tempi da parte del governo di Vilnius nei confronti della Cina: lo scorso maggio infatti, il governo lituano aveva preso salde posizioni per due dei temi più scottanti relativi alla Cina: lo Xinjiang e la questione Taiwan.

Vilnius ha infatti condannato, tramite una risoluzione non vincolante che è stata approvata, il “genocidio” mandato avanti dal governo cinese nei confronti della minoranza uigura nella regione cinese dello Xinjiang.

Al tempo stesso, forte è stato anche il sostegno della Lituania nei confronti di Taiwan, sostenendone la questione per l’indipendenza e ampliando i rapporti diplomatici tra i due, istituendo un ufficio di rappresentanza a Formosa.

Non sorprende la reazione poco diplomatica della Cina attraverso le parole di Hu Xijin, il direttore di Global Times, il quale ha dichiarato che «se il governo di Vilnius continua a comportarsi in modo folle, è destinato a subirne le conseguenze».

Anche l’Estonia ha fatto trapelare delle titubanze relative alla sua partecipazione al forum 17+1, in quanto la Cina sembra voler andare contro i valori dell’Unione Europea, soprattutto a causa della situazione interna relativa allo Xinjiang.

L’ultimo vertice dei 17+1 è stato visto come quasi un fallimento da molti analisti, alcuni dei quali ipotizzano anche un’eventuale dissoluzione del forum.

Lo stesso Xi Jinping era comunque consapevole dell’indebolimento dell’alleanza anche in relazione alle manovre più o meno diplomatiche delle altre potenze; motivo per cui la sua presenza al vertice si è rivelata di fondamentale importanza.

Si è visto un leader che ha cercato di offrire certezze agli Stati incerti toccando tematiche per loro importanti e delicate, come ad esempio la questione dei vaccini anti-Covid. Non è un caso che i media abbiano preso lo spunto per parlare di cosiddetta “diplomazia dei vaccini”, riferito appunto alla mossa di Pechino vista e presentata come un’abile iniziativa volta ad aumentare la sua influenza globale inviando le sue iniezioni di vaccini sviluppati dall’industria farmaceutica cinese, riempiendo un vuoto lasciato dai paesi occidentali i quali avevano acquistato tutte le dosi disponibili, subendo però ritardi nella produzione dei loro vaccini domestici.

La Serbia, in questo contesto, è l’esempio principale di Paese ricevente del vaccino cinese.

Nel discorso iniziale dell’ultimo incontro dei 17+1, tenutosi il 9 febbraio, Xi Jinping ha esordito spiegando come questo incontro avrebbe dovuto rappresentare il punto di partenza per “stilare un nuovo piano di cooperazione Cina-PECO” affinché sia ​​”più stabile, più solido e più lontano”.

Ha poi spiegato le tre linee principali che intende seguire: “formare piani e determinare progetti in base alla situazione attuale di ciascun paese, incoraggiare i paesi a trovare una posizione e utilizzare i loro vantaggi in cooperazione basata sulle proprie risorse“. Il discorso poi si è spostato su un altro tema fondamentale che è quello relativo alla transizione verde, designando il 2021 come “l’anno della cooperazione Cina-PECO per lo sviluppo verde e la protezione ambientale“, per poi passare alle tematiche connesse al commercio, all’innovazione tecnologica e all’economia, mettendo sul tavolo anche la possibilità di aprire nuovi mercati per i prodotti regionali e il raddoppio delle importazioni cinesi dei prodotti delle regioni dell’Europa centro-orientali.

Nonostante i tentativi fatti dal leader cinese, tra cui presiedere lui stesso i lavori anziché il premier Li Keqiang, resta comunque il fatto che Bulgaria, Romania e Slovenia, insieme ai tre Paesi baltici, non hanno inviato all’incontro i loro Primi ministri, bensì i loro rappresentanti a livello ministeriale.

Tra le cause di tali difficoltà riscontrate, non si può sorvolare sulla relazione tra Cina e Stati Uniti in un contesto internazionale nel quale molti Paesi – in vista anche dell’attuale situazione geopolitica che vede la Russia impegnata in un conflitto sul territorio europeo – “preferiscono” aderire alla linea di Washington anziché della Cina nascondendo i reali motivi dietro motivazioni di sicurezza nazionale.

Di conseguenza, i Paesi PECO che sono sotto la protezione della NATO – così come l’Unione Europea stessa – tendono a vedere il forum 17+1 come l’attuazione di una strategia di soft power cinese al fine di competere con Bruxelles per avere la meglio e influenzare le economie più deboli all’interno dell’Unione.

Non vi è comunque il dubbio che la forte presenza cinese nell’area balcanica degli ultimi dieci anni abbia portato dei benefici ai Paesi coinvolti e che dunque, nonostante i dubbi e a prescindere dalla sopravvivenza o meno dei 17+1, la cooperazione con la Cina può portare ulteriori vantaggi anche per il futuro.

