di Giacomo Leccese
NOTA: considerato il fatto che la situazione in Sudan non ancora definita e stabilizzata, l’articolo che segue potrebbe subire alcuni aggiornamenti nei fatti di cronaca che, comunque, non ne inficiano la base dell’analisi.
Il golpe in Sudan del 25 ottobre scorso, nonostante il recente passo indietro del generale al-Burhan, ha evidenziato in maniera netta i contrasti e i problemi che affliggevano la transizione democratica del Paese, mettendo in risalto soprattutto l’ambiguità del ruolo delle forze militari e l’instabilità politica che caratterizza i Paesi africani in questo periodo pandemico. Se si guarda però al contesto internazionale il coup sudanese conferma anche una incapacità di fornire una risposta univoca, a causa delle diversità di approcci tra i principali attori globali, interessati a perseguire i propri interessi in quello che è uno Stato cruciale per le dinamiche della regione.
Un colpo di stato annunciato
Il 25 ottobre scorso il generale Abdel Fattah al-Burhan, presidente del Consiglio Sovrano del Sudan, ha annunciato lo scioglimento del consiglio e del governo di transizione dichiarando lo stato di emergenza nazionale e arrestando il premier Abdallah Hamdok e altri leader civili.
L’azione ha, dunque, trasformato in realtà le preoccupazioni degli analisti, che avevano già colto negli eventi immediatamente precedenti l’instabilità politica del Paese e il pericolo imminente di un golpe.
La transizione democratica sudanese, infatti, iniziata dopo il rovesciamento del trentennale regime di Omar al-Bashir nel 2019, era sembrata a serio rischio già nelle settimane precedenti, quando il 21 settembre era stato sventato un tentativo di colpo di stato ad opera dei sostenitori dell’ex presidente. La crescente tensione era dovuta all’avvicinarsi di uno snodo fondamentale nel processo di democratizzazione del Paese, poiché entro il 17 novembre era previsto il completo passaggio al governo civile.
L’accordo costituzionale del 2019, infatti, prevedeva un periodo di transizione di 3 anni e 3 mesi con la creazione di un Consiglio Sovrano, formato da 5 militari e 6 civili, per i primi 21 mesi a guida militare e per i successivi 18 a guida civile.
A questo, poi, si è aggiunta la volontà dell’esecutivo guidato da Hamdok di portare avanti un progetto di riforma dell’esercito, che avrebbe epurato i tanti militari rimasti fedeli all’ex regime e allontanato il pericolo di un colpo di stato militare.
La controparte militare, dunque, ha sfruttato l’ultima occasione per fermare una riforma che avrebbe significato per molti la perdita di posizioni privilegiate e, legittimata da alcune recenti manifestazioni a loro sostegno, ha sciolto d’imperio il governo di condivisione.
Il post-golpe
La leadership militare sudanese, si è sempre rifiutata di definire l’avvenimento come un colpo di stato e nel suo discorso alla nazione dopo la presa del potere, al-Burhan ha sottolineato come invece sia stato “un passaggio di consegne necessario”, poiché “a migliaia cantavano slogan davanti al quartier generale delle forze armate, e queste hanno risposto positivamente e hanno deciso di seguire la volontà del popolo”. Il generale, l’11 novembre, ha, dunque, formato un nuovo Consiglio Sovrano, da lui stesso presieduto e composto da 14 componenti, la cui struttura però ha sollevato ancora più proteste in seno alla società civile sudanese e ha visto anche la condanna dell’ONU. Il nuovo Consiglio, infatti, prevedeva personalità civili, ma nessun membro della coalizione politica delle Forze della Libertà e del Cambiamento (FFC), l’alleanza che ha collaborato con i militari nel precedente Consiglio Sovrano e che stava promuovendo la cruciale riforma delle forze armate sudanesi. A seguito delle violente proteste scatenatesi nel Paese e delle dure critiche alla repressione governativa che ha causato oltre 40 morti, quindi, al-Burhan ha fatto un passo indietro e, il 21 novembre, ha deciso di reintegrare Hamdok e rilasciare tutti i politici detenuti. Uno sviluppo che, tuttavia, lascia ancora molti punti interrogativi.
