di Omar Kamal Othman Khalifa
Il presente articolo vuole descrivere brevemente il percorso che dal rovesciamento di Gheddafi ha portato fino al caos attuale, analizzando la rosa dei candidati a queste presidenziali, le numerose criticità legate alle elezioni, e i possibili risvolti post-elettorali.
Nota preliminare al testo: L’Alta Commissione nazionale per le
elezioni in Libia ha annunciato ufficialmente il rinvio delle elezioni
presidenziali, che erano fissate per il 24 dicembre. Toccherà ora alla
Camera dei rappresentanti fissare una nuova data per il voto
Dal rovesciamento di Gheddafi alle prossime elezioni presidenziali e parlamentari imminenti
Le elezioni presidenziali in Libia sono state fissate per il 24 dicembre, mentre le elezioni parlamentari, in un primo momento fissate in concomitanza con le presidenziali, sono invece previste per il 14 febbraio. Queste elezioni, sulla carta, dovrebbero tirare la Libia fuori da una decade, quella appena trascorsa, contraddistinta da una lunga e infinita guerra civile, caos, interessi di Paesi terzi che hanno fatto di tutto per far valere i propri interessi schierando milizie e mercenari lungo tutto il Paese. Il coinvolgimento internazionale ha di fatto reso pressoché inutili le numerose conferenze di pace che si sono indette negli ultimi anni a Berlino, Abu Dhabi, Palermo, e Parigi. Un tutti contro tutti, che ha di fatto diviso la Libia in due dal 2014: la regione della Tripolitania a est, la zona più densamente abitata del Paese, sotto il controllo del governo di Tripoli, il GNA (Governo di Unità Nazionale) supportato dalle Nazioni Unite, e la regione della Cirenaica a ovest, scarsamente popolata e controllata dal LNA (Esercito Nazionale della Libia), sotto il diretto controllo del generale Khalid Haftar, il quale controlla anche vaste porzioni di territorio nel sud del Paese.
Come si è arrivati a questa condizione di criticità?
Nel 2011, sull’onda delle primavere arabe e con l’aiuto della NATO, il regime di Muammar Gheddafi, che durava dal 1969, venne rovesciato. Si sperava in un nuovo inizio per il Paese, una transizione democratica, e invece la caduta di Gheddafi fu solo l’inizio di una spirale di caos. Nel 2014 si tennero delle elezioni per eleggere un nuovo governo democratico, ma il risultato contestato di quella tornata elettorale diede solo il via ad una guerra civile tra l’ovest e l’est. In quell’occasione, il generale Haftar si autoproclamò generale dell’esercito LNA, che altri non è che un insieme di mercenari, fuorilegge, salafiti radicali, combattenti incriminati per la maggior parte per crimini di guerra, dando inizio così alle ostilità. Una guerra civile così inquadrata diede spazio alle potenze straniere per potersi intromettere e curare i propri interessi, e così Francia e Turchia diedero man forte alla parte ovest del Paese, mentre Russia e Emirati Arabi Uniti a quella est. L’Onu ha provato a creare il GNA, un governo di unità al fine di riunire la Libia, ma l’iniziativa non ebbe successo.
Il conflitto si protrasse per anni, e nel 2019 il generale Haftar provò a conquistare Tripoli, in un assalto durato 14 mesi. Fu un assalto sanguinoso, ci fu un ingente numero di vittime da entrambe le parti, ma grazie al supporto militare turco l’assalto venne respinto e Haftar costretto a ripiegare in Cirenaica. I progressi diplomatici più significativi si sono avuti all’indomani di quest’assalto fallito: l’Onu è riuscito nell’ottobre 2020 a raggiungere un accordo di cessate il fuoco da ambedue le parti, a stabilire un nuovo governo ad interim a febbraio 2021 (GNU: Governo di Unità Nazionale), sebbene rimangano ben marcate le divisioni sottostanti, e a tracciare una roadmap politica che dovrebbe culminare con le elezioni di dicembre 2021 – le quali in caso di secondo turno andrebbero poi a coincidere con le tempistiche delle parlamentari – e nel febbraio 2022.
