L’impatto della guerra russo-ucraina nel Caucaso meridionale

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di Maxence Smaniotto

La guerra, a cui Mosca si riferisce in termini di “Operazione Militare Speciale”, che si sta svolgendo in Ucraina catalizza antiche e nuove dinamiche. Da un lato, i rapporti tra Ucraina e Russia sono largamente caratterizzati da quello che lo storico francese Fernand Braudel definiva come “il tempo lungo”; tempo antimoderno dove si definiscono quelle strutture profonde che persistono attraverso le epoche e che determinano in larga misura la storia delle civiltà. Dall’altro, invece, entrano in gioco fattori nuovi, che sembrano emergere tra le pieghe di quella dinamica dell’accelerazione su cui il filosofo tedesco Hartmut Rosa focalizza le sue ricerche da alcuni anni.
Tra i fattori del “tempo lungo”: la geografia, la religione, le vie di commercio, i rapporti tra etnie, le visioni del mondo, le abitudini, i cicli climatici. Tra i fattori della modernità “accelerata”: la politica, i media di massa, la morale, la tecnica, la compressione del tempo presente in una serie di instanti non integrati tra loro. In un mondo dove la mondializzazione ha creato un’inedita e per certi versi soffocante interdipendenza, quel che accade sulla piccola scala in un luogo ben determinato e un momento propizio, rischia di avere ripercussioni su altri luoghi ben più distanti e dai contesti totalmente differenti. Il conflitto in atto risveglia dinamiche che in molti ritenevano sopite. È dire quanto le analisi del già citato Fernand Braudel fossero pertinenti: sotto la scorza della morale vigente si agitano dinamiche antiche e durature.

La vastità del tema impone in tutta obiettività di analizzare un elemento alla volta, pur tenendo in conto l’insieme del quadro. I meccanismi che hanno svolto dei ruoli imprescindibili nello scatenamento del conflitto sono numerosi, ma anche numerosi sono gl’impatti. In questa breve disamina ci concentreremo su uno spazio ben determinato e per certi versi “dimenticato”, ma dove le eventuali ripercussioni della guerra in Ucraina potrebbero rivelarsi importanti e le cui conseguenze si avvererebbero fondamentali per l’Eurasia: il Caucaso del Sud.


L’angolo morto del Caucaso

Come sempre, il Caucaso rappresenta l’area meno analizzata e più tralasciata della geopolitica eurasiatica e più specialmente dello spazio post-sovietico. Eppure, è proprio qui che il sangue è colato di più dopo la dislocazione dell’Unione sovietica. Mentre il mondo occidentale e le sue starlette erano impegnati a versare lacrime di coccodrillo nel Balcani occidentali e a prendersi in video durante le passeggiate nella Sarajevo assediata, nel Caucaso erano attivi ben cinque conflitti allo stesso tempo, di cui oggi praticamente alcuno è stato totalmente risolto. Due guerre in Cecenia. Una tra l’Ossezia del Nord e l’Inguscezia, purtuttavia facenti parte della federazione russa. Una guerra civile in Georgia, paese inoltre alle prese con due regioni separatiste totalmente fuori controllo, l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud oltre che all’allontanamento, discreto ma totale, della repubblica autonoma dell’Ajaria, importantissima in quanto rappresenta il principale sbocco sul mar Nero della Georgia. Infine, una guerra, sanguinosissima, tra gli armeni del Nagorno-Karabakh e gli azerbaigiani dell’Azerbaigian.

All’inizio degli anni 2000, la seconda guerre in Cecenia si risolse con una sofferta vittoria russa e una relativa pacificazione della repubblica secessionista. Numerosi leader indipendentisti trovarono rifugio nelle monarchie del Golfo e in Europa, cioè da coloro che li sostennero e finanziarono. Oggi, quegli stessi Ceceni combattono tra le file dell’esercito ucraino contro i russi in seno al battaglione Djokhar Dudayev e all’unità Mansur Ushurma.

Sempre dalla parte del governo di Kiev, alcune centinaia di volontari e mercenari georgiani hanno raggiunto le file dell’esercito ucraino, specialmente tra i ranghi della Legione internazionale in Ucraina. Qualche caso di azerbaigiani sono stati ugualmente segnalati.

