di Yohann Sparfell
Traduzione dal francese a cura di Maxence Smaniotto
Come per ogni oggetto di nostro interesse in questo mondo neoliberale, spesso abbiamo una visione superficiale della geopolitica, visione che ci permette solo di formarci un’opinione o di avvicinarci ad essa in modo superficiale. Da quel momento in poi, ci poniamo in una posizione intellettuale volta a razionalizzare gli eventi legati alle relazioni internazionali per cercare di seguire il movimento generale che essi generano (cioè per cercare di dedurne una finalità e, sempre, mantenendo un ritardo temporale), per cercare di dedurre uno scopo e, sempre un passo indietro, per subire il minor disagio possibile, o di criticarne la validità per negarne il vero e profondo significato per paura di dover riflettere su noi stessi e sulle nostre pretese idealistiche, mettendo al contempo in dubbio le nostre nuove utopie globaliste (che si rivelano in realtà: negando la realtà).
Nel primo caso, tendiamo a fare della geopolitica un semplice strumento deduttivo dei nostri calcoli strategici (rimanendo allo stato di “matematica dottrinale” lontana dal futuro del mondo), nell’altro caso, o preferiamo ignorare le direzioni che stanno prendendo le relazioni internazionali e inter-civili e ripieghiamo sulla presunta superiorità dei nostri pregiudizi nazionali e dottrinali, attualizzati dalla postmodernità, o ci accontentiamo di denunciare la sua imbarazzante propensione a far emergere alcuni aspetti inevitabili dell’uomo nella società, che poi macchiano i presunti capricci ideologici progressisti.
Come per l’autorità e per molti altri concetti così come li intendiamo oggi, la superficialità delle nostre interpretazioni attuali, perché non sappiamo più confrontarle con l’esperienza, perché le manteniamo allo stato di astrazioni, ci porta a generare un dualismo che, per una civiltà veramente consapevole della complessità della vita umana e radicata tra passato e futuro, non avrebbe posto.
Per il resto, la nostra interpretazione del radicamento non ci porta a farne un semplice attaccamento a una terra, ma l’espressione stessa di una vicinanza a quelle “cose” che ci circondano e che fanno tanto per noi quanto loro. Il dualismo è infatti nel nostro tempo il sintomo di una consumata estraneità alle “cose”, che possiamo poi descrivere e allontanare da noi stessi come semplici oggetti. In altre parole, per quanto riguarda la geopolitica, potremmo far finta che semplicemente non esista, così come, al contrario, potremmo trasformarla in un oggetto concettuale, uno strumento dei nostri impulsi razionalizzanti. Oggi è chiaro che non siamo più in grado di comprendere la vera posta in gioco, perché non sappiamo più pensarla come un test di Realtà.
Pensare alla geopolitica significa innanzitutto ammettere che essa è di fatto ineludibile, perché è uno dei modi principali con cui possiamo affrontare questi comportamenti (modi di portare insieme, di produrre in comune) di fronte alle “cose” che strutturano profondamente i nostri spazi di vita.
La geopolitica è prima di tutto nient’altro che una parola, ma per tutto questo e per come è composta (geo-politica), questa parola ispira verso uno di quei comportamenti particolari che ci legano alle cose del nostro spazio, e a nessun altro.
Questa parola evoca una verità sepolta nel profondo del nostro essere che non sappiamo più considerare in tutta la sua primordialità e forza. Siamo diventati sordi alle evocazioni che emanano dalla radice delle nostre esistenze e ci legano agli Altri, alle cose come agli esseri, e preferiamo prestare la nostra attenzione al mormorio invadente delle idee e delle astrazioni, così come alle credenze, purché nessuna incertezza venga a disturbare la loro rassicurante posizione dominante.
Quindi, piuttosto che vedere la parola geopolitica come una semplice combinazione delle parole “geografia” e “politica”, sarebbe più corretto vederla come l’incontro tra lo spazio e un certo ordine singolare, almeno in relazione al significato spirituale di queste due parole: spazio e ordine.
