di Maxence Smaniotto
La Francia della presidenza di Emmanuel Macron è ben lontana dall’immagine di rilancio economico e mondiale che l’Eliseo ha voluto vendere alla popolazione e al resto dell’Europa. In realtà, il quinquennio di Macron è stato caratterizzato da una forte instabilità sociale e istituzionale che hanno fiaccato i tentativi reali di rilancio e fragilizzato la proiezione estera del Paese, e ciò sul piano diplomatico, geopolitico ed economico.
Un quinquennio di ritiri
È sempre molto istruttivo rendersi conto di come l’immagine veicolata dai media di Stato di un Paese possano influenzare la percezione che all’estero si ha di quel Paese. Per molti, la Francia riflette l’immagine di una nazione il cui destino storico sarebbe quello di nutrire une ricerca di grandeur che faccia irradiare nel mondo intero la cultura, soprattutto letteraria e filosofica, del Paese. Questo soft power, a cui molto francesi crederebbero sinceramente, sarebbe un temibile ferro di lancia che preparerebbe il terreno a offensive economiche, militari e politiche di prima grandezza. Il che sarebbe incredibile quando si prende in conto che la Francia ha, secondo un sondaggio realizzato da OpinionWay, registrato nel solo 2021 due milioni e cinquecentocinquanta mila burn-out, segno che la società francese attraversa una grave crisi.
La Francia della presidenza di Emmanuel Macron è ben lontana dall’immagine di rilancio economico e mondiale che l’Eliseo ha voluto vendere alla popolazione e al resto dell’Europa. In realtà, il quinquennio di Macron è stato caratterizzato da una forte instabilità sociale e istituzionale che hanno fiaccato i tentativi reali di rilancio e fragilizzato la proiezione estera del Paese, e ciò sul piano diplomatico, geopolitico ed economico.
Nazione transcontinentale grazie ai suoi territori d’oltremare1, militarmente presente su un gran numero di teatri di guerra, membro di importanti istituzioni sovranazionali e terza potenza nucleare mondiale dopo USA e Russia, la Francia ha vissuto un ritiro dietro l’altro, dalla Repubblica centrafricana all’Afghanistan al Mali.
Mediocrità, mancanza di visione d’insieme e di unità, ideologie mondialiste e fatica hanno avuto un impatto incontestabile sulla diplomazia francese.
L’immagine napoleonica e gaullista di una Francia capace di ritagliarsi, grazie a una certa indipendenza politico-militare, un ruolo di primo piano tra le nazioni più importanti è un lontano ricordo, e quasi nulla lascia presagire che le cose miglioreranno nei prossimi anni.
Certo, la Francia è grande soprattutto quando si trova sul bordo del precipizio, e la sua storia lo ha dimostrato più e più volte. Giovanna d’Arco riesce a risollevare le sorti del regno di Francia durante la Guerra dei cent’anni; i soldati-cittadini della Prima Repubblica respingono una coalizione di monarchie europee a Valmy a suon di forconi e archibugi nel settembre 1792; i poilus che escono dalle trincee di Verdun respingeranno i tedeschi nel 1916 al prezzo di 315.000 tra morti e feriti.
Ma la Francia del 2022 non ha più il peso che le incombeva precedentemente, e ciò da un punto di vista economico e demografico. Essa si trova schiacciata tra giganti del peso di Cina, India, Russia e USA, e deve confrontarsi con vecchie e nuove potenze emergenti, quali l’Iran, il Brasile, la Turchia e l’Australia.
