di Stefano Vernole
Lo Xinjiang è una regione multietnica e l’unità della popolazione è stata fondamentale per preservare l’unificazione nazionale a lungo termine e la convivenza. A parte le eccezioni rappresentate dalle infiltrazioni esterne, tutti i gruppi etnici comunicano regolarmente e difendono la frontiera e lo Stato in generale, condividono le risorse e rendono complementari i rispettivi vantaggi. Gli scambi culturali all’interno dell’XPCC hanno aumentato la comprensione reciproca tra persone di diversi gruppi etnici, facilitato lo sviluppo di una cultura avanzata nello Xinjiang e rafforzato la coesione della nazione nelle aree di confine della Cina.
La difesa interna
Lo Xinjiang ha un lungo confine e la sua salvaguardia è responsabilità che lo Stato cinese ha affidato allo Xinjiang Production and Construction Corps (XPCC). Forza paramilitare altamente organizzata sin dalla sua fondazione, l’XPCC ha per molti anni assunto sia compiti di produzione che di sicurezza, ogni membro assumendo il duplice ruolo di soldato e lavoratore. L’XPCC possiede una robusta milizia e forze di polizia armate i cui membri sono in grado sia di combattere che di lavorare. Insieme ai gruppi dell’esercito, alle forze di polizia e ai residenti locali di vari gruppi etnici dello Xinjiang, il Corpo ha costruito un forte sistema di difesa congiunto alle frontiere. Esso ha inoltre svolto un ruolo speciale nel salvaguardare l’unificazione del Paese e la stabilità sociale dello Xinjiang e nel reprimere i crimini terroristici violenti.
Le fattorie reggimentali di frontiera sono forze importanti per la sicurezza dei confini e si prendono cura di intere aree; mentre le aziende si occupano di sottozone, le singole milizie sono responsabili dei propri lotti. L’XPCC ha istituito anche il sistema di difesa comune “quattro in uno”, in cui truppe di stanza, polizia armata, milizie locali e milizie in servizio del Corpo lavorano insieme per salvaguardare la sicurezza delle frontiere cinesi. L’XPCC ha quindi costantemente rafforzato le fattorie reggimentali di frontiera in conformità con lo spiegamento strategico della Cina.
Dal 2000 il Corpo ha portato avanti il ”Progetto Jinbian”, che si concentra sul miglioramento dell’acqua potabile, dei trasporti, dei servizi medici, delle reti di trasmissione, dell’ambiente e dei servizi igienico-sanitari, della promozione della cultura e della ristrutturazione di case fatiscenti. Ha sfruttato appieno i vantaggi geografici per aprire le zone di confine e promuovere il commercio estero e gli scambi culturali. Ha anche migliorato le condizioni di lavoro e di vita dei residenti locali e ha aumentato la solidarietà, l’attrattività e la forza complessiva delle fattorie reggimentali di confine1.
Il compito cruciale dell’XPCC nel mantenere la stabilità dello Xinjiang è anche una necessità concreta per realizzare una pace e una stabilità durature. Dagli anni Ottanta è cresciuta la minaccia delle “tre forze” – separatisti, estremisti religiosi e terroristi – alla stabilità sociale dello Xinjiang. Per far loro fronte, divisioni, reggimenti, compagnie, imprese e istituzioni pubbliche sotto l’XPCC hanno istituito battaglioni, compagnie e plotoni di milizia di emergenza che gli consentono di rispondere rapidamente alle esplosioni di attività particolarmente violente. L’XPCC ha svolto ruoli cruciali nella lotta al terrorismo e nel mantenimento della stabilità, in particolare durante la rivolta del 5 aprile 1990 a Barin Township (contea di Akto), dopo l’incidente di Yining del 5 febbraio 1997 e durante i violenti tumulti a Urumqi nel 2009. Avendo familiarità con la situazione ed essendo dislocato vicino a questi siti, l’XPCC e le milizie hanno colpito rapidamente i facinorosi e si sono unite alla polizia armata e ai residenti dei vari gruppi etnici nel reprimere i crimini terroristici violenti, mantenendo così la stabilità sociale dello Xinjiang. Attualmente, l’XPCC sta concentrando i suoi sforzi sulla creazione di una milizia di primo piano in Cina e sulla costruzione di un sistema di addestramento a rotazione regolare e servizio di riserva, che combina produzione, addestramento, prestazioni e risposta alle emergenze.
Dopo il suo ripristino all’inizio degli anni ’80, l’XPCC ha investito oltre 90 milioni di RMB per cinque anni consecutivi allo scopo di supportare la creazione di progetti di irrigazione e conservazione dell’acqua a Kashgar e Tacheng e co-costruito con i governi locali più di 400 istituzioni modello. Dagli anni ’90 l’XPCC ha aiutato i governi locali a costruire asili e scuole bilingue e a formare insegnanti bilingue. Dal 1999, almeno 57 fattorie reggimentali in 7 divisioni nello Xinjiang settentrionale hanno fornito sessioni di formazione e posti temporanei a 15 gruppi di 2.156 funzionari della minoranza etnica di base provenienti da 32 contee (città) in 4 prefetture nel sud dello Xinjiang. Dall’inizio del secolo, XPCC ha promosso vigorosamente la “convergenza economica”, collaborando con le comunità locali nella costruzione di 87 complessi economici e impegnandosi in oltre 200 progetti di cooperazione. Ogni anno il Corpo ha assegnato personale scientifico e tecnologico per tenere varie sessioni di formazione sull’agricoltura, l’allevamento di animali e le macchine agricole e per promuovere un’ampia gamma di tecnologie avanzate tra i contadini locali e i pastori di tutti i gruppi etnici.