Una sfida alla recente influenza americana
Il golpe del 25 ottobre ha scatenato una ferma condanna da parte di molti attori internazionali, a partire dalle Nazioni Unite, con il Segretario Generale Antonio Gutierres che ha subito condannato il colpo di stato richiedendo l’immediato rilascio di Hamdok e dei civili arrestati e ha ribadito la necessità di rispettare la carta costituzionale del 2019. Una linea seguita anche da Josep Borrell, Alto rappresentante Ue per la politica estera, che ha specificato la condanna del golpe da parte dell’Unione e il pericolo di conseguenze sull’impegno finanziario europeo a sostegno del Paese.
Probabilmente, però, la risposta più dura è stata quella di Washington, che negli ultimi due anni aveva molto intensificato i rapporti con Khartoum.
In un’intervista rilasciata nel dicembre 2019, l’ex premier Hamdok aveva così sottolineato come la svolta democratica sudanese rappresentasse per gli USA una grande occasione da cogliere: “il Sudan ha offerto agli Stati Uniti enormi opportunità di investimento in ogni settore a cui si possa pensare. Ma in più, il Sudan ha una posizione strategica al confine con sette paesi. Se faremo bene il nostro lavoro in Sudan, questo avrà un impatto ed un effetto estremamente strategico nell’intera regione”.i
Ed effettivamente, dopo la destituzione di al-Bashir, le relazioni con gli Stati Uniti sono radicalmente cambiate: il 14 dicembre 2020, gli USA hanno formalmente rimosso il Sudan dalla lista degli Stati sponsor del terrorismo (dopo 27 anni che il Paese si trovava in tale lista) e, inoltre, a gennaio 2021, Khartoum ha firmato gli accordi di Abramo, sotto l’egida di Washington, normalizzando i legami con Israele (quarto Paese arabo a farlo dopo Bahrein, Emirati Arabi Uniti e Marocco).
Probabilmente a seguito degli eventi dei mesi precedenti, l’inviato speciale degli Stati Uniti per il Corno d’Africa, Jeffrey Feltman, aveva incontrato i leader militari e civili sudanesi, venendo, però, rassicurato sulla volontà della parte militare di rimanere fedele all’impegno democratico.
Il fatto che il golpe sia avvenuto proprio poche ore dopo questo incontro, secondo Alberto Fernandez, ex capo missione diplomatico degli USA in Sudan, costituisce “una sfida diretta per Washington”ii e, infatti, la reazione americana è stata immediata: il pacchetto di assistenza di 700 milioni di dollari è stato sospeso e il portavoce del Dipartimento di Stato, Ned Price, ha dichiarato che gli Stati Uniti rivedranno le loro “intere relazioni” con Khartoum, se il Paese non dovesse riprendere il suo “percorso di transizione” verso la democrazia.
Il reintegro di Hamdok non è bastato per la ripresa degli aiuti economici americani e Price ha definito la decisione dei militari di reintegrare il Primo ministro solo il “primo passo”, sottolineando l’esigenza di ulteriori azioni nella ripresa del percorso democratico. A testimonianza, però, dell’interesse statunitense verso il Sudan c’è il fatto che proprio pochi giorni fa gli USA hanno nominato il primo ambasciatore in Sudan dal 1996, elevando lo status della propria rappresentanza a Khartoum da chargé d’affaires.iii
Come sottolineato da Cameron Hudson, ex capo-staff dell’ufficio dell’Inviato Speciale degli Stati Uniti in Sudan, gli ultimi eventi sudanesi sono particolarmente significativi perché indicano “una nuova era per la diplomazia statunitense in Africa, quella in cui gli Stati Uniti sono uno dei tanti attori potenti che si contendono l’influenza per plasmare i risultati politici. In un contesto in cui la voce di Washington è diluita tra potenze in competizione, il Sudan è emerso come il campo di battaglia definitivo. Sebbene il Sudan si sia sempre seduto a un bivio strategico, la rivoluzione ha rimescolato il mazzo politico nel paese e sono emerse opportunità per nuovi attori globali”.iv
Gli interessi strategici e militari russi
Uno di questi attori globali è sicuramente la Russia, che negli ultimi anni sta espandendo sempre di più la sua presenza e la sua influenza in Africa e ha nel Sudan uno dei principali partner continentali. Il Paese africano, nello specifico, è altamente strategico per Mosca perché ospiterà una base navale russa a Port Sudan, la seconda al di fuori degli ex territori sovietici dopo quella di Tartus, in Siria.