L’eredità di Nicolas Sarkozy e di François Hollande
L’obiettività impone di non accusare Emmanuel Macron di tutti i torti. Il giovane presidente eletto a suon di finanziamenti e fervore mediatico nel 2017 ha ereditato una situazione interna e internazionale molto delicata, risultato delle scelte strategiche di due tra i maggiori flagelli che la politica francese abbia mai avuto: Nicolas Sarkozy e François Hollande, rispettivamente e impropriamente classificati a destra nel primo caso e a sinistra nel secondo. In realtà, i due anziani ex presidenti sono le due facce di una stessa medaglia, quella del ritorno della Francia nel girone atlantista. Nicolas Sarkozy, che i francesi hanno giustamente soprannominato “Sarko l’Américain” (“Sarko l’americano”), ha, nel 2009, cioè poco dopo la sua elezione, ricondotto docilmente la Francia nel comando integrato della NATO da cui Charles de Gaulle l’aveva fatta uscire. Egli era infatti ben cosciente che il Patto atlantico era nient’altro che il guinzaglio con lui il padrone statunitense teneva i suoi cagnolini, strangolandoli quando quest’ultimi davano segno di volersi ribellare.
Prima di Sarkozy, la Francia di Jacques Chirac, purtuttavia un presidente considerato assai mediocre e contestato, fu in grado di resistere alla pressione di Washington e dei suoi alleati e, contrariamente all’Italia, a rifiutare il suicidio (per l’Europa) geopolitico che fu la guerra in Iraq nel 2004 e la sua occupazione decennale. Il suo “no” fu all’epoca sostenuto dalla Germania di Angela Merkel e dalla Russia di Vladimir Putin; questo primo segno di una possibile alleanza eurasiatica Parigi-Berlino-Mosca, alleanza che qualunque stratega statunitense considerava una catastrofe, indusse certamente più di una notte insonne a Washington. Da allora, e grazie al ripetuto tradimento delle élite europee e delle quinte colonne sparse qua e là nelle vastità eurasiatiche, i loro sonni sono tornati ad essere tranquilli.
Grazie a “Sarko l’Américain”, Parigi fu il ferro di lancia della coalizione che nel 2011 devastò la Libia, provocando la morte atroce di Gheddafi, con conseguenze catastrofiche sugli equilibri africani e del Medio-Oriente. Sarkozy fu inoltre l’artefice del rinforzo dei legami con l’emirato del Qatar e con l’Azerbaigian, importanti esportatori d’idrocarburi e Paesi al centro di un gran numero di inchieste per traffici d’influenze.
A livello europeo, il presidente francese, fortemente europeista, ratificò il Trattato di Lisbona nel 2009, calpestando così il risultato del referendum del 2005, dove i francesi votarono al 55% contro la ratificazione di una Costituzione europea con annessa perdita di sovranità, dunque di democrazia.
L’unico punto di un certo interesse della presidenza di Nicolas Sarkozy fu il suo intervento presso Vladimir Putin durante la guerra in Georgia nel 2008, scatenata quando il presidente georgiano Mikhaïl Saakashvili tentò di riprendere militarmente il controllo della regione separatista dell’Ossezia del Sud, attaccando i peacekeeper russi presenti sul posto. L’intervento diplomatico francese impedì una prolungata occupazione militare e politica russa del piccolo paese caucasico, che mantenne la sua indipendenza e, nonostante le reiterate promesse statunitensi, non venne accolto nella NATO.
Il sostegno politico, finanziario e militare francese ai gruppi ribelli siriani, pure loro democratici e progressisti, avvenne nell’ultimo anno della presidenza di Nicolas Sarkozy e proseguì con costanza e accanimento durante la presidenza di François Hollande, eletto nel 2012, e che i francesi hanno ribattezzato “Flamby”, riferimento alla sua pappagorgia e supposta assenza di carattere. Nel 2013 Hollande mandò l’esercito francese in Mali, dove il governo locale aveva chiamato in fretta e furia Parigi per venirgli in aiuto contro i ribelli tuareg del Nord che, spinti e manipolati dalle milizie islamiche, stavano per investire Bamako, la capitale.
Il crollo del governo maliano avrebbe avuto delle conseguenze importantissime sulla regione del Sahara e dell’Africa subsahariana. Sempre nel 2013, Parigi intervenne per la settima volta in cinquantatré anni pure in Repubblica centrafricana, dove un’ennesima guerra civile (la terza) rischiava seriamente di evolvere in massacri. L’operazione, denominata Sangaris, ebbe termine nel 2016. I soldati russi del gruppo Wagner sono presenti nel Paese dal 2021, e oggi la Repubblica centrafricana è uno dei rari Paesi al mondo ad avere sostenuto la dichiarazione russa d’indipendenza delle due repubbliche di Donetsk e Luhans’k.