Per quanto riguarda la Russia, varie unità caucasiche sono presenti dal 2014, quando le due autoproclamate Repubbliche popolari di Donetsk e Lugansk presero le armi contro le autorità di Kiev. In quell’occasione le unità provenivano dalla Cecenia lealista, dall’Abkhazia e dall’Ossezia del Sud.

La Crimea e il Donbass rappresentano in effetti le porte d’accesso, marittima nel primo caso e terrestre nel secondo, del Caucaso via il territorio europeo. Controllarle significa per i Russi mantenere il controllo sulle turbolenti repubbliche del Caucaso del Nord e, dunque, mantenere un’importante pressione, politica come militare e economica, sul Caucaso meridionale, che considerano essere una loro zona d’influenza esclusiva, ma che attira ugualmente gli appetiti di USA, UE, Turchia, Iran e Cina.

Le attitudini delle tre repubbliche meridionali (Armenia, Georgia e Azerbaigian) riflettono le loro diverse orientazioni geopolitiche, talmente divergenti che impediscono ogni sorta di cooperazione regionale e d’integrazione. In effetti le loro alleanze sono, spesso, totalmente opposte, come lo sono i loro interessi. Ciò si riflette non solamente sulle loro decisioni strategiche ed economiche, ma ugualmente sull’attitudine da tenere in merito alla guerra in Ucraina.


I tremori della Georgia

Delle tre repubbliche sorte con la disgregazione dell’URSS, la Georgia è senza alcun dubbio quella che è più preoccupata. Due sue repubbliche autonome, quella d’Abkhazia e dell’Ossezia del Sud, hanno fatto secessione tra il 1992 e il 1994, con il supporto delle unità russe, mentre l’altra repubblica autonoma, l’Ajaria, era praticamente indipendente anche se formalmente riconosceva il governo di Tbilisi. Le cose iniziarono a cambiare nel 2004, quando una rivoluzione colorata, detta “rivoluzione delle rose”, portò al potere il filoccidentale Mikhail Saakashvili, poliglotta formatisi nelle università statunitensi. Quest’ultimo riportò sotto all’effettiva autorità nazionale l’Ajaria, condusse un’efficiente lotta contro l’endemica corruzione georgiana, attirò degli investimenti, diresse una politica estera totalmente pro-europea, pro-NATO e pro-statunitense e in parallelo allontanò sempre più il paese dalla Russia, a cominciare per un massiccio insegnamento dell’inglese tra i giovani a discapito del russo.

Per fare tutto ciò, egli poté contare sulla posizione geografica della Georgia. Il paese è in effetti un imprescindibile perno per il trasporto di idrocarburi dai ricchissimi pozzi di gas e petrolio azerbaigiani nel mar Caspio ai voraci mercati europei via il lunghissimo BTP, che inizia a Baku, capitale dell’Azerbaigian, scorre attraverso il territorio georgiano, scende lungo tutto il Kurdistan turco e sfocia nel terminal costiero di Ceyhan. Una diramazione porta ugualmente al porto georgiano di Batumi, che oggi è diventata una sorta di Dubai caucasica, luogo di investimenti opachi e dove i grattacieli e gli hotel di lusso spuntano come funghi.

Galvanizzato dai suoi successi e forte del risultato del referendum sull’adesione alla NATO svoltosi nel gennaio del 2008 (esito favorevole al 61%), Saakashvili tentò, nel luglio 2008, di riprendere il controllo dell’Ossezia del Sud con la forza, attaccando i centri abitati e i peacekeeping russi sul posto. La convinzione che Mosca non avrebbe reagito perché timorosa di una reazione statunitense si scontrò con la realtà quando le truppe russe non solamente ripresero il controllo dell’Ossezia del Sud in solamente due giorni ma in più arrivarono altrettanto velocemente alle porte di Tbilisi, decretando la capitolazione della Georgia e il riconoscimento russo delle due repubbliche separatiste.

Saakashvili ha perduto le elezioni del 2013 e, accusato di svariati abusi d’ufficio, si esiliò negli USA in quello stesso anno. Esilio di corta durata, in quanto venne frettolosamente nominato governatore della regione d’Odessa nel maggio 2014, cioè pochi mesi dopo la rivoluzione colorata di Euromaidan, per cui si era immediatamente schierato, perdendo così la cittadinanza georgiana. Attualmente è in prigione in Georgia, dove era rientrato illegalmente nel 2021, e dove attende un processo per i reati che gli sono contestati.