L’XPCC è un mosaico di persone di 37 gruppi etnici, tra cui Han, Uiguri, Kazaki, Hui, Mongoli, Xibe, Russi, Tagiki e Manciù. La popolazione delle minoranze etniche ha raggiunto i 375.400 abitanti, pari al 13,9% del totale del Corpo. Ci sono inoltre 37 fattorie reggimentali abitate prevalentemente da minoranze etniche. Con l’accelerazione del loro sviluppo quale massima priorità, l’XPCC ha rafforzato il sostegno politico e la riduzione della povertà. Negli ultimi anni l’XPCC ha lanciato 114 progetti di costruzione in queste fattorie, con un investimento totale di 1,08 miliardi di RMB, coprendo settori come infrastrutture urbane, progetti di edilizia abitativa a basso reddito, agricoltura e allevamento di animali. Nel 2012 il valore della produzione totale di queste 37 fattorie reggimentali ha raggiunto 11,103 miliardi di RMB, in crescita del 42,8% rispetto all’anno precedente e 24,4 punti percentuali in più rispetto al livello medio dell’XPCC.
Gli scambi culturali all’interno dell’XPCC hanno aumentato la comprensione reciproca tra persone di diversi gruppi etnici, facilitato lo sviluppo di una cultura avanzata nello Xinjiang e rafforzato la coesione della nazione nelle aree di confine della Cina. È stata una politica coerente del Governo centrale sostenere la crescita dell’XPCC, mentre la strategia a lungo termine della Cina ha fornito un contesto migliore al ruolo unico dell’XPCC nel mantenere la stabilità e salvaguardare il confine.
Grande preoccupazione ufficiale per l’estremismo religioso e il separatismo nella regione fu espressa dopo il 1990, quando centinaia di persone si radunarono fuori dagli uffici governativi a Baren, nel sud dello Xinjiang, per protestare contro l’estensione della pianificazione familiare agli Uiguri (in realtà la politica del figlio unico non è mai stata applicata alle minoranze cinesi come gli Uiguri). Un successivo rapporto sull’incidente alla televisione dello Xinjiang mostrò alcuni documenti, presumibilmente trovati addosso ai manifestanti, che chiedevano lo scatenamento della jihad e la morte agli “infedeli”. Un mese dopo il governo provinciale dello Xinjiang approvò un nuovo regolamento per disciplinare le proteste nella regione.
Esso stabiliva che tutte le manifestazioni dovevano essere ufficialmente approvate in anticipo e che la domanda doveva specificare lo “scopo, i metodi, gli slogan o i tormentoni della protesta, il numero dei partecipanti” e “non minacciare l’unità dello Stato” nei suoi propositi. L’incidente di Baren, sebbene non ufficialmente descritto come terrorismo islamico, ha però portato ad un maggiore controllo da parte delle istituzioni che hanno preso di mira le “illegalità” di alcune autorità religiose” ed iniziato un discreto monitoraggio del clero musulmano.
Sebbene il radicalismo islamico venisse sottoposto a un esame più approfondito, l’attenzione delle autorità si era concentrata principalmente sul separatismo piuttosto che sulla componente religiosa delle numerose proteste, violente o altrimenti, scoppiate nello Xinjiang durante il resto del decennio, compresa la grande manifestazione di febbraio del 1997 a Yining, nel nord-ovest dello Xinjiang. Come durante i tumulti di Baren, alcuni manifestanti sembravano gridare slogan di ispirazione religiosa che variavano nel contenuto, dalle dichiarazioni di fede agli appelli per un califfato islamico. Nel luglio dello stesso anno, Amudun Niyaz, presidente del Congresso del Popolo dello Xinjiang, chiese pubblicamente “l’ingaggio di una guerra popolare contro separatisti e attività religiose illegali”. Tuttavia, egli fu attento ad aggiungere: “La nostra lotta contro i separatisti nazionali non è né di tipo etnico né un problema religioso. È una lotta politica tra quelli che salvaguardano l’unificazione e la sicurezza della madrepatria e quelli che vogliono dividere la patria”2.
È da notare che prima del 2001 alcuni resoconti ufficiali di entrambe le parti sull’incidente di Baren e le proteste di Yining ne hanno attribuito la chiave ai ruoli organizzativi dei gruppi islamici (il Partito Islamico del Turkestan Orientale e il Partito Islamico del Turkestan Orientale di Allah), ma in entrambi i casi la natura e le capacità di queste organizzazioni venivano mal definite. C’erano pochi riferimenti ufficiali agli evidenti collegamenti, ad esempio, ad altri gruppi terroristici islamisti che operavano dal Pakistan, dall’Afghanistan o da altri Paesi dell’Asia Centrale.
La percezione del pericolo terroristico nello Xinjiang doveva cambiare drammaticamente sulla scia dell’11 settembre 2001 e degli attacchi al World Trade Center e al Pentagono negli Stati Uniti. Il 14 novembre 2001 il portavoce dell’allora Ministro degli Esteri cinese, Zhu Bangzao, tenne una conferenza stampa sul separatismo uiguro. Egli elencò le organizzazioni con sede in Afghanistan e altrove in Asia centrale sostenendo che alcuni separatisti dello Xinjiang avevano ricevuto una formazione nella regione prima di essere inviati in Cina e che un’organizzazione nota come Movimento islamico del Turkestan orientale ETIM) era stata sostenuta e diretta da Osama bin Laden. Hasan Mahsum, il leader di ETIM, aveva incontrato Bin Laden nel 1999 e nel 2001, ricevendo promesse di “un’enorme somma di denaro”. L’obiettivo del leader di Al Qaeda era quello di lanciare una “guerra santa” con l’obiettivo di istituire uno Stato islamico teocratico nello Xinjiang. Questo argomento ricevette un supporto importante nel settembre 2002, quando il Governo degli Stati Uniti pose l’ETIM in uno dei suoi elenchi di gruppi terroristici3.