Una legge elettorale controversa
Elezioni che dovevano unire il Paese, ma che invece sembrano dividerlo più di quanto non lo sia stato finora. Il Paese ha due istituzioni legislative concorrenti tra di loro: l’HSC (Alto Consiglio di Stato) a Tripoli, avente prevalentemente funzione consultiva, guidato da Khalid al-Mishri, e il HOR (Camera dei Rappresentanti) a Tobruk, nella parte ovest del Paese, presieduto da Aguila Issa Saleh, politico che ha supportato l’offensiva di Haftar nel 2019. Il 9 settembre Saleh, senza consultare la controparte HSC e senza porre la proposta al voto della Camera, ha firmato ed emesso per decreto unilaterale la legge elettorale che sta disciplinando le imminenti elezioni. Questa legge elettorale è stata criticata per vari motivi, dando il via ad una serie di dispute legali senza fine che hanno costretto l’Alta Commissione Elettorale (HNEC) a rinviare “sine data” l’ufficializzazione della lista definitiva della rosa dei candidati per le presidenziali, fattore che molto probabilmente porterà ad un rinvio delle elezioni.
Anzitutto al-Mishri ha fortemente contestato questa iniziativa unilaterale legislativa. Ha affermato che, secondo quanto è stato stabilito nel Forum Libico di Dialogo Politico, Saleh non aveva la facoltà di poter promulgare una legge elettorale senza consultare prima l’HSC, ed è per questo che in un primo momento aveva addirittura chiamato a gran voce il boicottaggio delle elezioni. Inoltre, al-Mishri ha contestato il carattere apparentemente personale di questa legge elettorale. Nello specifico, l’articolo 12 della suddetta legge elettorale prescrive ai partecipanti che vogliono candidarsi alle elezioni di lasciare ogni incarico pubblico o militare tre mesi prima delle elezioni, di modo che non si abusi di una posizione favorevole durante la campagna elettorale. Questo articolo in teoria impedirebbe ad Abdul Hamid Dbeibah, attuale primo ministro ad interim del GNU nominato a febbraio di quest’anno, di partecipare alle elezioni, lasciando così strada libera ai candidati dell’est; da qui le accuse di legge “personale”. Nonostante le numerose critiche rivolte alla legge, l’Onu ha comunque preso questa legge e l’ha assunta come legge elettorale ufficiale a cui far riferimento nell’attuale tornata. Questa non condivisione interna della legge elettorale ha dato il via a dispute legali senza fine, con i vari candidati che nelle scorse settimane hanno presentato appelli contro le candidature degli altri partecipanti, cercando di far squalificare gli avversari dalle elezioni. Questa situazione ha portato ad un ambiente elettorale grottesco, in cui numerosi candidati sono stati prima accettati, poi respinti e successivamente riammessi dalle varie corti dislocate lungo il Paese, in un turbinio di sentenze contrastanti che hanno soprattutto minato la credibilità del processo elettorale.
Candidati e le loro principali criticità
L’Alta Commissione Elettorale (HNEC) non ha ancora diramato la lista definitiva a causa di varie dispute legali riguardanti l’eleggibilità dei vari candidati, ma sembrerebbe che siano in totale 98 i partecipanti delle presidenziali, di cui sole due donne.
Tra i nomi di spicco, troviamo anzitutto il primo ministro ad interim Abdul Hamid Dbeibah, uomo d’affari ai tempi del regime di Gheddafi e outsider della vita politica libica fino alla sua nomina a premier a febbraio scorso. Tante le accuse su di lui riguardo la sua nomina ad interim fatta dall’ONU. Nello specifico, viene accusato di aver offerto tangenti ai membri del comitato elettivo dell’ONU per assicurarsi la nomina a primo ministro. In questi mesi di governo sembra essersi assicurato un esteso network di consenso tra la popolazione, grazie a misure populiste come l’erogazione una tantum di un incentivo per le coppie di sposi novelli, l’insegnamento dell’Amazigh nelle scuole, e la possibilità che le donne possano sposare uomini stranieri e passare la loro nazionalità ai figli. In occasione della sua elezione a premier ad interim, aveva promesso che non si sarebbe candidato alle elezioni presidenziali, affermazione che non ha poi mantenuto. Si tratta del candidato di punta dell’ovest e tra i favoriti, dal momento che se si assicurasse anche solo l’appoggio dell’elettorato dell’ovest avrebbe la vittoria in pugno, visto che la grande maggioranza della popolazione libica vive nella Tripolitania. Alla sua candidatura sono stati rivolti degli appelli di squalifica per due motivi: la sua doppia cittadinanza libico-canadese e il suo non ritirarsi dal ruolo di premier a tre mesi dalle elezioni.
La legge elettorale infatti prevede, oltre che l’abbandono dei ruoli pubblici e militari, che i candidati non devono avere altra cittadinanza al di fuori di quella libica. Gli appelli sono stati respinti e l’articolo 12 della legge elettorale considerato discriminatorio dalla HNEC, che ha deciso quindi di ignorarlo nell’ambito della convalida delle candidature.