Sotto il quinquennio di François Hollande la Francia era dunque ingaggiata attivamente in Afghanistan, Mali, Siria, Repubblica centrafricana e in altri teatri secondari o minori. Conseguenza diretta di questo attivismo militare sotto ombrello statunitense fu un’inedita serie di attacchi terroristici di matrice islamica sul territorio francese e in Paesi alleati.
Alla ricerca di una grandeur perduta
Il quinquennio di Emmanuel Macron sarà stato l’incarnazione dell’espressione che egli utilizza più spesso: “en même temps” (allo stesso tempo). La Francia deve tornare a giocare un ruolo negli equilibri mondiali ma allo stesso tempo deve ritirarsi dalla Storia e diluirsi nell’Unione europea di Bruxelles. La Francia deve dotarsi di un esercito avanzato sotto al profilo strategico e tecnologico ma allo stesso tempo diminuire il suo budget, vendere all’estero le sue aziende statali e mantenersi sotto al controllo della NATO. La Francia deve farsi conoscere nel mondo ma allo stesso tempo deve detestarsi e decostruire la propria storia e cultura. E così via, in un discorso schizofrenico dove tutto e il suo contrario coesistono nello stesso discorso.
La prima vera crisi del quinquennio di Macron è avvenuta all’indomani della sua elezione, quando il capo di Stato maggiore dell’esercito Pierre de Villiers si è dimesso per protestare contro l’intenzione del nuovo presidente di diminuire il budget militare allorché voleva ordinare un maggiore impiego sul terreno, all’estero come sul territorio nazionale nel quadro del Plan Vigipirate contro la minaccia terroristica islamista.
La partenza di de Villiers ha spinto Macron e i suoi consiglieri a rivedere i loro progetti e in effetti ad aumentare il budget militare, ma ha anche aperto una crisi tra il capo di Stato e parte dell’esercito, crisi che lo accompagnerà per tutti i cinque anni di presidenza e che sfocerà nella pubblicazione di ben due Tribune dei Generali nel primo semestre del 2021. In esse diverse decine di ufficiali dell’esercito, tra cui diversi generali, allertavano delle minacce che stanno affossando la Francia, minacce che l’inerzia della classe politica, totalmente sconnessa dalla realtà del terreno, non fa altro che aggravare.
Intrighi, minacce e lotte di potere tra classe politica e talune correnti dell’esercito hanno sensibilmente fragilizzato le capacità di proiezione militare e diplomatica della Francia all’estero. La quale è, malgrado il fatto che sia membro permanente del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, scarsamente presa in conto e diplomaticamente isolata.
Sotto la sua presidenza, la Francia si è ritirata frettolosamente dal Mali, dove era presente dal 2013, in seguito a forti contestazioni popolari contro la presenza francese, giudicata neocolonialista, e a un colpo di Stato che ha portato al potere una giunta militare anti-francese e pro-russa guidata dal colonnello Assimi Goïta, che si rivendica ammiratore di Thomas Sankara, idolo dei panafricanisti. Le truppe francesi hanno iniziato a ritirarsi da fine 2021, e stanno venendo progressivamente rimpiazzate in maniera semi-ufficiale da “consiglieri” militari russi del gruppo Wagner, gruppo presente in Siria, Ucraina, Venezuela, Madagascar, Libia, Mozambico e Sudan.
In effetti, Parigi perde sempre più piede in un’area che conosce bene, quella dell’Africa francofona. In un solo anno e mezzo, tra il 2020 e il 2022, importanti Paesi francofoni strettamente legati alla Francia hanno vissuto dei colpi di Stato: in Burkina-Faso, Mali e Guinea. Inoltre, il principale alleato nella zona e unico stato dotato di un esercito efficiente, il Chad, ha visto il suo presidente Idriss Déby, al potere dal 1990, morire al fronte in circostanze mai del tutto chiarite verso la fine del 2021. Suo figlio Mahamat Idriss Déby ha preso la successione, scavalcando le regole della Costituzione, e il fatto che Parigi lo abbia riconosciuto da subito come presidente legittimo ha sollevato non pochi sospetti in seno alla popolazione locale. Il Chad ha un’importanza geostrategica di primissimo piano, in quanto è membro del G5-Sahel, una coalizione di cinque paesi africani (Mali, Chad, Niger, Mauritania e Burkina-Faso) creata e sostenuta dalla Francia, e il cui ruolo è di combattere i gruppi jihadisti del Sahel, tra cui Boko Haram.