L’ETIM è un’organizzazione islamica composta da militanti uiguri provenienti dallo Xinjiang, le cui origini risalgono agli anni ‘40. Il suo obiettivo specifico è quello di separare la comunità uigura dalla Cina attraverso l’istituzione di uno Stato indipendente, denominato “East Turkestan”. Verso la fine degli anni ’80, e in particolare nel corso dei ’90, l’ETIM è divenuto più attivo da un punto di vista operativo, attirando su di sé l’attenzione della comunità internazionale. Parallelamente ad esso, il World Uyghur Congress guidato da Rebyia Kadeer (un’anziana esule uigura che viveva negli Stati Uniti) gestiva insieme al marito Sidik Rouzi Radio Liberty’s Uyghur, sezione uigura della più celebre Radio Free Asia sostenuta dalla CIA tramite il Broadcasting Board of Governors (agenzia federale controllata dal Dipartimento di Stato USA) e dallo speculatore George Soros. Quest’ultimo, tramite l’Open Society Foundation, ha sostenuto anche la Fondazione norvegese Forum 18 nella propaganda anti-cinese in Xinjiang. Si tratta evidentemente di una tendenza separatista che si è potuta sviluppare esclusivamente grazie al supporto esterno occidentale, perché malgrado le affinità etno-linguistiche nemmeno la Turchia è riuscita negli anni Novanta a porsi quali interlocutore credibile nell’area, fallendo il tentativo di penetrazione geopolitica che aveva valutato di intraprendere nelle repubbliche indipendenti sorte dopo lo scioglimento dell’Unione Sovietica4.
Nel 2002 l’ETIM è stato inserito dalle Nazioni Unite nella lista dei gruppi terroristici riconosciuti a livello mondiale e il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha evidenziato i solidi legami di questo movimento con Al-Qaeda e i Talebani. A seguito degli attentati sanguinosi dell’11 settembre 2001, l’ETIM è stato classificato infatti come organizzazione terroristica non soltanto dalla Cina ma anche dall’Unione Europea, dagli USA, dal Regno Unito, dalla Russia, dal Pakistan, dalla Malesia, dagli Emirati Arabi Uniti, dalla Turchia, dal Kazakhistan e dal Kirghizistan. La cellula jihadista guidata (allora) da Osama Bin Laden ha supportato l’ETIM sia in termini finanziari sia in termini logistici, accogliendo numerosi miliziani uiguri nei propri campi di addestramento in Afghanistan. Alcuni esponenti rilevanti dell’ETIM hanno acquisito ruoli di alto livello all’interno di al-Qaeda, come per esempio Abd al-Haqq al Turkistani, che nel 2005 è divenuto membro del Consiglio direttivo (Majlis Shura) dell’organizzazione terroristica. Il movimento uiguro ha instaurato intense relazioni anche con l’Islamic Movement of Uzbekistan (IMU), cellula composta da militanti salafiti-jihadisti (affiliati ad Al-Qaeda), che mira a rovesciare il Governo di Tashkent fondando uno Stato islamico basato sulla sharia. Questi rapporti – favoriti dalla vicinanza geografica dello Xinjiang con Afghanistan, Pakistan e Uzbekistan – hanno consentito lo sviluppo del network infrastrutturale e della flessibilità operativa dell’ETIM. Su queste basi, il gruppo ha progressivamente ampliato la portata delle proprie attività, compiendo operazioni non solo nello Xinjiang ma altresì al di fuori dei confini regionali.
A partire dal 2007 divenne sempre più pericoloso visitare lo Xinjiang. La regione fu scossa da un’ondata di orribili attacchi terroristici, che provocarono oltre 1.000 morti e innumerevoli feriti. Ad esempio, il 5 luglio 2009, c’è stata una rivolta nella capitale Urumqi; 197 persone sono state hackerate, picchiate o bruciate a morte e 1.721 sono rimaste ferite. A Hotan, nel luglio 2011, si sono registrati 4 morti. Il 22 maggio 2014, due autobombe nel capoluogo hanno ucciso 43 persone e ne hanno ferite 94. Uno studio del 2016 commissionato dal Governo degli Stati Uniti ha rilevato che, dal 2012 al 2014, gli attacchi interni in Cina “apparentemente sono diventati più frequenti, più geograficamente dispersi e più mirati indiscriminatamente”. L’organizzazione che spesso ha rivendicato la responsabilità degli attacchi, l‘East Turkestan Islamic Movement (ETIM), è stata descritta in un rapporto del Council on Foreign Relations come “un gruppo separatista musulmano fondato da militanti uiguri”.
Per esempio, venne attribuita all’ETIM la responsabilità dell’attentato kamikaze perpetrato in Piazza Tienanmen (Pechino) nell’ottobre 2013, che ha provocato la morte di cinque persone. O ancora, sempre all’organizzazione uigura fu assegnata la paternità dell’attacco condotto nella metropolitana di Kunming (provincia di Yunnan) nel marzo del 2014, con un bilancio di circa 30 vittime5.
La centralità geopolitica dello Xinjiang e i suoi risvolti per la sicurezza eurasiatica
Dalla fine della guerra fredda ad oggi, l’Asia Centrale è divenuta un’area di primaria importanza per gli equilibri globali ed è stata investita dall’attenzione delle grandi potenze. Gli attori regionali, in primis Russia e Cina, si sono trovati nella necessità di rispondere alle sfide lanciate dall’unica potenza mondiale rimasta sia per quanto riguarda gli interessi interni all’area sia nella sistemazione del proprio spazio geopolitico. L’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (OCS) è la principale e comune risposta messa in piedi dalle potenze situate nella regione. Russia, Cina, Uzbekistan, Kazakistan, Tajikistan, Kirghizistan ne sono gli Stati membri e fondatori; Iran, India, Pakistan, Mongolia, Afghanistan gli Stati osservatori; Bielorussia, Armenia, Azerbaijian, Turchia, Cambogia, Nepal e Sri Lanka i partner di dialogo. Soltanto elencando gli aderenti a tale Organizzazione si è in grado di capire il peso che essa potrebbe avere nel futuro delle relazioni internazionali e degli assetti geopolitici mondiali.