Che cosa significa allora questo raduno? Che in uno spazio creato da noi stessi, abbiamo “poeticamente” trovato il nostro mondo attraverso il pensiero nella sua forma più essenziale (al di là di ogni razionalizzazione).
La geopolitica è quindi un pensare il mondo.
Ora, pensare il mondo significa creare uno spazio integrando in esso i “luoghi” singolari a partire dai quali possiamo concepire un ordine (integrando in esso le “cose” che poi acquistano un significato e un’esistenza propria in relazione a questo spazio).
Pensare il mondo significa quindi creare spiritualmente uno spazio in cui si incontrano il mondo inferiore della materia, il mondo superiore dell’armonia cosmica, gli uomini mortali e gli dèi.
Si tratta, in altre parole, di dare un senso alle “cose” secondo la nostra sensibilità, integrandole in uno spazio all’interno del quale acquistano un “luogo” che rimanda ciascuno di noi alla propria immagine, al nostro essere-nel-mondo.
Cioè, le cose stesse pro-ducono (pro-ducere – portare avanti, far vedere) uno spazio che delimita questo incontro, quello della Quadripartizione come diceva Heidegger, nell’orizzonte della comprensione a cui danno luogo e nell’estensione del simbolismo che ispirano nei creatori/perpetuatori di un mondo.
Ogni “cosa” risponde allora a un bisogno fondamentale di significato e di delimitazione, e l’ordine con cui questo significato e questa delimitazione si dispiegano nello spazio così creato è il vero e fondamentale obiettivo della politica, come espressione in perpetua evoluzione di una democrazia reale, che appare dalla ricerca di un equilibrio tra gli antagonismi che si muovono in essa e che la muovono.
Lo spazio diventa così una geografia “spirituale”. E la geopolitica, la scienza sacra dell’ordinamento dello spazio.
Ancora più fondamentalmente del rapporto tra grandi spazi continentali o civili, la geopolitica ci parla dell’intima relazione tra noi e il nostro spazio vitale, tra noi e ciò che ci è proprio, la nostra proprietà (dal latino proprius, prope: ciò che si avvicina, ciò che tocca).
Ci parla di ciò che Heidegger chiamava “abitare” il mondo, cioè di una relazione intima con il mondo.
Perché questo “abitare” è necessariamente singolare, qualunque sia lo spazio in questione, la regione, la nazione o la civiltà, che sono i risultati politici, culturali e spirituali che gradualmente si elevano da una sensibilità carnale a una volontà di conquista. L’insieme degli esseri viventi e inerti che partecipano alla singolarità di ogni spazio, la particolare percezione del tempo e dei cicli che vi si svolgono, la singolare percezione del segno simbolico delle “cose”, nonché la nostra preoccupazione di iscriverci come mortali in questo spazio.
La politica, dal greco πόλος – polo, è l’attuazione di un equilibrio in mezzo al movimento di diversità contraddittorie all’interno della moltitudine – dal greco πόλις – città, paese.
A questo proposito, possiamo sottolineare che la civitas gallo-romana comprendeva un’intera regione, a misura del territorio gallico che vi risiedeva e ne faceva il proprio spazio vitale.
La politica può quindi essere vista anche come una “cosa” attiva che, attraverso la sua azione, integra tutte le altre nel suo gioco. Li domina in un certo modo come, ad esempio, domina (o almeno dovrebbe) l’economia (dal greco οἶϰος e νόμος – amministrazione del dominio). Dalla propria interpretazione della politica, dal modo in cui si percepisce, o meno, tutta la sua sottigliezza (il modo delicato di superare le contraddizioni senza tuttavia sforzarsi di negarle), si può o non si può plasmare (essere in grado di creare) un mondo a nostro piacimento (al nostro buon senso, a ciò che si raggiunge di comune accordo – in questo caso, concordando con la mente).