I paralleli tra la Georgia e l’Ucraina sono chiari, e hanno fatto colare qualche ruscello d’inchiostro tra gli osservatori più attenti. La Russia tenta, dagli anni Novanta, di ricreare uno spazio politico-economico nel Caucaso del Sud, procedendo a un’integrazione regionale, ma senza aver l’obiettivo di annettere le tre repubbliche al fine di creare un’immaginaria nuova versione dell’Unione sovietica. Ne ha bisogno per mantenere i legami con la sua principale alleata eurasiatica dell’area, l’Iran, proteggere il fianco meridionale della Russia mantenendo stabili e pacificate le repubbliche caucasiche della Federazione, controllare le rotte degli idrocarburi dal mar Caspio verso l’Europa, assicurare le importantissime infrastrutture delle Nuove Vie della Seta e impedire ad ogni costo che gli USA e l’UE possano estendere la loro sfera d’influenza in quella zona, il che gli darebbe diretto accesso all’Asia centrale, altra zona tradizionalmente fulcro di tensioni geopolitiche tra gl’imperi russo, cinese, iraniano e inglese, oggi in gran parte rimpiazzato da quello statunitense.

La Georgia è dunque risolutamente filoeuropea, e ha come progetto a lungo termine l’adesione all’UE e alla NATO, anche se questi processi sono stati rallentati per ovvi motivi da svariati membri di queste due strutture sovranazionali. I loro timori si basano su fatti reali, in quanto il presidente rieletto dell’Ossezia del Sud, Anatoly Bibilov, ha annunciato che indirà un referendum nel maggio 2022 per discutere dell’adesione dell’autoproclamata repubblica alla Russia, esattamente come fece a suo tempo la Crimea nel 2014. Le stesse dichiarazioni furono fatte, principalmente ad uso interno della politica osseta, in svariate occasioni, ma ogni volta Mosca aveva risposto con un secco no, mentre invece stavolta il silenzio calcolato del governo russo sembra essere foriero di sottintesi.

La società georgiana è lontana dall’essere unanime sulla questione. Benché molti georgiani si siano ingaggiati a combattere nelle fila ucraine e che il sentimento nazionalista sia vivo, diverse frange della popolazione locale sostengono un riavvicinamento alla Russia in nome non solamente di un passato comune (la Georgia fece parte dell’Impero russo e in seguito sovietico per quasi due secoli, dal 1813 al 1991) ma anche di uno stesso punto di vista religioso e dei valori.

Per la Russia la priorità è impedire alla Georgia di divenire un avamposto statunitense via l’adesione del piccolo paese all’UE e alla NATO, adesioni che allo stato attuale sembrano assai improbabili.


L’Armenia, alleata storica della Russia

Il caso dell’Armenia è totalmente opposto a quello della Georgia in quanto la sua politica estera è risolutamente filorussa. Questa piccola, povera e coraggiosa repubblica ha dovuto, fin dalla sua indipendenza, e oltre al problema di una corruzione endemica e violenta che causò l’esodo di un quinto della sua popolazione in vent’anni, risolvere un dilemma cruciale, summa della sua multisecolare storia travagliata. Essendo cinta ad ovest dalla Turchia, nemica storica, e ad est dall’Azerbaigian, principale alleata della Turchia, l’Armenia, che ritrovava una sovranità nazionale dopo quasi sette secoli di inesistenza statale, salvo la minuscola perentesi della Repubblica democratica d’Armenia tra il 1918 e il 1921, doveva decidere della sua politica regionale. O tentava di risolvere i contenziosi storici e territoriali con la Turchia rinunciando al riconoscimento del genocidio armeno del 1915 e abbandonando gli armeni del Nagorno-Karabakh, che stavano allora combattendo contro le truppe azerbaigiane per liberare questo territorio armeno piazzato dai sovietici nella neonata RSS d’Azerbaigian nel 1923, oppure rimettere la sicurezza del paese tra le mani della Russia tramite un’esclusiva alleanza militare, politica e economica. Finalmente la decisione, dettata anche dal fatto che le vittorie a ripetizione delle truppe armene in Nagorno-Karabakh avevano spinto la Turchia a chiudere la frontiera con l’Armenia e a minacciare un intervento militare se l’Armenia decideva di invadere l’exclave azerbaigiana del Nakhitchevan, spinsero Yerevan a stipulare degli accordi con la Russia. L’Armenia è da allora membro dell’alleanza militare OTSC, che comprende Russia, Bielorussia, Armenia, Kazakhstan, Kirghizistan e Tajikistan, e dell’Unione Economica Eurasiatica (UEE), oltre che a diverse altre strutture sovranazionali dove la Russia e i suoi alleati sono membri. L’Armenia ospita due basi militari russe, e i soldati russi pattugliano il confine tra l’Armenia e la Turchia.