Con la fine del bipolarismo garantito dalla “guerra fredda” e il sopraggiunto dominio esercitato in ogni angolo del globo dagli Stati Uniti e dalle loro alleanze, potenze emergenti e dalle energie potenziali immani, hanno dovuto trovare un mezzo per far pesare le proprie richieste di multilateralismo negli affari internazionali e di multipolarismo negli equilibri geopolitici. Attraverso nuovi concetti di relazioni interstatali e di sicurezza, basati su intese attente nel garantire soluzioni eque, le potenze euro-asiatiche sono riuscite a consolidare le reciproche relazioni e a costituire un vero e proprio “polo” che farà (e sta già facendo) sentire il proprio peso nell’arena mondiale.
Il processo di costituzione della OCS nasce dalla risoluzione definitiva delle dispute confinarie che contrapponevano la Cina e lo spazio russo. Questi accordi sorgono dalla necessità, naturale, di trovare un comune sviluppo dopo il crollo dell’URSS e la crescita esponenziale della potenza cinese. Risolte le varie dispute, in un crescendo di integrazione, l’Organizzazione di Shanghai è passata a regolamentare i rapporti dei suoi membri in ogni campo possibile: dalle questioni interne dei vari Paesi con l’interesse di proteggerne la sovranità, alla collaborazione contro le nuove minacce rappresentate da terrorismo, estremismo e separatismo (le famigerate “forze maligne” contro le quali si scaglia l’OCS), passando per la cooperazione energetica in un’area ricchissima di gas, petrolio e fondamentale per l’allocazione mondiale di queste risorse; la collaborazione si è estesa anche al campo militare confermando che l’OCS, anche attraverso l’appoggio che continua a dare all’Iran (sempre più vicino Mosca e Pechino), sta tentando di creare un “polo” in grado di rendersi autonomo dall’egemonia statunitense sul mondo6. L’art. 10 dell’OCS ha fissato la futura ratifica di un accordo separato e quella di altri documenti necessari per la creazione di una Struttura Regionale Anti-Terrorismo (RATS), sorta nel 2004 a Bishkek e attualmente diretta dal tagiko Jumakhon Giyosov.
Per rinforzare questo grandioso progetto di integrazione euroasiatica, dopo il ritiro statunitense dall’Afghanistan, la Cina sta conducendo colloqui con i capi Talebani al fine di stabilizzare il Paese e assicurarsi che nessun sostegno provenga più da questa regione ai separatisti e terroristi uiguri7. La Cina è unita all’Afghanistan dal corridoio del Vacan e il passo del Vachir situati nella provincia afghana del Badakhshan, il quale confina a sua volta con il Pakistan a sud ed il Tajikistan a nord. Per assicurare il controllo della sicurezza lungo il confine condiviso e scongiurare eventuali attività terroristiche o traffici illeciti come quelli legati alla droga e alle armi, la Cina ha istituito insieme all’Afghanistan, al Pakistan e al Tajikistan il Quadrilateral Cooperation and Coordination Mechanism nel 20168. Insieme alle tradizionali attività di sicurezza, l’accordo prevede anche la formazione del personale militare, attraverso la Silk Road Cooperation Joint Counterterrorism Training For Special Operation Units, mentre con il patrocinio della OCS la Cina promuove scambi di studio rivolti al personale governativo dei Paesi membri ed incontri ministeriali di vario livello. Nell’ambito della Via della Seta Digitale e dello Space Information Corridor Pechino intende accrescere lo sviluppo di infrastrutture digitali come la costruzione di una rete in fibra ottica per collegare la Cina al Kirghizistan, così come con il Pakistan tramite l’impresa Huawei. L’azienda cinese si occupa anche della formazione del personale militare del PLA e dell’operabilità delle stazioni satellitari che compongono parte dello Space Information Center, le quali garantiscono la connessione di rete all’intera iniziativa.
Tornando ai tentativi di destabilizzazione esterni, non è quindi un caso che durante la “primavera araba” lautamente sponsorizzata e finanziata più o meno direttamente dall’Amministrazione USA di Obama, nel febbraio 2011 siano apparsi sulla rete misteriosi appelli che invitavano i cittadini ad incontrarsi in luoghi prestabiliti delle principali città cinesi, semplicemente per “passeggiare e guardare in lontananza”, auspicando “democrazia e diritti”. Per diverse settimane l’appello si è ripetuto sul web, per quella che taluni hanno utopisticamente definito la versione cinese della “rivoluzione dei gelsomini (Molihua Geming)”9.
Mentre nello Xinjiang e nel resto della Repubblica Popolare Cinese, ad eccezione di alcuni attentati terroristici come quello del luglio 2009, quando per circa una settimana pesanti disordini ed un’intensa guerriglia urbana insanguinarono le strade di Urumqi ai danni dei cinesi di etnia han e delle altre minoranze, la situazione è tornata relativamente sotto controllo, lo stesso non può dirsi per il Medio Oriente. Se nel 2015 i combattenti uiguri, inquadrati nel Turkistan islamic party (Tip), alleato di Al-Nusra, erano poche centinaia, dopo la presa di Idlib da parte dei ribelli islamisti il flusso si è moltiplicato, e sono andati a costituire una della comunità più numerose fra i foreign fighters, fra i 4 e 5 mila uomini. Essi sono in prima linea nella difesa delle cittadine strategiche, in montagna, di Jisr al-Shogour nella provincia di Idlib e di Jib al-Ahmar in quella di Latakia contro le truppe del legittimo Governo di Bashar al-Assad. Dispongono, come hanno mostrato alcuni video di propaganda islamisti, di tank e di missili anti-carro Tow americani che si sono procurati da altri gruppi ribelli. La migrazione uigura è dovuta all’alleanza con Al-Nusra (entrambi le fazioni sono legate ad Al-Qaeda), che controlla quasi tutta la provincia di Idlib, ma anche alla pressione dell’operazione anti-terrorismo congiunta sino-pachistana che ha spinto i guerriglieri islamisti via dall’Hindokush. Il leader uiguro Abdul Haq è stato ucciso nel 2010, perciò la fuga attraverso le regioni remote del nord dell’Afghanistan e poi attraverso l’Asia Centrale ha portato i combattenti islamisti su nuove montagne, quelle siriane, il loro terreno ideale in collaborazione con altre organizzazioni fondamentaliste quali Jabaht al-Nusra (ramo siriano di al-Qaeda)10. Nell’estate del 2013 le forze di polizia locali hanno arrestato oltre 100 uiguri che promuovevano la “guerra santa” non solo contro la Cina ma anche contro il legittimo Governo di Damasco.
