di Andrea Cantelmo
La Jugoslavia ha sempre segnato un unicum tra i Paesi satellite dell’Unione Sovietica. Lo Stato balcanico, a differenza degli altri, sin da subito ha cercato di trovare una propria determinazione sotto la forte spinta di Tito, anche mettendosi in competizione con Mosca. Il modello jugoslavo era considerato pericoloso e addirittura, sotto alcuni aspetti, non pienamente socialista. D’altro canto, i sovietici erano visti come soverchiatori. Ciò che segnò una rottura profonda tra i due Paesi fu il rifiuto di Belgrado per la costruzione di una federazione con la Bulgaria. A seguito di numerosi moniti posti da Stalin, il 28 giugno 1948 il Partito Comunista Jugoslavo (PCJ) venne espulso dal Cominform. Ovviamente, tale situazione non lasciò inerte il Governo degli Stati Uniti che intravedeva l’occasione per indebolire il blocco sovietico, per la prima volta sfidato apertamente da uno dei suoi Stati satellite. Così Washington ideò la “strategia del cuneo” che prevedeva l’utilizzo della figura di Tito per fomentare gli umori nazionalisti in Europa orientale, ma il suo successo fu, in fin dei conti, alquanto limitato.
Gli USA decisero quindi di essere più accomodanti con la Jugoslavia, col proposito di invogliarla ad entrare nella propria sfera d’influenza. Infatti gli Stati Uniti accettarono la richiesta jugoslava di usufruire degli aiuti del Piano Marshall. Questo nuovo atteggiamento preoccupava l’Italia per quanto riguardava la questione di Trieste, poiché temeva che se fosse stata avanzata una pretesa da parte jugoslava, essa sarebbe stata soddisfatta a discapito degli interessi italiani. Questo timore si rivelò infondato poiché, il 5 ottobre 1954, con il Memorandum di Londra la Zona A passò in mano italiana e la Zona B andò alla Jugoslavia. Tuttavia, nonostante i grandi sforzi profusi, gli Stati Uniti non riuscirono nel tentativo di far entrare la Jugoslavia nell’orbita statunitense. Essa aveva intrapreso una terza via, che non prevedeva l’ingresso nella Nato né tantomeno un’adesione al Patto di Varsavia che però fu creato solo nel 1955. Essa diede vita nel 1953 al Patto Balcanico con Grecia e Turchia, e insieme a Egitto, India e Brasile, fondò il Movimento dei Non Allineati nel 1956.
I primi contatti tra Jugoslavia, Grecia e Turchia si possono far risalire già all’indomani dello “scisma jugoslavo” e, con maggiore assiduità, a partire dal 1950. Sia il Governo turco che quello greco guidato da Plastiras, iniziarono a guardare con grande interesse a Belgrado, malgrado ci fossero ancora problemi in sospeso, con la speranza di trovare una soluzione ad essi proprio attraverso un accordo regionale. L’atteggiamento che avrebbe preso Belgrado diveniva centrale nelle valutazioni greche e turche, ma la disponibilità di Tito era ancora un’incognita. Il Presidente jugoslavo era allora propenso ad allacciare solo rapporti economici e culturali e non militari con Atene e Ankara. Il leader del Pcj sembrava soprattutto interessato ad assicurarsi la continuità di rifornimenti americani. Alcuni personaggi politici dell’epoca, come il ministro italiano Martino, ritenevano improbabile che la Jugoslavia stringesse una simile alleanza regionale, dato che non l’aveva fatto quando la minaccia del Cominform era più pericolosa e concreta. A favore di un avvicinamento greco e turco a Belgrado, giocava anche il fatto che Ankara riteneva insufficiente il solo aiuto militare greco per difendere la regione. Il sospetto che il leader jugoslavo non volesse realmente legarsi con Grecia e Turchia, ma solo dare l’impressione di voler attuare un’alleanza con loro per continuare a ricevere gli aiuti dall’Occidente, cresceva di giorno in giorno ad Ankara e Atene. Secondo Panayiotis Pipinelis, rappresentante greco nella Nato, l’atteggiamento ambiguo di Tito era dovuto al fatto che egli non volesse esporsi eccessivamente alle pressioni sovietiche, così il delegato atlantico consigliò a Grecia e Turchia di non affrettare le trattative, altrimenti sarebbe potuta saltare qualsiasi forma di accordo con la Jugoslavia. Intanto l’Italia ragionava sull’opportunità di comunicare ai Governi turco e greco che un accordo formale con Belgrado, con il quale era in sospeso la questione di Trieste, sarebbe stato considerato un atto non amichevole da parte loro.