Per analizzare nel dettaglio l’influenza cinese in questa parte di mondo, a partire dal 2012, un’analisi dettagliata è stata portata avanti da Vladimir Shopov attraverso il suo progetto “Mapping China’s rise in the Western Balkans”. Questo lavoro racchiude un insieme di dati e informazioni, con una panoramica generale su sei stati in particolare: Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Montenegro, Macedonia del Nord e Serbia.

Nella prima fase di questo studio vengono analizzate le linee base dell’avanzamento di Pechino nella regione balcanica, basate sostanzialmente su tre azioni: prima di tutto, vi è l’idea di dover sfruttare le debolezze della regione, quali l’instabilità geopolitica, la corruzione, l’emigrazione, il ridotto accesso al mercato europeo, e così via; il secondo punto riguarda il controllo da parte cinese che deve essere affermato su determinati settori, come l’energia, la politica, l’infrastruttura e la società; l’ultimo obiettivo, invece, è quello di creare una rete di partner interessati ad aumentare l’influenza cinese.

Per quanto riguarda l’Albania, vi è un legame anche storico che lega Tirana a Pechino che può essere rintracciato risalendo molti anni addietro, soprattutto quando a metà anni ‘70 lo sviluppo economico dell’Albania comunista dipendeva in larga parte dagli aiuti cinesi.

Gli anni del comunismo avevano impoverito molto il Paese, il quale cercava, a seguito della caduta del regime, di rialzarsi e cercare nuovi partner. Tirana sin da subito voleva entrare sotto l’ala dell’Occidente e della NATO mentre la Cina, già nei primi anni ‘2000, aveva degli interessi nel territorio, in particolar modo relativi alle infrastrutture; interessi che culminarono, poi, in una serie di investimenti cinesi a partire dal 2010.

Il commercio tra i due Paesi è cresciuto al punto che oggi la Cina è il terzo partner di esportazione dell’Albania. Per quanto riguarda la penetrazione dell’economia cinese, possiamo a proposito citare l’Aeroporto Internazionale di Tirana, unico aeroporto del Paese, costruito tra il 1955 e il 1957 e sottoutilizzato durante tutto il periodo della Guerra Fredda. Il suo funzionamento riprese solo a seguito della caduta del regime comunista e lavori di ristrutturazione divennero necessari a fine anni ‘90. Tali lavori furono inizialmente affidati, nel 2004, a un consorzio tedesco-statunitense per poi passare, nel 2016, al gruppo cinese China Everbright, per un investimento tra gli 80 e i 90 milioni di euro. Nel 2020, il gruppo albanese Kastrati Group ha acquistato la gestione dall’azienda cinese dietro un pagamento di circa 70 milioni di euro. Da allora non si sono registrati ulteriori investimenti cinesi nel Paese, dove la Cina continua a rafforzare la sua presenza diplomatica, soprattutto in vista di un miglioramento delle proprie capacità nei confronti del Kosovo. La situazione è certamente delicata, soprattutto se teniamo presenti i continui rinvii da parte dell’Unione Europea per l’adesione dell’Albania.

Tuttavia, nonostante questa frustrazione, il Paese cerca di non minare le sue relazioni con l’Occidente, motivo per cui guarda con attenzione ciò che avviene tra la Cina e l’UE.

Il focus continua con la Bosnia ed Erzegovina, uno Stato che sappiamo bene aver sofferto in grave modo la dissoluzione della Jugoslavia negli anni ‘90. Il Paese, ancora oggi vittima di una forte instabilità politica, ha comunque cercato negli ultimi decenni di rialzarsi e trovare posto nell’economia e nella politica internazionale. Motivo per cui gli investimenti esteri sono stati sempre di fondamentale importanza, sia da parte dei Paesi occidentali che da parte della Cina.

I primi investimenti cinesi hanno puntato al settore dell’energia, grazie ai quali è stato possibile, nel 2016, concludere il progetto relativo alla centrale termoelettrica di Stanari. Per quanto riguarda il settore delle infrastrutture, invece, possiamo menzionare l’importante tratto autostradale Sarajevo-Prijedor, o anche il tunnel autostradale Kanji-Buna, parte del progetto più ampio del corridoio autostradale di 340 chilometri che unisce l’Ungheria e la Croazia, passando per Sarajevo. Cinque su nove delle aziende interessate alla gara di appalto relative al tunnel che passerà per Buna sono cinesi.

La Bosnia, come detto prima, resta uno dei Paesi più emblematici dell’instabilità dei Balcani occidentali, fattore che comunque continua a generare l’interesse di attori non occidentali che vi vedono un’opportunità di ampliare la propria influenza nella regione; tra questi, appunto, la Cina la quale afferma la sua volontà di influenza attraverso la presenza di Huawei nel 5G, quella di due Istituti Confucio nel Paese e molti eventi legati alla Via della Seta.