Le morti e destituzioni di molti leader africani al potere da decenni e alleati di Parigi ha fragilizzato enormemente la presenza francese in Africa, dove Cina, Russia e Turchia stanno prendendo un ruolo sempre più attivo e importante. Economicamente, la Cina è il primo investitore mondiale nel continente, mentre i soldati russi e turchi intervengono in diversi teatri di guerra e come consiglieri militari.
E che dire dell’incredibile scandalo del contratto di sottomarini all’Australia? Nell’autunno del 2021 il primo ministro australiano Scotti Morrison aveva annunciato che recideva un contratto del valore di 56 miliardi di euro con la Francia, la quale stava costruendo ben dodici sottomarini per il conto di Canberra, e di acquistarne agli USA e al Regno-Unito. Lo smacco in Francia è stato immenso, e ha nuovamente screditato la narrazione di una supposta unità tra i membri della NATO.
Inoltre, questo scandalo assume una valenza strategica di rilievo se si prende in considerazione il fatto che la Francia possegga un certo numero di territori nella zona del Pacifico (la Nuovo-Caledonia, Wallis e Futuna e la Polinesia francese), zona che dagli inizi del 2000 sta divenendo l’epicentro degli interessi mondiali in campo economico, militare e politico. Detto altrimenti: la rottura del contratto in favore degli USA e del suo alleato inglese traducono la volontà di espellere la Francia e i suoi interessi dalla zona del Pacifico.
Se l’Africa è il principale teatro d’operazione della Francia, l’attivismo di Parigi non si era certamente fermato a quest’area. Il Libano, Paese costruito dalla Francia nel 1944 e con cui ha sempre mantenuto dei legami molto forti, è un altro fallimento dell’era Macron. Le autorità francesi erano riuscite, nel novembre del 2017, a riportare in patria il Presidente del Consiglio dei Ministri libanese Saad Hariri, trattenuto, cioè in ostaggio, in Arabia saudita, dove le autorità locali lo avevano obbligato a dichiarare le proprie dimissioni. Tornato a Beirut, si dimetterà due anni dopo in seguito a immense manifestazioni antigovernative contro il tracollo politico-economico del Libano. In quell’occasione una visita di Emmanuel Macron era stata accolta con gioia dalla popolazione locale, ma dietro alla facciata televisiva, nulla di concreto è stato fatto, e oggi il Libano è un Paese sull’orlo del fallimento, dove la Francia non gioca più un ruolo di peso.
Nel 2015 François Hollande era riuscito, assieme ad Angela Merkel, a strappare due accordi a Minsk per tentare di congelare il conflitto nel Donbass. Gli accordi non tennero per svariati motivi, e il conflitto aveva ripreso d’intensità verso la fine del 2021, sfociando in seguito nella vasta guerra che sta devastando l’intera Ucraina. Emmanuel Macron ha dunque incontrato, da solo e senza il suo omologo tedesco Olaf Sholz, che ha succeduto ad Angela Merkel a fine 2021, Vladimir Putin a Mosca nel febbraio 2022, poco prima che le truppe russe varcassero i confini con l’Ucraina.