Questo gioco mentale deve necessariamente trovarsi al di sopra dello spazio, all’apice della Dimensione, che collega il cielo (πόλος – il Politico) e la terra (γῆ – il Ge-o). La geopolitica descrive quindi l’aspetto essenziale del politico con cui, in un dato spazio e in un dato luogo (un luogo geo-grafico, cioè una terra che “descriviamo” spiritualmente, che raccontiamo poeticamente a partire dalla nostra eredità comune), alimentiamo un senso comune ed eleviamo il Bene Comune (che, peraltro, non può, a dispetto di ciò che alcuni pensano, astrarsi dalla moltitudine da cui nasce, sempre transitoria, sempre in procinto di diventare come quella stessa moltitudine).
La geopolitica è quindi una dinamica orientata verticalmente. Il suo vero essere non può essere affermato in pretese universalistiche che mirano a diffondere una civiltà su scala globale, quindi ben oltre il suo spazio, come hanno fatto gli imperialismi occidentali del XIX e XX secolo, o come fa ancora l’egemonismo americano. La geopolitica è l’ordinamento di uno spazio, quello di un popolo, o di un gruppo più o meno federato di popoli che hanno saputo costituire, nel corso della storia, un Imperium civilistico, cioè uno spazio guidato da un’Idea suprema. La geopolitica è, fondamentalmente, questa Idea che cerca di radicarsi nella terra, è la concretizzazione (il sapiente raduno con cui cresciamo insieme), all’interno di uno spazio così costituito, del legame tra cielo e terra, tra pensiero e humus. La geopolitica è un’affermazione spirituale radicata nella profondità dell’essere, prima ancora che un tipo di studio delle relazioni internazionali. È un’omologazione di tutto ciò che costituisce uno spazio singolare.
Il che significa che partecipa, nello stesso momento in cui dice le cose che uniscono e quelle che distanziano, alla realizzazione dei legami che, dentro e fuori il tessuto che forma questo spazio, gli danno senso e consistenza, ma anche coerenza.
Se ci limitiamo alla geopolitica come studio delle relazioni internazionali, non possiamo pretendere che le contraddizioni e le incertezze che la circondano, come un alone spaventoso che oscura il futuro, possano essere risolte rinchiudendoci sempre più nei nostri ideali, cioè allontanandoci sempre più dalla realtà. Le relazioni internazionali richiedono una grande dose di fiducia e, prima di tutto, di autostima!
Che cos’è la fiducia? Si tratta semplicemente di fidarsi, di avere fede in ciò che ci impegniamo a fare in comune per affermare il nostro potere, ma i cui effetti possono essere realmente misurati solo se siamo capaci di riflettere su noi stessi (e quindi di delucidare le idee che ci muovono, o di sforzarci di farne, per così dire, una genealogia per riuscire a dominarne il corso e a diminuirne la presa spirituale). Si tratta quindi di una disposizione (molto interiore, affettiva) della volontà con cui ci poniamo a un’altezza adeguata da cui sembra possibile superare la contraddizione tra il calore della credenza e la freddezza della realtà, e questo attraverso la creatività, la giustificazione, la ricerca incessante dell’equilibrio nelle nostre relazioni, nonché una lettura fine delle situazioni attraverso cui affermare i nostri interessi e quelli dei nostri partner.
Un popolo o una civiltà che si impegna nelle relazioni internazionali deve quindi mostrare una forza morale e spirituale attraverso la quale acquisire una verticalità che possa garantire il successo in queste relazioni. La fiducia che lega un popolo o una civiltà alla sua terra e al suo spazio può solo alimentare questa forza, ma solo se questo popolo o civiltà si dà veramente i mezzi per tornare a sé stesso, ovvero se si interroga sulla natura di questa fiducia e su ciò che essa implica per sé stesso, per il suo ambiente e per gli Altri.
La geopolitica è una scienza che non sarebbe quindi inopportuno in questo momento inoculare a un’Europa afflitta da dubbi su sé stessa. Ma soprattutto è una conoscenza sperimentale che ci rende consapevoli che l’Idea stessa, il Grande Paradigma come lo chiama Edgar Morin, non è affatto esente dal divenire, e che non può tentare di congelarsi eternamente senza distruggere la forza stessa di una civiltà, e il suo Potere.
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