Un caso leggermente più emblematico riguarda forse il Kosovo, uno Stato non riconosciuto dalla Cina e, di conseguenza, senza alcuna relazione diplomatica, ma che gioca un ruolo fondamentale per la Serbia, alleato principale della Cina nei Balcani. L’appoggio alla Serbia, infatti, è l’unico elemento capace di spiegare un minimo di interesse cinese per quest’area, anche perché il Kosovo non presenta alcuna rilevanza strategica per le rotte terrestri e marittime.

Per quanto riguarda il Montenegro, invece, fin dalla sua indipendenza ottenuta nel 2006, ha cercato di garantire il suo status di indipendenza e il proprio sviluppo economico. Di conseguenza, sin da subito il Presidente Djukanović ha cercato di stringere relazioni bilaterali con partner internazionali, tra cui appunto Pechino. La necessità di trovare partner internazionali ha fatto sì che il Montenegro divenisse, in un certo senso, nuovamente dipendente dalla Cina finendo in quella famosa “trappola del debito” sopra citata: incapace ormai di pagare i debiti alla Cina e con i rifiuti alle richieste di aiuto inviate a Bruxelles.

La Cina ha investito in Montenegro sia nel settore dell’energia che delle infrastrutture. Tra i progetti principali possiamo citare quello dell’autostrada A1, lunga 160 chilometri, che collegherà la città di Bar fino al nord della Croazia, passando per la capitale, Podgorica. Tale opera è stata possibile progettarla grazie a un investimento cinese di circa 840 milioni di euro da parte dell’export-import Bank of China. La China Road and Bridge Corporation ha iniziato i lavori nel 2014 e soltanto un tratto di 41 chilometri è stato portato a termine; non c’è una data certa di quando l’opera sarà conclusa.

Un altro Paese che ha visto la propria cooperazione con il partner asiatico mutare in diverse occasioni è la Macedonia del Nord, un Paese che sin dalla violenta dissoluzione della ex-Jugoslavia, ha cercato di rialzarsi e svilupparsi sia economicamente che politicamente.

Con la Cina, i rapporti non sono iniziati col piede giusto in quanto, a fine anni ‘90, il governo di Skopje aveva riconosciuto e supportato Taiwan facendo irritare il Pechino. Tuttavia, in questo caso, la Cina ha dovuto fare un passo indietro, nel momento in cui la Macedonia del Nord rappresenta un punto strategico nel percorso del progetto BRI grazie alla sua posizione geografica nel cuore dei Balcani. La cooperazione tra i due attori è, quindi, cresciuta durante il decennio che ha visto al centro dello scenario politico macedone L’Organizzazione Rivoluzionaria Interna Macedone – Partito Democratico per l’Unità Nazionale Macedone (VMRO-DPMNE), guidato da Nikola Gruevski, Primo ministro dal 2006 al 2016.

Durante questi anni, il Paese balcanico ha cercato di instaurare relazioni proficue con Paesi non-Europei, tra cui appunto la Cina, grazie alla quale è stato possibile concludere progetti importanti: un esempio ne è la realizzazione dell’autostrada A4, che collega la cittadina di Miladinovic, vicino alla capitale, alla città di Stip, nel centro del paese, per un tratto di 47 chilometri. Un prestito di circa 206 milioni di euro, emesso dalla Cina nel contesto della BRI, ha fatto sì che i lavori potessero iniziare nel 2014 e terminare nel 2018.

La situazione ha iniziato a mutare con la nuova stagione politica iniziata nel 2017 che ha visto il ritorno al Governo dei socialdemocratici. In questi anni, gli accordi con la Cina per altri progetti sono stati causa di forti scandali causati dalla mancanza di trasparenza negli accordi e ulteriori complicazioni a livello infrastrutturale. Infatti, il progetto autostradale Kicevo-Ohrid, che avrebbe dovuto collegare le due città da nord a sud per 53 chilometri, doveva essere conclusa entro il 2021, senza però successo, creando problemi tra i due Stati. Non a caso, il nuovo governo di Skopje, con tempi alquanto sospetti, negli ultimi anni ha iniziato a stringere relazioni con l’Unione Europea e gli Stati Uniti, trasformando il suo contesto politico e riorientando la sua politica internazionale, soprattutto a seguito dell’ingresso nella NATO nel 2020: sebbene l’annessione all’Unione Europea sembra essere ancora lontana, la Macedonia del Nord continua comunque a perseguire una politica pro-Europa.