Durante quest’incontro Putin avrebbe accolto Macron con un “Bonjour”, saluto al quale il presidente francese avrebbe replicato in inglese: “How are you?”. Questo breve aneddoto può aiutare a prendere in conto non solamente l’abissale distanza di mentalità tra i due presidenti, ma soprattutto la mediocrità di Emmanuel Macron, la sua ostinazione a non voler capire nulla dei codici diplomatici, il suo assoluto narcisismo nel persuadersi che egli possa sedurre chi vuole e quando vuole. È infatti là uno dei tratti salienti del carattere del presidente francese che, già giovane, era abituato ad affascinare adulti e anziani. Non è un caso se un recente sondaggio francese sulle intenzioni di voto dei senior, cioè di più di 70 anni, dà Emmanuel Macron a 40% d’intenzioni di voto.
Macron non ha una visione storica del ruolo della Francia. Macron è uno specchio che riflette quello che i suoi sostenitori vogliono vedere: la loro giovinezza passata per i Boomers che lo votano, il carrierismo per i giovani che s’identificano in lui e nel suo percorso. In realtà, dietro a quello specchio non c’è nulla, e ciò si proietta su tutti i piani dell’azione politica del suo governo, e specialmente nella sua politica estera.
La geopolitica della Francia di Macron è identica suo presidente: immagini senza contenuto, sintomi di una malattia allo stadio terminale, quella della dissoluzione della Francia in un mondialismo senza grandeur.
La Francia in un mondo multipolare: riorientare la sua politica continentale
Il solo punto positivo che può essere evocato a proposito dell’azione politica internazionale di Emmanuel Macron è stato il suo rifiuto di ingaggiare la Francia in avventure militari controproduttive. Ciò avrebbe potuto permettere al Paese di investire preziose risorse diplomatiche e politiche in teatri di forti tensioni, come nei Balcani, nel Caucaso, dove in effetti la Francia è stato quasi il solo Paese a denunciare la presenza di mercenari jihadisti tra le fila delle truppe azerbaigiane e turche durante il conflitto in Nagorno-Karabakh nell’autunno del 2020, e in Ucraina. Ma i tentativi di fare della Francia un Paese che giochi un ruolo di equilibrio tra le varie potenze non hanno potuto produrre risultati soddisfacenti per un insieme di fattori su cui essa non ha necessariamente il controllo. Parigi non ha ancora realizzato che il mondo è entrato in una conformazione di tipo multipolare. O, forse, lo ha fatto, ma non ha (ancora) elaborato risposte e strategie adatte per fronteggiare questa nuova realtà in un mondo che non è più bipolare come tra il 1945 e il 1991, e nemmeno unipolare come negli anni Novanta e agli inizi degli anni Duemila.
La Francia è un Paese dotato di un certo numero di vantaggi (nucleare, buone università, presenza transcontinentale, esercito ben preparato, presenza in diverse strutture sovranazionali) che gli potrebbero permettere di giocare un ruolo importante sulla scena internazionale. Ma per fare ciò deve ristrutturare l’organizzazione delle strutture dello Stato, affrontare la frammentazione del tessuto sociale, lasciar emergere una classe politica preparata, e riorientare la propria visione geopolitica in un senso mediterraneo ed eurasiatico, sganciandosi dalla (falsa) tutela degli USA e del peso morale del suo passato coloniale.
Il futuro della Francia non è né in un neocolonialismo paternalista in Africa né in un tentativo di integrazione atlantista, ma nella costruzione di un’alleanza tra Parigi, Berlino, Mosca e Pechino. Là, essa potrebbe assumere un ruolo d’equilibrio e, grazie a un ritorno a una diplomazia gaullista, utilizzare il suo lustro storico per porsi in mediatrice tra le nazioni e trovare delle soluzioni diplomatiche a tensioni e conflitti.
NOTE AL TESTO
1 Mayotte, Guadalupa, Réunion, Nuova-Caledonia, Polinesia francese, Guyana francese, Saint-Pierre-et-Miquelon, Martinica, Wallis e Futuna, Saint-Barthélemy e Saint-Martin.
Maxence Smaniotto è psicologo e scrittore. Ha pubblicato diversi articoli e analisi per varie riviste francesi e siti d’informazione italiani. Ha vissuto due anni in Armenia, e attualmente vive e lavora in Francia. I suoi lavori si concentrano principalmente sulla geopolitica eurasiatica e sul decriptaggio delle multiformi espressioni della postmodernita.
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