La base riveste un’importanza cruciale perché, come sottolineato da Samuel Ramani, la Russia potrebbe utilizzarla come trampolino di lancio per una maggiore proiezione di potenza nel Mar Mediterraneo e per migliorare il suo accesso al commercio che passa attraverso il Canale di Suez. La struttura in Sudan, inoltre, permetterebbe a Mosca di incrementare la sua credibilità come provider di sicurezza marittima nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano, uno sviluppo ancora più significativo se si pensa che la dottrina navale russa indica la pirateria in quest’Oceano come una minaccia critica. Non è un caso, infatti, che la Russia stesse cercando già da anni uno sbocco al Golfo di Aden, prima in Yemen e poi a Gibuti, entrambi progetti poi naufragati.v
L’intesa con il Sudan, infine, ha un valore strategico anche dal punto di vista economico, perché consentirà alla Russia di utilizzare i porti marittimi e gli aeroporti sudanesi per i propri import e export, che saranno esenti da dazi doganali (a beneficiarne saranno soprattutto le esportazioni belliche di Mosca verso l’Africa, che nel 2020 hanno raggiunto un valore di 2,5 miliardi di dollari).
In questo contesto probabilmente Mosca vede con favore una svolta militare in Sudan, perché, nonostante le ottime relazioni bilaterali sviluppate durante il regime di al-Bashir siano continuate anche durante la transizione democratica, in estate alcune voci avevano sottolineato la volontà del governo sudanese di voler recedere dall’accordo riguardante la base di Port Sudan.
Non è un caso, dunque, che l’atteggiamento russo verso il golpe sia stato molto diverso da quello dei Paesi occidentali: il 25 ottobre, la portavoce del Ministero degli Affari Esteri della Federazione Russa, Maria Zacharova, aveva dichiarato che le autorità del Sudan avevano pieno diritto a “risolvere le questioni interne in modo autonomo” e, il giorno dopo, anche il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov ha sottolineato l’importanza di non interferire negli affari interni di Khartoum, poiché spetta al Paese stabilizzare il conflitto secondo i suoi principi. Al-Burhan ha particolarmente apprezzato la linea di Mosca e, infatti, la prima sua intervista internazionale dopo la presa del potere è stata concessa proprio all’agenzia di stampa russa RIA Novosti, occasione in cui il generale aveva specificato l’intenzione di investire sulla cooperazione militare con la Russia e la sua attenzione agli investimenti russi nell’industria mineraria, energetica e agricola.vi
La conferma che Mosca abbia tentato di capitalizzare al massimo il golpe sudanese è arrivata, infine, anche dal fatto che il viceministro degli Esteri Mikhail Bogdanov, il 10 novembre, aveva dichiarato di sperare nell’approvazione dell’accordo sulla base militare russa da parte del nuovo governo presieduto da al-Burhan.
La posizione ambigua della “troika” araba
Tra gli attori maggiormente interessati agli sviluppi sudanesi, però, ovviamente non c’è solo la Russia, ma anche i vicini paesi della regione. Una posizione particolarmente ambigua, infatti, risulta essere quella della cosiddetta “troika” araba, cioè Arabia Saudita, EAU, ed Egitto.
Le due monarchie del Golfo, che fin dagli anni ’70 hanno visto in Khartoum una sorta di granaio dal quale attingere per colmare il proprio fabbisogno alimentare, avevano cercato già durante gli anni di al-Bashir, di influenzare, attraverso aiuti economici, la collocazione sudanese nelle alleanze internazionali, troppo vicina a rivali regionali come l’Iran o il duo turco-qatariota.