Washington non rimase alla finestra e fece forti pressioni sulla Grecia affinché concludesse l’accordo balcanico, poiché la riteneva l’opzione migliore per avvicinare sia la Jugoslavia che la Turchia alla sfera d’influenza occidentale. L’11 agosto 1952 ci fu un tentativo di disgelo tra Italia e Jugoslavia, attraverso un incontro tra i propri ambasciatori in Turchia, con il quale gli jugoslavi chiedevano di accantonare la questione di Trieste durante i discorsi balcanici, poiché proprio l’ostilità italiana, derivante da questa situazione ancora non risolta, aveva causato la sua esclusione dalle discussioni tra Atene, Ankara e Belgrado. Una delegazione jugoslava fu inviata a fine agosto in Grecia con il fine di superare le diffidenze dei dirigenti e del popolo dello Stato ellenico, ma non ottenne risultati concreti. Tito, però, non era del tutto convinto ad una cooperazione nei Balcani, poiché riteneva che il suo Paese non ci avrebbe guadagnato nulla, anzi essa era a vantaggio solo di Grecia e Turchia, e a questo proposito il leader jugoslavo si era sempre mostrato contrario ad accordi formali militari. Tuttavia era ancora fondamentale il rapporto con gli occidentali per continuare a ricevere gli aiuti militari ed economici, e quindi era necessario proseguire le trattative per un accordo balcanico.
Washington, pur non volendo prendere nessuna iniziativa diretta nei colloqui a tre, seguiva con molto interesse il loro andamento, e continuava nella politica di assistenza bilaterale a Belgrado. Gli USA, a differenza dei britannici, non ritenevano la Tracia una zona di primaria importanza, poiché vedevano nell’Italia e nell’Anatolia le zone basilari di una “resistenza a oltranza” mentre l’area balcanica era considerata solo come una “zona di sicurezza”. A settembre ci fu un importante incontro tra esponenti di Grecia e Turchia e una delegazione militare jugoslava, guidata dal generale Saksić, per approfondire la questione della cooperazione militare tra i Paesi. L’intento fondamentale di questa delegazione era stabilire i confini entro i quali ci sarebbe stato un intervento da parte della Jugoslavia. Ovviamente Atene e Ankara rimasero sorprese da questa precisazione, poiché faceva trasparire la possibile neutralità qualora il conflitto non riguardasse direttamente i territori jugoslavi. La riluttanza di Tito a concludere accordi formali stava dunque diventando il nodo centrale della eventuale intesa tra i tre Paesi e lasciava sempre più interdetti i governi di Grecia e Turchia, anche se lo Stato ellenico aveva avuto l’assicurazione che se ci fosse stato un attacco nei loro confronti la Jugoslavia avrebbe mobilitato tutte le proprie forze.