La guerra nella Repubblica del Nagorno-Karabakh (Artsakh dal 2016) scoppiata nel settembre 2020, ha visto la vittoria di una coalizione turco-azerbaigiana-pakistana militarmente e politicamente sostenuta da Israele1. Circa il 75% del territorio del Nagorno-Karabakh è caduto sotto al controllo azerbaigiano in sei settimane di duri scontri, e quel che resta è sotto alla protezione dei peace-keeper russi, la cui presenza è temporanea.

L’Armenia si trova attualmente in una posizione estremamente complessa, in quanto una “rivoluzione di velluto” aveva avuto luogo nel 2018, portando al potere un giovane primo ministro filooccidentale, Nikol Pashinyan, che aveva proceduto immediatamente a indire dei processi contro il vecchio sistema filorusso di oligarchi, spesso amici personali di Vladimir Putin, come per esempio l’ex presidente armeno e del Nagorno-Karabakh Robert Kocharyan, che è stato lungamente incarcerato.

Il conflitto del Nagorno-Karabakh è estremamente complesso, e la sua importanza fondamentale non solamente per gli equilibri regionali ma anche per quelli internazionali, in quanto tocca da vicino le infrastrutture che legano il corpo centrale dell’Azerbaigian alla sua exclave del Nakhichevan, la quale confina per un breve tratto con il suo alleato turco. L’alleanza tra l’Azerbaigian e Israele ha spinto l’Iran a rinforzare ulteriormente i suoi legami con l’Armenia, con cui i rapporti sono sempre stati eccellenti. E recentemente, il presidente bielorusso Lukashenko ha dichiarato che l’Armenia, visto la situazione in cui si trova, dovrebbe raggiungere un’Unione sul modello dell’Unione Russia-Bielorussia.

Lo statuto del Nagorno-Karabakh appare appeso a un filo, e delle manifestazioni massicce sono attualmente in corso in Armenia in quanto l’opposizione a Nikol Pashinyan ritiene che il governo stia trattando con la Turchia e la Russia per accettare l’incorporazione del territorio nell’Azerbaigian in cambio di assicurazioni da parte di Baku sul rispetto della minoranza armena. La Russia essendo la sola garante della sopravvivenza degli armeni del Nagorno-Karabakh, Yerevan mantiene una posizione estremamente discreta sulla guerra in Ucraina, posizione che insospettisce il vicino georgiano, il quale dovette a suo tempo fare i conti con le rivendicazioni della sua minoranza armena nel sud del paese, più precisamente nella regione della Giavachezia, dove sono maggioritari. In effetti, la Georgia sostenne con discrezione l’Azerbaigian, per esempio permettendo il transito di uomini e armamenti dalla Turchia all’Azerbaigian durante la guerra del 2020.

Malgrado che le relazioni tra l’Armenia e la Russia non siano, dal 2016, più ottimali come prima, Yerevan è costretta dagli eventi e dal contesto a mantenere una relazione salda con Mosca. Più di tre milioni di armeni vivono in Russia, e dall’inizio della guerra circa cinquanta mila russi si sono trasferiti in Armenia, chi per sfuggire le sanzioni delocalizzando le sue imprese nel paese caucasico, chi per allontanarsi dal contesto politico locale. Una manna finanziaria per la popolazione armena locale, dunque…


L’Azerbaigian, una politica d’indipendenza messa a dura prova

Il paese del Caucaso del Sud che si sente meno toccato dalla guerra in Ucraina potrebbe apparire dunque l’Azerbaigian, ma un’analisi più approfondita mostra una realtà differente. Certo, la sua sicurezza non dipende dalla Russia, e il pericolo armeno è ormai scongiurato. Inoltre, le relazioni con la Georgia sono eccellenti. La sua politica internazionale è sempre stata quella dell’equilibrio, tessendo buoni rapporti di vicinato con la Russia, alleanza con la Turchia, ottime relazioni economiche con l’Europa, soprattutto quando si tratta di tangenti al Consiglio europeo, come dimostrano le numerose inchieste su politici italiani, francesi, spagnoli e tedeschi i cui conti in banca si sono gonfiati a contatto con emissari azerbaigiani. Dittatura feroce e corrotta, l’Azerbaigian si è resa indispensabile grazie a due strumenti: le tangenti2 e gli idrocarburi.