Il 17 luglio 2021 il Ministro degli Esteri della Cina, Wang Yi, si è recato in Siria dove ha incontrato il presidente siriano, Bashar Al-Assad, e il suo omologo, Walid al-Mouallem. ribadendo il sostegno di Pechino per Assad: “In passato, qualunque atto di interferenza brutale in Siria non ha mai avuto successo e lo stesso varrà in futuro”. Wang ha quindi dichiarato che, sotto la leadership di Assad, la Siria ha ottenuto risultati preziosi, sia nella lotta al terrorismo, sia contro le interferenze straniere. Per Pechino, la rielezione del presidente siriano alle elezioni del 26 maggio scorso ha rispecchiato la fiducia e il sostegno della popolazione locale. Wang ha quindi ribadito che la Cina si oppone a qualsiasi tentativo di cambiare regime in Siria e ha riaffermato il proprio sostegno a Damasco nella salvaguardia della sovranità nazionale, così come della sua integrità territoriale. Pechino aiuterà Damasco anche nel migliorare le condizioni di vita della popolazione e nell’accelerare la ricostruzione, accoglierà la Siria come nuovo partner nella costruzione delle Nuove Vie della Seta e aiuterà il Paese ad opporsi alle sanzioni unilaterali. Oltre a questo, Wang ha ribadito il sostegno cinese alla parte siriana nella lotta al terrorismo. Oltre al dialogo con Assad, Wang ha avanzato quattro proposte per risolvere la questione siriana al suo omologo di Damasco. Innanzitutto, il Ministro degli Esteri di Pechino ha sottolineato la necessità del rispetto della sovranità nazionale e dell’integrità territoriale della Siria, rispettando le scelte della popolazione e abbandonando “illusioni” relative ad un cambio di regime. In secondo luogo, egli ha affermato l’importanza delle condizioni di vita della popolazione siriana e della ricostruzione del Paese e, a tal proposito, ha proposto di revocare tutte le sanzioni e i blocchi economici, aumentando gli aiuti. In terzo luogo, Wang ha ribadito l’importanza di portare avanti la lotta al terrorismo, rispettando il Governo siriano e senza utilizzarla come scusa per alimentare divisioni politiche. Infine, il Ministro ha affermato che in Siria si debba promuovere una soluzione politica guidata dal popolo siriano11.
Il 17 agosto 2015, il terrorismo uiguro si espanse anche in Thailandia (la cui giunta militare si è sempre più avvicinata geopoliticamente alla Cina), quando una bomba esplosa nel centro di Bangkok provocò 20 morti e oltre 120 feriti (alcune esplosioni si verificarono anche a Phuket); tutti gli arrestati e i ricercati erano di religione musulmana, molti turchi o uiguri, mentre la mente dell’attentato si rifugiò in Turchia. La polizia nazionale thailandese e un analista dell’IHS-Jane (agenzia di informazioni legata ai temi della sicurezza e dello spionaggio) accusarono i Lupi Grigi e i militanti uiguri dell’attentato. Alcuni mesi prima un gruppo di 200 manifestanti che brandivano gli stendardi del Turkestan Orientale aveva attaccato il consolato thailandese a Istanbul; il tumulto era stato organizzato dagli stessi Lupi Grigi e dall’Associazione per la Cultura e la Solidarietà del Turkestan Orientale, quest’ultima diretta da Seyit Tumturk, che era stato vice-presidente del Congresso Mondiale degli Uiguri (CMO) dal 2008 al 2016. I principali esponenti del CMO hanno più volte invitato il Presidente turco Erdogan a giocare un ruolo attivo a favore dei separatisti dello Xinjiang, in Libia e in Siria, mentre Tumturk ha dichiarato che centinaia di migliaia di uiguri sarebbero disposti ad arruolarsi nell’esercito di Ankara12. Non è un caso che ancora a Bangkok, nel 2019 e nel 2020, si siano tenute iniziative di piazza contro il Governo thailandese sfociate nella violenza, che hanno preso a prestito simboli, slogan e metodi utilizzati dagli studenti eterodiretti di Hong Kong13.
L’allargarsi della minaccia a livello globale ha stimolato la Cina a varare una nuova e più chirurgica legge anti-terrorismo, approvata definitivamente il 27 dicembre 2015, in cui oltre ad una visione olistica della difesa nazionale si assume la sicurezza della popolazione come obiettivo finale. Il Presidente Xi Jinping ha spiegato nell’occasione che la RPC non vuole solo stroncare le manifestazioni terroristiche, l’utilizzo di dottrine religiose distorte o l’incitamento all’odio e alla discriminazione, ma che la nuova legislazione intende prevenire gli atti criminosi sradicandone dalle fondamenta le radici culturali. E’ perciò importante intervenire in modo accorto per impedire che le distorsioni ideologiche violente e settarie possano diffondersi non solo all’interno dello Xinjiang ma anche tra i musulmani del resto della Cina; ugualmente Xi Jinping ha ribadito che la condotta delle autorità di Pechino deve mantenersi all’interno dei confini stabiliti dalla legge anti-terrorismo, rispettando e promuovendo i diritti umani, giuridici e gli interessi dei cittadini e delle organizzazioni comunitarie.
Quali sono i risultati nella lotta all’estremismo e al separatismo in Xinjiang?