Gli altri candidati dell’ovest di spicco sono Fathi Bashagha, ex ministro dell’interno nel GNA, e Ali Zeidan, ex primo ministro libico tra il 2012 e il 2014.
Nell’est i candidati di punta sono più numerosi. Oltre il già citato Saleh, Speaker del HOR, troviamo il generale Haftar. Al generale della Cirenaica sono state contestati numerosi fattori che avrebbero dovuto squalificarlo, ossia la doppia cittadinanza libico-americana, i crimini di guerra di cui è stato accusato in occasione dell’assalto a Tripoli nel 2019, e la condanna a morte in contumacia da parte della procura di Misurata (parte ovest del Paese) sempre in relazione all’assalto del 2019. L’articolo 10 della legge elettorale presidenziale prevede infatti che “non dovrebbero essere condannati con sentenza definitiva per un crimine o un reato contro l’onore e la fiducia” i candidati alle elezioni. Inizialmente squalificato, è stato poi riammesso.
L’altro nome di spicco è Saif al-Islam Gheddafi, figlio del dittatore rovesciato nel 2011 e figura popolare nel sud del Paese. Ha presentato la candidatura con indosso il turbante marrone, richiamando così la figura del padre, e presumibilmente raccoglierà i voti di tutti i “nostalgici” del regime, stanchi di questa fase di destabilizzazione, povertà e guerra. A Gheddafi è stato contestato il fatto che nel 2015 la Corte di Tripoli ha emesso una sentenza di morte contro di lui per i presunti reati commessi nel 2011, in occasione delle repressioni ai danni degli insorti contro il regime; inoltre, su di lui pende anche un mandato di estradizione della Corte dei crimini internazionale (ICC) sempre per crimini di guerra legati alle rivolte del 2011. Anche lui era stato squalificato ma poi successivamente riammesso.
Criticità
Le criticità legate a queste elezioni sono tante, troppe, e secondo la maggior parte degli osservatori esse verranno rinviate. L’ipotesi è che vengano posticipate di un breve termine, per far sì di risolvere le dispute legali sulle candidature, oppure un lungo termine di sei mesi, che permetterebbe di varare una nuova legge elettorale, ma che lascerebbe un vuoto di potere che potrebbe generare conseguenze imprevedibili. Un altro problema legato al rinvio delle elezioni sta nel fatto che il mandato del GNU ha come scadenza il 24 dicembre; un suo rinnovo è tutt’altro che scontato. Inoltre il rischio più grande è quello di perdere questo momentum democratico e che le parti coinvolte escano dal cessate il fuoco, ricominciando a portare caos e miseria nel Paese.
Quali sono le criticità di queste elezioni?
Anzitutto la spaccatura del Paese: la Libia è di fatto divisa in due parti, est e ovest, che si sono combattute fino a questo momento. Dbeibah non può recarsi a est del Paese per motivi di sicurezza, così come Haftar non può recarsi nella parte ovest. Questo bipolarismo rischia anzitutto di creare un clima di elezioni in cui si instauri una logica del “noi” contro di “loro”, favorendo quindi candidati faziosi ed estremisti. Inoltre, una divisione del genere rischia seriamente di non dare alle elezioni un consenso unitario. I candidati dell’ovest rigetteranno con tutta probabilità esiti elettorali negativi se dovessero vincere i candidati dell’est, e viceversa. Per fare un esempio, le milizie e la classe politica di Tripoli non accetteranno mai un esito delle elezioni che dia Haftar come candidato vincente e presidente del Paese, quando hanno passato gli ultimi sette anni a combatterlo. Haftar dal canto suo, dovesse perdere le elezioni, potrebbe tornare al suo posto e ricominciare con una nuova offensiva contro l’ovest. Controllando gran parte del Paese e del petrolio, non c’è nessuna forza che attualmente potrebbe costringerlo a consegnare le redini dell’esercito e delle porzioni di territorio da lui controllate al governo che uscirà da queste elezioni. E’ chiaro quindi che delle elezioni senza un riconoscimento da parte di tutti, più che migliorare la situazione, rischiano solo di peggiorarla.
Altro nodo cruciale che rischia di far deragliare queste elezioni riguarda tutta la disputa legale e le conseguenze che essa sta portando. A causa di una legge elettorale non riconosciuta e approvata da tutti, i criteri di eleggibilità dei singoli candidati vengono considerati in modo diverso dalle varie corti libiche, e questo ha portato ad una serie infinita di decisioni ribaltate. Come conseguenza di ciò, l’Alta Commissione Elettorale, a pochi giorni dalle elezioni, non ha ancora pubblicato la lista definitiva dei candidati alle presidenziali. Di conseguenza si ha una campagna elettorale tenuta in brevissimo tempo e nessuna possibilità per la popolazione di farsi un’idea chiara su tutti i candidati.