Ci erano riusciti soltanto parzialmente, spingendo al-Bashir ad interrompere i rapporti con Teheran nel 2016, ma il regime sudanese risultava ancora troppo vicino ad Ankara e Doha, dunque, il colpo di stato del 2019 è risultato un’occasione cruciale per cambiare definitivamente gli equilibri.
La strategia è stata quella di supportare finanziariamente i generali sudanesi protagonisti del processo di transizione, fornendo un margine cruciale per resistere alle richieste popolari di un governo interamente civile. Come sottolineato dallo studioso Jean-Baptiste Gallopin, il riallineamento internazionale del Sudan è stato rapido e, in meno di un anno, Qatar e Turchia hanno perso ogni ruolo nella politica di Khartoum.vii In un contesto del genere è implicito che la presa del potere da parte dei militari in Sudan sia stata vista con favore da Arabia Saudita ed EAU, nonostante entrambi abbiano richiesto, nel comunicato congiunto con Stati Uniti e UK del 3 novembre, l’immediato ripristino del governo di transizione.
A questo comunicato non ha partecipato l’Egitto, che fin dall’inizio del colpo di stato sudanese ha evitato di prendere posizioni nette. Un’indagine del Wall Street Journal ha fatto emergere sospetti su un diretto coinvolgimento del Cairo nel golpe sudanese, svelando come poco prima del 25 ottobre si siano svolti degli incontri segreti tra i vertici egiziani ed al-Burhan. Pochi giorni prima del colpo di stato il direttore dell’Intelligence egiziana, Abbas Kamel, si è recato a Khartoum per incontrare il generale sudanese e, il 24 ottobre, lo stesso al-Burhan è volato in Egitto, probabilmente per chiedere conferme ad al-Sisi sull’eventuale supporto egiziano alla svolta militare. Dietro l’interferenza egiziana ci sarebbe stata la volontà di avere una leadership sudanese più dura riguardo la gestione del dossier GERD, poiché Hamdok era considerato troppo vicino ad Addis Abeba, avendo precedentemente lavorato in Etiopia per conto dell’ONU.viii
Un punto importante da sottolineare, però, è che se l’azione dei tre Paesi arabi era inizialmente basata su una visione condivisa del futuro del Sudan, invece, negli ultimi dodici mesi, le loro posizioni si sono progressivamente diversificate e ognuno ha scelto di rafforzare i legami con specifici attori politici sudanesi.
Come evidenziato da Federico Donelli, l’atteggiamento cauto adottato da Riad dopo l’elezione di Biden ha portato l’Arabia Saudita a ritirarsi dagli affari politici sudanesi, pur mantenendo legami finanziari, mentre Egitto ed EAU hanno preso due posizioni differenti: da un lato, come visto, il Cairo ha appoggiato il generale al-Burhan, protagonista principale del recente golpe; dall’altro Abu Dhabi è più vicina al capo delle Forze di Supporto Rapido (Rsf), il generale Mohamed Hamdan Dagolo (noto come Hemeti), visto con sospetto dall’Egitto perché troppo vicino al vecchio regime di al-Bashir.ix
Cina spettatrice interessata
Un altro attore da tenere in considerazione nel delineare i principali attori internazionali interessati agli stravolgimenti interni del Sudan è la Cina. Khartoum non è più per Pechino un partner energetico cruciale come un decennio fa (quando era la sesta fonte estera di petrolio) e su questo hanno inciso la secessione del Sud Sudan (che ha portato con sé l’80% delle risorse petrolifere del territorio precedentemente unito) e la politica cinese di diversificare il più possibile i partner petroliferi, con il recente shift soprattutto verso la più vicina Asia centrale.
Nonostante ciò, il Sudan rimane un importante partner economico per Pechino, particolarmente coinvolto nella Belt and Road Initiative (BRI), con diversi investimenti in progetti infrastrutturali di larga scala. Ne sono esempi la ferrovia Khartoum-Port Sudan, finanziata per oltre un miliardo di dollari dal governo cinese e legata all’ambizioso piano di Pechino di realizzare una rete ferroviaria che colleghi le due coste africane, ma anche la diga di Merowe (finanziata con circa 400 milioni di dollari) e il porto di Haidob, costruito dalla China Harbor Engineering Co.x Inoltre, va sottolineato il gran numero di aziende e cittadini cinesi nel Paese, impegnati in infrastrutture e servizi, così come nell’industria petrolifera.