Nel pubblicare il “Libro Bianco sulla lotta contro il terrorismo e l’estremismo e la protezione dei diritti umani in Xinjiang” (aggiornato al 2019), il Governo di Pechino ha elencato nel dettaglio le migliaia di attacchi terroristici e violenti condotti nello Xinjiang tra cui attentati esplosivi, omicidi, avvelenamenti, incendi dolosi, aggressioni, disordini e rivolte, che hanno causato la morte di un gran numero di persone innocenti e centinaia di agenti di polizia, nonché danni incommensurabili alle proprietà dei cittadini della regione14. Secondo il documento intitolato “Istruzione e Formazione Professionale in Xinjiang“, i programmi cinesi si sono concentrati sulla lotta all’estremismo in conformità con le condizioni locali, mettendo la prevenzione al primo posto e intraprendendo al contempo ferme azioni contro terrorismo e radicalismo, promuovendo lo Stato di diritto e rispettando e tutelando i diritti umani. Nel contrastare il terrorismo e l’estremismo, le autorità dello Xinjiang si basano sull’esperienza di altri Paesi e forniscono alle persone influenzate da dottrine violente e dall’estremismo religioso un’istruzione in cinese standard, sia parlato che scritto, una comprensione delle norme e una formazione mirata a sviluppare nuove competenze professionali. Stando al “Libro Bianco” gli sforzi attuati tramite i centri di formazione professionale hanno sradicato il pensiero estremista, prodotto risultati ampiamente riconosciuti, contribuito a salvaguardare la stabilità sociale nella regione e tutelato l’ambiente locale per un sano sviluppo delle religioni. Nessun incidente terroristico si è verificato nello Xinjiang per quasi tre anni dall’inizio del programma di istruzione e formazione, mentre la situazione generale della società continua a essere stabile: ciò è dimostrato dai flussi di arrivo del 2018. I turisti dalla Cina e da altri Paesi sono stati in tutto oltre 150 milioni, con un aumento su base annua del 40%; i turisti stranieri sono stati 2,6 milioni, con un aumento su base annua di quasi il 12%.
Lo studio pubblicato sul sito internet del CeSEM ne approfondisce taluni aspetti: “Le accuse mosse nel corso dell’ultimo anno dagli Stati Uniti e dai loro principali alleati sul presunto genocidio uiguro in atto nello Xinjiang, dove Pechino avrebbe organizzato “campi di concentramento per un milione e mezzo di persone”, nascono principalmente sulla base delle analisi di Adrian Zenz, un antropologo tedesco che da anni formula ipotesi in merito, senza tuttavia aver mai messo piede nello Xinjiang.
Altre presunte “testimonianze” riportate in questi mesi hanno chiamato in causa le dichiarazioni rilasciate da due donne uigure, Tursunay Ziawudun e Sayragul Sautbay, che avrebbero avuto modo di entrare nei cosiddetti “campi di lavori forzati”, osservandone le dinamiche. La prima, accolta negli Stati Uniti dall’associazione, ha cambiato più volte versione, inizialmente sostenendo di non essere mai stata violentata e di non aver mai assistito a violenze sessuali, poi affermando di essere stata torturata e violentata da un gruppo di uomini. La seconda, emigrata in Svezia, dove è entrata a far parte dell’Associazione Uigura Svedese, filiazione locale del WUC, ha prima chiarito di non aver personalmente assistito a violenze per poi sostenere un anno dopo di aver visto «ogni tipo di tortura» nei centri di detenzione. I dati emersi dai censimenti ufficiali nello Xinjiang, riportati in precedenza, smentiscono l’ipotesi che un numero così elevato di persone di etnia uigura, o comunque di fede musulmana, possa trovarsi rinchiuso nei “campi”. Inoltre, tra il 2018 e il 2020, oltre 1.200 delegati da più di 100 Paesi tra funzionari dell’ONU, diplomatici stranieri, rappresentanti permanenti all’ONU, giornalisti, accademici ed autorità religiose hanno avuto modo di visitare lo Xinjiang senza mai aver riscontrato alcun elemento che possa anche lontanamente far supporre un piano di repressione e/o riduzione della popolazione su base etnica o confessionale. Molti testimoni e studiosi hanno invece apprezzato le politiche di reintegrazione messe in atto dal Governo cinese per favorire la de-radicalizzazione andando all’origine del problema. Tali politiche sono state riprodotte, per esempio, in Paesi a maggioranza musulmana come Kazakhstan ed Indonesia”15.
D’altronde l’Uyghur Human Rights Project (UHRP) gode di scarsa credibilità, essendo stato fondato nel 2004 dall’Uyghur American Association (filiale del CMO basata Washington) con il National Endowment for Democracy (NED) quale principale fonte di finanziamento (e in stretta collaborazione con il Dipartimento di Stato USA). La NED ha accordato all’UHRP tra il 2016 e il 2019 l’enorme somma di 1 milione e 264.698 dollari, il che non desta particolari sorprese se si pensa che la sua classe dirigente è composta non solo da membri del CMO come Omer Kanat e Nury Turkel ma anche da ex rappresentanti del Governo degli Stati Uniti e da ex alti responsabili della stessa National Endowment for Democracy.
L’attuale presidente del CMO è Dolkun Isa, che è recentemente stato premiato dalla stessa NED, mentre nel novembre 2019 ha partecipato al Forum Internazionale sulla Sicurezza di Halifax, una riunione organizzata dalla NATO e dal Ministero della Difesa canadese. Nel gennaio 2020 Isa è stato invece ospite di un evento organizzato dal Consiglio dei Deputati degli ebrei britannici, un gruppo di pressione anglo-israeliano, al quale ha partecipato anche l’organizzazione ultra-sionista Bnei Akiva, il cui capo nel 2014 ha invitato l’esercito di Tel Aviv a “prendere i prepuzi di 300 palestinesi” durante l’attacco di Tsahal a Gaza16.