Un ulteriore nodo da sciogliere è la credibilità di questa legge elettorale e il peso dei singoli candidati: il fatto che tutti i maggiori candidati non rispettino i criteri di eleggibilità della legge elettorale ha del paradossale, e ciò porterà inevitabilmente solo a delle elezioni i cui risultati, come anzidetto, verranno contestati da più parti. Inoltre, l’accettare le candidature di personaggi che sulla carta non erano candidabili getta un’ombra sul processo democratico che il Paese sta attraversando. Una situazione del genere è infatti un chiaro segnale dell’esistenza di candidati che non possono essere squalificati per non intaccare le elezioni stesse. Squalificare Haftar o Dbeibah avrebbe portato ad un boicottaggio nell’est o nell’ovest, se non addirittura ad una ripresa delle ostilità. Candidati troppo importanti per essere messi fuori gioco, con il rischio di inaugurare un periodo di politica “personalistica” in Libia, dove gli interessi del singolo candidato vengono anteposti al bene collettivo del Paese.
Vi è poi un’ennesima nota dolente in queste elezioni. Ad oggi la Libia non ha ancora una Costituzione. Ci sono stati vari tentativi negli anni, ma tutti senza successo. La mancanza di una Costituzione ha effetti tragici. Eleggere un presidente senza avere una Costituzione significa che il ruolo e i poteri non sono specificati al momento della sua nomina, così come non è specificata la ripartizione dei tre poteri governativi. Che poteri avrà quindi il futuro presidente? Questo enorme vuoto legislativo potrebbe lasciare lo spazio a ipotetici colpi di Stato post elezioni, sempre che queste si svolgano e che il loro risultato venga riconosciuto da tutti.
Analizzando più a fondo, l’ennesima criticità di queste elezioni sta nel fatto che, secondo quanto specificato dall’Alta Commissione Elettorale, gli appelli contro le candidature presidenziali devono essere presentate presso le corti dove il candidato ha inizialmente presentato la candidatura. Seguendo questa logica, dal momento che il generale Haftar ha presentato la sua candidatura presso la corte di Bengasi, è lì che si dovrà ipoteticamente presentare un ricorso contro la sua candidatura. Ma dal momento che Bengasi si trova in un’area controllata dalle forze di Haftar, presentare domanda contro una sua candidatura diventa estremamente improbabile. Inoltre, questo meccanismo ha messo seriamente in pericolo l’incolumità e l’indipendenza dei vari giudici locali preposti a pronunciarsi sulle candidature, sottoposti nella maggior parte dei casi a minacce di morte o corruzione da parte delle forze locali. Queste considerazioni nascono dal fatto che in Libia non c’è un sistema di sicurezza statale unificato per tutto il Paese, le scorribande armate delle milizie sono pressoché incontrollate e l’attuale governo dislocato a Tripoli poco può fare per tenere sotto controllo la situazione, se non appellarsi al buon senso delle parti.
Gli episodi accaduti a Sebha da parte della LNA e a Tripoli per mano della brigata Al-Samoud sono due chiari esempi di come la sicurezza sia un tasto dolente per la Libia, e di come le milizie armate abbiano un controllo del territorio ancora troppo ampio. A Sebha, città nel sud del Paese, si trova la corte dove Gheddafi Jr. ha presentato la sua candidatura. In occasione dell’iniziale rifiuto alla sua candidatura, Gheddafi avrebbe dovuto presentare ricorso presso la stessa corte di Sebha, se non fosse per il fatto che in quei giorni alcune milizie della LNA hanno circondato la corte stessa e hanno costretto tutti i funzionari ad uscire, impedendogli di fatto di svolgere il loro lavoro, tra cui la valutazione dell’appello alla candidatura di Gheddafi.
Questo “blocco” è durato di fatto pochi giorni, ma è un esempio lampante della situazione di precaria sicurezza. L’altro fatto più noto è accaduto qualche giorno fa a Tripoli: la brigata Al-Samoud ha circondato gli edifici governativi del Consiglio Presidenziale e l’ufficio di Dbeibah, apparentemente a causa di una scelta del Consiglio Presidenziale di sostituire il comandante supremo dell’esercito libico Marwan, reo di essere troppo vicino ad Haftar, con una figura più neutrale.