In questo contesto, però, Pechino ha sempre evitato di prendere le parti di specifici attori istituzionali sudanesi, sia nel rovesciamento del regime di al-Bashir sia nella successiva fase di transizione caratterizzata dalla dualità tra civili e militari. Dunque, la Cina non ha particolari preferenze riguardo chi governerà in futuro il Sudan, ma è interessata prevalentemente alla stabilità del Paese. Il portavoce del ministero degli Esteri,Wang Wenbin, infatti, si è limitato a invitare le parti a “risolvere le differenze attraverso il dialogo e a salvaguardare la pace”, assicurando che Pechino “adotterà le misure necessarie per garantire la sicurezza delle istituzioni e del personale cinese in Sudan”.
Quindi, come sottolineato dall’esperto di politica estera cinese Luke Patey, le priorità interne di protezione dei cittadini all’estero rendono ancora il Sudan un caso da tenere d’occhio per i decisori di politica estera della Cina, ma finché non ci sarà un’evoluzione chiara negli eventi, questa manterrà le linee di comunicazione aperte alle varie fonti di potere del governo, dell’esercito e degli islamisti del Paese.
Allo stesso tempo, però, un punto importante da sottolineare è che la Cina non potrà semplicemente allontanarsi dal Sudan, in caso di instabilità, perché questa metterebbe a rischio la sua reputazione nel resto del continente dopo le promesse di pace e sviluppo, arrivate con gli investimenti della Belt and Road Initiative.xi
Una deriva preoccupante per il Paese e per il continente
Nonostante il reintegro di Hamdok, però, la transizione democratica del Sudan sembra comunque a rischio. L’accordo tra l’ex Primo ministro e i militari non stabilisce una data per la fine dello stato di emergenza nazionale annunciato da al-Burhan e non fa riferimento agli equilibri di condivisione del potere stabiliti nel 2019. Dodici ministri del governo di transizione si sono dimessi in segno di protesta contro l’accordo e le proteste dei cittadini continuano. Lo stesso Hamdok da eroe è passato a essere considerato un traditore per essere sceso a patti con i militari, e il generale Dagolo lo ha anche accusato di essere d’accordo con loro fin dall’inizio del golpe.xii I manifestanti chiedono la fine dell’interferenza militare nella politica del Paese, perché, a dispetto del reintegro dei civili, è chiaro come nel Paese le forze armate svolgano ancora un ruolo cruciale e come siano un attore inaffidabile nel processo di democratizzazione, poiché non permetteranno riforme e decisioni che porterebbero una diminuzione del loro potere e dei loro privilegi.
Il golpe del 25 ottobre, inoltre, assume contorni ancora più significativi se contestualizzato nel più ampio quadro continentale, che ha visto nell’ultimo anno un repentino aumento di colpi di stato militari. Sebbene l’Africa sia stata storicamente sempre molto soggetta ai coup (soprattutto negli anni Sessanta, Ottanta e Novanta), negli ultimi vent’anni i numeri erano calati drasticamente, ma il trend sembra essersi di nuovo invertito negli ultimi mesi. In poco più di sei mesi, il continente ha subìto 7 colpi di Stato, di cui 5 attuati dai militari. A quello sudanese del 25 ottobre si sommano quelli in Chad (aprile), in Mali (maggio) e in Guinea (settembre) e il tentativo sventato in Niger a marzo. In tutti questi Stati le già precarie condizioni economiche della popolazione sono peggiorate ultimamente a seguito della pandemia e, dunque, i militari hanno sfruttato il malcontento della popolazione, che, secondo un sondaggio di African Barometer, è sempre meno fiduciosa nella democrazia.xiii
Inoltre, come sottolineato dal segretario delle Nazioni Unite Antonio Gutierres dopo il colpo di stato in Guinea di settembre, “i colpi di stato militari sono tornati in un clima in cui vi è una mancanza di unità nelle risposte della comunità internazionale. Le divisioni geopolitiche stanno minando la cooperazione internazionale e un senso di impunità sta prendendo piede”.xiv I recenti avvenimenti sudanesi, infatti, confermano entrambe queste tendenze: da una parte i militari africani, che stanno sfruttando le particolari condizioni interne date dall’intersecarsi di instabilità politica e condizioni economiche disastrose, dall’altra una comunità internazionale non in grado di fornire una risposta unitaria, a causa dei diversi interessi e rapporti con gli attori in gioco in Sudan.