Quello che è certo è che, in ogni caso, la Macedonia del Nord continua ad essere strategicamente importante per una Cina che vuol portare la BRI alla sua naturale destinazione, l’Europa. Per questo, dunque, si procede col finanziare il Paese in diversi settori, come ad esempio quello energetico -anche in vista di una transizione verde – come dimostra il crescente interesse cinese per lo sviluppo delle capacità energetiche idroelettriche del paese (si veda la costruzione della centrale elettrica di Kozjak).

Ultima ma non certo per importanza, la Serbia, un Paese importante per la Cina, così come quest’ultimo lo è ed è sempre stato per Belgrado.

Le relazioni diplomatiche con il Dragone risalgono ai tempi della Jugoslavia e alla politica di non-allineamento per, poi, arrivare ai nostri giorni e all’operazione Allied Force della NATO del 1999, un lungo periodo in cui la Serbia ha sempre cercato di avvicinarsi a Paesi quali la Cina e la Russia per ottenere supporto e risorse. Questo orientamento diplomatico e internazionale si protrae ancora oggi nonostante i negoziati in corso per l’annessione di Belgrado all’Unione Europea.

Lo stretto rapporto di amicizia tra i due Paesi si è visto anche nel contesto della pandemia di Covid-19, con il Presidente Aleksandar Vucic che ha più volte ringraziato Xi Jinping, definendolo un “fratello” della Serbia (si ricorderà anche il bacio del Presidente serbo alla bandiera cinese).

Tuttavia, oltre alla Cina, anche gli Stati Uniti e l’UE stanno aumentando il loro supporto e impegno per il Paese considerato la porta di accesso all’Europa per il mondo orientale, al punto che la Cina dovrà fare attenzione. Infatti, negli ultimi anni, si è visto crescere una sorta di malcontento sociale nei confronti di Pechino e dei suoi progetti infrastrutturali, fomentato su ragioni spesso pretenziose – questi progetti sembrano andar contro i requisiti ambientali, lavorativi e sanitari – ma spesso riconducibili ad un gioco di influenze tra potenze su un Paese strategico nella regione che si vorrebbe portare dalla propria parte.

Tra i progetti principali finanziati dalla Cina e portati a termine, possiamo citare la ferrovia Belgrado-Stara Pazova che collega la capitale alla città di Novi Sad, nel nord. Questo progetto si inserisce in un progetto ferroviario all’avanguardia più ampio che collegherà Belgrado a Budapest. I lavori per la ferrovia Belgrado-Stara Pazova, lunga 34.5 chilometri e che permette il passaggio dei treni ad alta velocità, sono iniziati nel 2017 e conclusi nel marzo 2021. Il costo totale è stato di 290 milioni di euro, gran parte dei quali finanziati dalla Import-Export China Bank.

Seppur non parte del focus Mapping China’s rise in the Western Balkans, possiamo menzionare anche un progetto parte del soft power cinese nei Balcani che riguarda la Croazia e, in particolar modo, al progetto del ponte di Pelješac (o Sabbioncello): si tratta di un ponte che, dal luglio 2022, unisce la città di Dubrovnik, a sud della Croazia, con tutta la restante parte del Paese, senza dover passare per la Bosnia ed Erzegovina. Tale progetto ha un’importanza strategica, in quanto potrebbe facilitare l’ingresso di Zagabria, capitale della Croazia, nella zona Schengen. Il progetto era già iniziato nel 2007 su iniziativa delle autorità croate per, poi, subire uno stallo nel 2012 a seguito della crisi economica.

Nel 2015 è stato riavviato, non con poche difficoltà, dovute principalmente allo scetticismo della Bosnia ed Erzegovina che temeva tale progetto potesse diventare un ostacolo per il passaggio delle navi dal porto di Neum. Per andare incontro al vicino e fugarne i dubbi, la Croazia ha stabilito l’altezza del ponte a 55 metri, in modo da non intaccare il passaggio delle navi.

L’importanza di tale progetto si può notare anche dalla decisione da parte della Commissione Europea di finanziare l’85% dei lavori con fondi europei, per un totale di 357 milioni di euro.

La gara d’appalto è stata vinta dalla China Road and Bridge Corporation, facendo così di questo progetto una delle più importanti e imponenti opere infrastrutturali che vedono coinvolta, e che hanno tenuto insieme, la Cina e l’Unione Europea.

Come possiamo vedere, l’importanza della presenza cinese in quest’area dell’Europa orientale gioca un ruolo strategico molto importante, sia per la Cina che per i Paesi coinvolti. Come in ogni situazione, i benefici sono tanti così come possono essere gli eventuali rischi derivanti dalle cooperazioni, in un contesto geopolitico poco stabile e tenendo poi conto che ciò che la Cina cerca di costruire – sia fattivamente che a livello diplomatico e e relazionale – all’interno del vecchio continente, inevitabilmente, andrà a riflettersi sui rapporti tra Pechino, Bruxelles e Washington e a scontrarsi con gli interessi di questi attori.

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