Il leader della brigata Al-Samoud ha poi dichiarato che il 24 dicembre non faranno tenere alcuna elezione. Alla luce di questi fatti, c’è da chiedersi come sarà assicurata la sicurezza durante le votazioni nei vari seggi elettorali, come si eviteranno le violenze, intimidazioni ed eventuali brogli. Nonostante siano state distribuite 3 milioni di schede elettorali in una popolazione di 7 milioni, sono tanti gli elettori che, recatisi a ritirare le proprie schede elettorali, si sono sentiti dire che le loro schede erano già state ritirate da altre persone.
La questione sicurezza è un tasto dolente soprattutto alla luce del fatto che per il Paese sono ancora dislocate oltre ventimila truppe straniere e mercenari.
La Russia, che ha appoggiato soprattutto Haftar tramite il gruppo Wagner, e la Turchia che appoggia Tripoli con i suoi mercenari siriani, hanno un ingente numero di truppe sul territorio. Sono stati numerosi gli appelli e le conferenze internazionali che chiedevano il ritiro delle truppe straniere dal Paese, ma le richieste sono rimaste inascoltate. Turchia e Russia aspettano che sia l’altra a cominciare il ritiro delle truppe, con il risultato che nessuna delle due intende fare alcun passo indietro. E’ questa mancanza di coordinamento della comunità internazionale che ha complicato maggiormente le cose durante la lunga guerra civile.
Infine, una nota dolente viene anche dall’ONU, l’organismo internazionale che ha maggiormente interceduto nel cessate il fuoco del 2020, che ha supportato la formazione del GNU e che sta spingendo per queste elezioni. Nel mese scorso il capo delegazione della missione Libia dell’ONU, Jan Kubis, si è dimesso dal suo incarico, per motivi che non sono stati precisati, minando così la credibilità delle Nazioni Unite nel suo ruolo di principale partner internazionale della Libia durante il percorso verso elezioni tanto travagliate.
Prospettive del post voto
Le elezioni sono il mezzo imperativo per avere una singola autorità centrale riconosciuta dalla comunità internazionale e avente legittimità popolare. La comunità internazionale, Stati Uniti e Francia su tutti, hanno più volte affermato che queste elezioni si devono svolgere e che il 24 dicembre è una data inderogabile, anche se la mancata diramazione della lista definitiva dei candidati a pochi giorni dal voto farebbe pensare ad un inevitabile rinvio. Forse c’è un po’ di arroganza da parte di queste potenze straniere, che ignorano le specifiche complessità di un Paese che ha affrontato dieci anni di guerra civile e che non è ancora pronto per il processo elettorale. Molti temono che queste votazioni diano un risultato simile alle elezioni del 2014, i cui risultati vennero rifiutati dando inizio alla campagna militare di Haftar e la presa di Tripoli da parte delle milizie. I presupposti non sono per nulla incoraggianti: il presidente del Consiglio Presidenziale, Mohammed al-Menfi, ha dichiarato che se Haftar dovesse vincere, Tripoli correrebbe alle armi. Parimenti, una vittoria di Gheddafi porterebbe alla rivolta di tutti coloro che dieci anni fa deposero il regime del padre, e una vittoria di Dbeibah rischierebbe solo di far tornare Haftar sul piede di guerra. I gruppi di milizie sono ancora tutti presenti sul territorio, la posta in ballo è l’influenza politica di territori per cui si è combattuto, e nessuno rinuncerà a sette anni di sacrifici e sangue per delle elezioni non andate come sperato. Quindi il bivio sembrerebbe essere tra un proseguo del percorso democratico o un ritorno al punto zero, con una terza fase di guerra civile, sebbene un pieno ritorno al conflitto su larga scala sia poco probabile, dal momento che molti degli attori internazionali che hanno mosso le redini dalle retrovie, come Egitto Russia ed Emirati, si sono ormai distanziati da Haftar e stanno cercando di instaurare un dialogo con il governo dell’ovest; inoltre, la normalizzazione dei rapporti tra Turchia, Egitto ed Emirati farebbe pensare che non ci possa essere una ripresa del conflitto a livello internazionale.
La situazione è quindi aperta a qualsiasi svolta. Si spera solo che la profezia di Gheddafi Jr. “La Libia sarà distrutta (al rovesciamento di Gheddafi) e ci vorranno quarant’anni per raggiungere un accordo su come gestire il Paese”, detta in tempi non sospetti, non sia così veritiera, sebbene fino a questo momento la Storia gli stia dando ragione.
Omar Kamal Othman Khalifa (Roma 1992)
è laureato in Cooperazione e Sviluppo internazionale presso l’Università degli Studi di Roma La Sapienza.
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