NOTE AL TESTO
i Chang A. (2019), “Sudan’s Prime Minister Is On A Mission To Show The World His Country Has Changed”, Kera News, https://www.keranews.org/2019-12-03/sudans-prime-minister-is-on-a-mission-to-show-the-world-his-country-has-changed
ii Fernandez A. (2021), “In Sudan, the Masks Come Off After a Military Coup”, The Washington Institute for Near East Policy, https://www.washingtoninstitute.org/policy-analysis/sudan-masks-come-after-military-coup?utm_campaign=wp_todays_worldview&utm_medium=email&utm_source=newsletter&wpisrc=nl_todayworld#utm_term=READ%20THIS%20ITEM%20ON%20OUR%20WEBSITE%26utm_campaign=T
iii Shazly A. (2021), “US appoints ambassador to Sudan for first time since 1996”, I24news, https://www.i24news.tv/en/news/international/africa/1638115971-us-appoints-ambassador-to-sudan-for-first-time-since-1996
iv Hudson C. (2021), “Sudan’s coup wasn’t a failure of US diplomacy. It was the dawn of a new era in Africa.”, The Atlantic Council, https://www.atlanticcouncil.org/blogs/new-atlanticist/sudans-coup-wasnt-a-failure-of-us-diplomacy-it-was-the-dawn-of-a-new-era-in-africa/
v Ramani S. (2020), “Russia’s Port Sudan Naval Base: A Power Play on the Red Sea”, RUSI Center, https://rusi.org/explore-our-research/publications/commentary/russias-port-sudan-naval-base-power-play-red-sea
vi Peverieri A. (2021), “Sudan: le autorità militari guardano alla Russia”, Sicurezza Internazionale, https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2021/11/03/sudan-le-autorita-militari-guardano-alla-russia/
vii Gallopin J. B. (2019), “The Great Game of the UAE and Saudi Arabia in Sudan”, Project on Middle East Political Science, Elliott School of International Affairs, https://pomeps.org/the-great-game-of-the-uae-and-saudi-arabia-in-sudan?utm_campaign=wp_todays_worldview&utm_medium=email&utm_source=newsletter&wpisrc=nl_todayworld
viii N.A. (2021),” Al-Burhan Discretely Went to Egypt on Eve of Coup: WSJ”, Al Mayadeen, https://english.almayadeen.net/news/politics/alburhan-discretely-went-to-egypt-on-eve-of-coup:-wsj
ix Donelli F. (2021), “Il destino del Sudan tra fratture interne e regionali”, Istituto Affari Internazionali, https://www.affarinternazionali.it/2021/11/il-destino-del-sudan-tra-fratture-interne-e-internazionali/
x Anyu J. N. & Dzekashu W. G. (2021), “China Belt and Road Initiative: Give-and-Take of Infrastructure Development in the North Africa Subregion” in World Journal of Business and Management, Vol. 7, No. 1
xi Olander E. & Patey L. (2021), “What’s at stake for China in Sudan?”, Danish Institute for International Studies, https://www.diis.dk/en/research/whats-stake-china-in-sudan
xii N.A. (2021), “Sudan’s PM Hamdok backed military takeover, says general”, Al-Jazeera, https://www.aljazeera.com/news/2021/11/26/sudan-pm-hamdok-backed-military-takeover-general-dagalo
xiii Caruso F. (2021), “Sette colpi di Stato in sei mesi, in Africa è allarme democrazia”, La Stampa, https://www.lastampa.it/speciale/la-bussola-diplomatica/2021/11/08/news/sette_colpi_di_stato_in_sei_mesi_allarme_democrazia_in_africa-400502/
xiv Ibidem
Il CeSE-M sui social