Nel luglio 2019, inoltre, 37 Paesi tra cui Arabia Saudita, Nigeria, Egitto, Russia, Repubblica Democratica di Corea, Filippine, Pakistan, Iran, Siria e Palestina hanno replicato alle pressioni occidentali con una lettera a sostegno delle politiche cinesi attuate in Xinjiang, seguendo l’esempio dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica che pochi mesi prima aveva elogiato gli sforzi della Repubblica Popolare Cinese nel fornire assistenza ai suoi cittadini musulmani17.
Nel disperato tentativo di contrastare queste evidenze, gli Stati Uniti hanno messo in piedi la cosiddetta Alleanza parlamentare transatlantica contro la Cina, al fine di sviluppare una politica occidentale comune di sanzioni economiche e politiche ai danni di Pechino18. L’obiettivo esplicito dell’IPAC è di promuovere una “risposta coordinata” all’ascesa pacifica della Cina. In questo contesto, la nuova alleanza – formata dagli Stati transatlantici e dai loro stretti interlocutori, Giappone e Australia – chiede alla Cina di rispettare gli standard che le potenze occidentali hanno ripetutamente infranto. Si dice che sia necessario garantire che la Repubblica Popolare Cinese “sia conforme alle norme dell’ordine legale internazionale”. Non si fa menzione delle guerre contro la Jugoslavia (1999), l’Iraq (2003) o la Libia (2011), che erano contrarie al diritto internazionale e che le potenze occidentali intrapresero in diverse occasioni (si potrebbe aggiungere la politica di occupazione e colonizzazione dello Stato sionista sostenuta dall’Occidente, le sue ripetute aggressioni nei confronti dei vicini e gli omicidi illegali del Mossad); il membro fondatore dell’IPAC, il sig. Bütikofer, per esempio, sostenne la guerra contro la Jugoslavia (1999) come direttore politico del partito al potere all’epoca, Bündnis 90 / Die Grünen. L’IPAC afferma che è necessario garantire che la Cina rispetti le norme dell’Organizzazione Mondiale del Commercio, mentre le pratiche incompatibili dell’OMC dell’Amministrazione Trump non vengono citate. La composizione del comitato consultivo dell’IPAC comprende diversi attivisti di Hong Kong, tra cui un chirurgo britannico con esperienza nelle zone di guerra e uno dei vicepresidenti del Congresso Uighuro di Monaco, mentre Robert L. Suettinger, membro dell’Advisory Board dell’IPAC, a sua volta ha lavorato a lungo nella direzione di intelligence della CIA. Questi sforzi hanno finora prodotti pochi risultati, avendo coinvolto soltanto personaggi minori e spesso screditati nei parlamenti nazionali dell’Unione Europea.
Gli Stati Uniti hanno già vietato l’importazione di cotone, pomodori e alcuni prodotti solari originari dello Xinjiang, mentre hanno sanzionato i funzionari cinesi che sovrintendono alla regione insieme all’Unione Europea, al Regno Unito e al Canada. L’Amministrazione Biden ha alzato il tiro emettendo un alert alle imprese che potrebbero violare la legge statunitense se le operazioni risultassero collegate anche indirettamente alle reti di sorveglianza nello Xinjiang, e pochi giorni prima ha aggiornato la sua blacklist aggiungendo altre 14 società cinesi; il Senato USA nel luglio 2021 ha invece emanato un provvedimento che proibisce l’importazione di prodotti dallo Xinjiang sospettati di essere stati realizzati con il “lavoro forzato”. Un’accusa già abbondantemente smentita non solo dalle autorità cinesi ma dalla stessa popolazione uigura19.
NOTE AL TESTO
1 The State Council Information Office of the People’s Republic of China, The History and Development of the Xinjiang Production and Construction Corps, Foreign Languages Press, Pechino, 2014, pp. 16-19.
2 Nick Holdstock, Islam and instability in China’s Xinjiang, NOREF, Oslo, 2014.
3 Vittorio Pagliaro, Cina e India: identità, Stato, territorio, Eurilink, Roma, 2016, p. 214. Lo scrittore Ahmed Rashid, poco dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 negli USA, dichiarò che: “Quello della Cina in Asia centrale è il ruolo che resta più imprevedibile tra quelli delle tre superpotenze, ma Pechino può essere in futuro il protagonista principale”, op. cit., p. 184.
4 Le origini ideologiche del separatismo uiguro sono duplici. Da un lato il panturchismo, dall’altro l’islamismo. Presso i
gruppi estremisti dello Xinjiang, questi due aspetti vengono sostanzialmente a sovrapporsi. Nel resto del mondo turcofono, invece, rimangono di solito ben distinti. Tra i Paesi occidentali bisogna ricordare che il Canada ha offerto asilo politico ad un terrorista del calibro di Guler Dilaver, pericoloso membro dell’ETIM.
5 Vincenzo Battaglia, La questione del terrorismo uiguro; un’analisi del fenomeno, Geopolitica.info, 14 gennaio 2021. Cfr. anche Weijian Shan, Xinjiang: what the West doesn’t tell you about China’s war on terror, “South China Morning Post”, 14 aprile 2021.
6 Centro Studi Eurasia Mediterraneo, UN MODELLO VINCENTE DI COOPERAZIONE: LE ORIGINI DELL’ORGANIZZAZIONE PER LA COOPERAZIONE DI SHANGHAI, 27 luglio 2015, www.cese-m.eu.
7 Il 25 agosto 2021, durante un colloquio telefonico, Xi Jinping e Vladimir Putin hanno sottolineato l’importanza di “arrivare alla pace in Afghanistan il prima possibile e prevenire la diffusione dell’instabilità nei Paesi vicini” e di essere
pronti a “rafforzare il loro impegno per contrastare le minacce poste dal terrorismo e dal traffico di stupefacenti provenienti dall’Afghanistan”. “E’ per questo i Presidenti di Cina e Russia, ndr) intendono usare al massimo il potenziale dell’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai”, rende noto il Cremlino. “I due leader hanno anche concordato di intensificare i contatti e una stretta cooperazione bilaterale soprattutto fra i ministri degli Esteri”.