Il problema dell’Azerbaigian è che è un paese geograficamente isolato, relegato a dipendere dallo stato dei paesi circonstanti. Un’Armenia forte e aggressiva, sostenuta dalla Russia, rappresenta un pericolo territoriale. Una cattiva relazione con l’Iran renderebbe difficili i collegamenti terrestri e aerei con l’exclave del Nakhichevan. Una guerra in Georgia rischierebbe inevitabilmente di tagliare l’Azerbaigian dalla Turchia e di fermare il flusso energetico del BTC, soffocando economicamente questo paese turcofono e sciita. La sua facciata marittima, quella sul mar Caspio, non offre grandi perspettive a parte lo sfruttamento dei giacimenti di gas e petrolio, da cui dipende tutta la sua economia e la sua indipendenza, oggi messa seriamente a rischio. A rischio non solamente a causa della Russia, che vorrebbe vedere l’Azerbaigian aderire all’UEE e all’OTCS, ma anche dalla sua alleata, la Turchia, le cui ingerenze politiche e soprattutto militari durante la guerra del 2020 sono fragorose.

Giusto prima della guerra, infatti, il clan Aliyev, al potere dal lontano 1969, cioè già in epoca sovietica, prese la decisione di rinviare una gran parte dei dirigenti filorussi, che avrebbero potuto, poiché sotto influenza russa, impedire che le operazioni militari avessero luogo, rimpiazzandoli con dei politici filoturchi, ben più propensi sostenere il fratello azerbaigiano nello sforzo bellico che, sebbene vittorioso, ha provocato un gran numero di morti tra le fila azerbaigiane3. In cambio: contratti esclusivi, ingerenze politiche e militari a cui Baku si sottomette a controvoglia.

L’Azerbaigian attende. Se la Russia perde in Ucraina, paese che Baku ha sempre sostenuto (reciprocamente, l’Ucraina aveva pubblicamente felicitato l’Azerbaigian per la sua vittoria nel 2020), allora l’Azerbaigian potrà recuperare quel che resta del Nagorno-Karabakh, imporre la sua politica all’Armenia, acquisire un peso sufficiente per proteggersi dall’Iran e tentare di sganciarsi dalla presa soffocante della Turchia. Se al contrario la Russia vince e si rinforza, potrebbe essere a discapito della sovranità dell’Azerbaigian, che sarà allora costretta a negoziare e rimettere in sella i suoi contatti filorussi. In quel caso, il recupero dell’integralità del territorio del Nagorno-Karabakh non sarebbe più un obiettivo scontato.

NOTE AL TESTO

1 Tel Aviv e Baku sono alleate in funzione anti-iraniana. I settori più proficui sono quelli degli armamenti, del turismo, degli investimenti e dell’energia. Israele importa il 40% del proprio fabbisogno energetico dall’Azerbaigian. Quest’alleanza crea inevitabilmente degli attriti molto importanti con l’Iran.

2 Vedere la cosiddetta « diplomazia del caviale ».

3 Il numero totale di soldati azerbaigiani morti durante il conflitto resta soggetto a ipotesi, il governo rifiutandosi di pubblicare ufficialmente le statistiche. Si ritiene che i loro morti siano attorno a tremila, il che rappresenterebbe circa un sesto delle forze in campo azerbaigiane. Dei mercenari siriani sono stati ugualmente utilizzati durante il conflitto, spesso come carne a cannone. Secondo le statistiche disponibili, circa un quarto (541) sarebbero morti. Da parte armena, i morti e dispersi ammontano a circa quattromila su un totale di circa venticinque mila soldati sul terreno. Queste statistiche, parziali, danno un’immagine della violenza del conflitto.

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