8 Monica Lovito, La sicurezza in Asia Centrale e la Nuova Via della Seta, in “Eurasia” n. 1/2021, pp. 138-139.
9 Pagliaro, op. cit., p. 215.
10 Giordano Stabile, Siria, l’armata di uiguri cinesi che combatte Assad, “La Stampa”, 3 marzo 2016. Secondo l’ambasciatore siriano in Cina, Imad Moustapha, nel maggio 2017 erano almeno 5.000 i combattenti jihadisti provenienti dallo Xinjiang. Questo flusso di combattenti provenienti soprattutto dalla diaspora uigura residente in Turchia è stato monitorato negli ultimi anni dalla Jamestwon Foundation di Washington, che ha indicato la presenza di centinaia di miliziani provenienti dalle Repubbliche dell’Asia Centrale e dallo Xinjiang tra le file non soltanto dell’ISIS ma anche di altre formazioni fondamentaliste come Jabhat al-Nusra. L’analista Jacob Zenn, in particolare, ha spiegato che «nello Xinjiang, dove vivono oltre 10 milioni di uiguri, molti attacchi non vengono riportati dai media, ma anche guardando soltanto a quelli riportati, si contano ben più di qualche centinaio di persone uccise in attentati, condotti usando pugnali contro la folla o persino individui a bordo di automobili e pacchi bomba in piazze pubbliche e stazioni
ferroviarie», aggiungendo: «Se in origine le ribellioni nello Xinjiang erano a carattere etno-nazionalista, ritengo corretto affermare che, come nel caso della Cecenia, attualmente l’ideologia si sta in gran parte spostando verso un orientamento jihadista salafita», cfr. “Xinjiang: capire la complessità, costruire la pace”, op. cit, p. 16.
11 Luiss – Osservatorio sulla sicurezza internazionale, Siria: la Cina ribadisce il sostegno per Assad, 19 luglio 2021.
12 Qiao Collective, Xinjiang: a Report and Resource Compilation, 21 settembre 2020.
13 Tony Cartalucci, Thailand is Next Battleground for Washington’s War with China, “Land Destroyer Report”, 20 ottobre 2020.
14 The State Council Information Office of the People’s Republic of China, Full Text: Employment and Labor Rights in Xinjiang, Settembre 2020, www.gov.cn. Nel “Libro Bianco” si afferma che dal 2014 sono stati arrestati 2955 terroristi, trovati 2052 ordigni esplosivi, sanzionate 30.645 persone per 4858 casi di attività religiose illegali (345.229 copie di testi religiosi illegali sono state sequestrate), cfr. Bruno Guigue, L’impegno occidentale a favore del separatismo uiguro, in “Eurasia” n. 3/2019, pp. 111-116.
15 “Xinjiang. Capire la complessità, costruire la pace”, op. cit., p.29. Sulla controversa figura di Adrian Zenz, cfr. LA DETERMINAZIONE DEL GENOCIDIO NELLO XINJIANG COME AGENDA, Analisi critica di un rapporto del Newlines Institute e del Raoul Wallenberg Center, www.cese-m.eu, 11 giugno 2021.
16 Danielle Bleitrach, Le plus gros mensonge sur les camps d’internement du Xinjiang en Chine, “Civilisation”, 4 settembre 2020.
17 ISPI, Cina: la questione uigura nello Xinjiang, 19 gennaio 2021.
18 LA GUERRA FREDDA VERDE. FONDAZIONE DELL’ALLEANZA PARLAMENTARE TRANSATLANTICA CONTRO LA CINA. CON LA PARTECIPAZIONE ATTIVA DI UN UOMO POLITICO DEI VERDI TEDESCHI, Berlino/Washington. Resoconto della Redazione di “German-Foreign-Policy.com”, tradotto e pubblicato da Stefano Vernole sul sito www.cese-m.eu, 13 giugno 2020.
19 Lo scorso giugno il giovane cinese di etnia uigura Nuoeradili Wubulikasi ha pubblicato un documento ufficiale sulle piattaforme social per confutare la bugia del cosiddetto “lavoro forzato nello Xinjiang” diffusa da forze occidentali anti-cinesi come l’Australian Strategic Policy Institute. In un’intervista, Wubulikasi ha affermato che l’iniziativa ha ricevuto la risposta e il sostegno di centinaia di connazionali uiguri e in futuro intenterà una causa per illecito civile contro l’Australian Strategic Policy Institute. Come ho sinteticamente illustrato sul numero LX della Rivista di studi geopolitici “Eurasia”, Australian Strategic Policy Institute non è propriamente un istituto indipendente, perché riceve finanziamenti importanti dall’esercito australiano e da aziende legate al complesso militare-industriale statunitense come Lockheed Martin e Raytheon. Nel corso dell’esercizio finanziario 2019-2020, l’Istituto di Politica Strategica Australiano ha contato per il 69% dei suoi introiti (più di 7 milioni di dollari australiani) sul Ministero della Difesa di Canberra e sul Governo federale, 1,89 milioni di dollari australiani gli sono stati versati da organismi governativi stranieri tra i quali le ambasciate di Israele e del Giappone, il Dipartimento della Difesa e il Dipartimento di Stato USA, il centro di comunicazione strategica della NATO. Le sopracitate Lockheed Martin e Northrop Grumman hanno contribuito rispettivamente tramite un patrocinio all’ASPI di 25.000 e 67.500 dollari. Ciò non determina alcuna sorpresa, se si ricorda che nel 2016 il Ministero della Difesa australiano ha attribuito a Lockheed Martin un contratto per “integratori di sistemi di combattimento” da 1,4 miliardi di dollari australiani nel quadro del suo programma “Futuro sottomarino” al fine di “resistere” alla Cina; nel quadro del medesimo progetto, uno dei fornitori della difesa e contributore di ASPI per quasi 17.000 dollari nell’ultimo biennio, Naval Group, ha ottenuto un contratto di 605 milioni di dollari per il design del sottomarino.
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