A dicembre la Turchia inviò una missione militare, guidata dal generale Hakki Tunabolyu, per ricambiare la precedente visita jugoslava. Questo viaggio a Belgrado non portò a nessuna accelerazione dal punto di vista della futura cooperazione, ma la missione era solo a titolo informativo. Ankara era consapevole che l’integrazione tra le forze jugoslave e quelle della Nato esponeva a importanti rischi i Paesi dell’alleanza, che avrebbero dovuto fronteggiare un’area fortemente destabilizzata come quella balcanica. A dar man forte ai sostenitori dell’integrazione della Jugoslavia nello schieramento occidentale si aggiunse l’intesa nelle trattative economiche tra Washington e Belgrado. Richard Allen, responsabile della missione in terra jugoslava prevista dal Mutual Security Act, dichiarò che l’aiuto complessivo sarebbe stato di 99 milioni di dollari, di cui 78 sarebbero stati forniti dagli Stati Uniti, 12 milioni e 600 mila dalla Gran Bretagna e 8 milioni e 400 mila dalla Francia. Questa sovvenzione era volta a rafforzare la capacità produttiva e a consolidare il sistema difensivo del Paese. Ciò avrebbe consentito allo Stato jugoslavo di conservare la propria indipendenza, ma anche di avviare, attraverso investimenti mirati, uno sviluppo industriale e agricolo paragonabile a quello degli Stati occidentali.
Il 27 e 28 gennaio 1953 il primo ministro della Turchia, Mehmet Köprülü, si recò ad Atene per colloqui con il Primo ministro greco Papagos e il ministro degli Esteri Stephanopoulos. L’incontro confermò l’esistenza di un comune interesse dei tre Paesi a difendersi e ad adottare una politica comune per il mantenimento della pace nei Balcani, denunciando il pericolo della eventuale occupazione della Tracia in caso di conflitto, in quanto principale via per l’Unione Sovietica per arrivare agli Stretti. Köprülü tuttavia prese tempo per precisare la forma della collaborazione a tre, convinto che una definizione generica costituisse la cornice più adatta per mantenere il consenso jugoslavo. Successivamente il Ministro degli Esteri greco si recò a Belgrado con l’intenzione di fissare mezzi e metodi con cui intensificare la collaborazione tripartita avviando discussioni anche di carattere militare. Tra il 15 e il 20 febbraio 1953 ci furono importanti colloqui militari ad Ankara tra i rappresentanti dei tre Stati. La rilevanza dell’incontro era testimoniata dal livello delle delegazioni inviate a discutere la strategia di difesa comune. La delegazione jugoslava era guidata dai generali Dovas e Vukcević. Il 19 febbraio cominciarono, ad Atene, anche i colloqui politici tra il Ministro degli Esteri greco Mostras, l’ambasciatore jugoslavo ad Atene, Jovanovic, e l’ambasciatore turco ad Atene, Taray. Il testo del trattato stava dunque prendendo rapidamente forma. Uno degli aspetti più interessanti nelle conversazioni militari fu costituito dallo scambio di informazioni sull’entità delle forze dei Paesi dell’Europa dell’Est fedeli all’Unione Sovietica, sulla loro dislocazione e sulle loro eventuali direttrici di attacco in caso di guerra.
Il 28 febbraio 1953 ad Ankara ci fu la stretta finale con Köprülü, Koča Popović e Stephanopoulos che siglarono il trattato di amicizia e collaborazione. Così il Patto balcanico divenne finalmente realtà. Nei discorsi ufficiali i tre ministri non fecero che confermare gli accordi raggiunti nei mesi precedenti: il Patto era solo uno strumento iniziale della collaborazione dei tre Paesi firmatari i quali, in conformità ai principi dell’art. 51 delle Nazioni Unite sull’autodifesa individuale e collettiva, per cinque anni assumevano l’impegno di consultarsi in tutte le questioni di reciproco interesse, si garantivano la mutua assistenza contro eventuali aggressioni e si ripromettevano di avviare una collaborazione particolare nei settori culturale, tecnico ed economico. Inoltre si impegnavano a risolvere qualunque loro controversia con mezzi pacifici, garantendo anche la non contraddizione del Patto con impegni internazionali già assunti in precedenza, dettaglio fortemente voluto da Grecia e Turchia poiché appartenenti anche all’Alleanza Atlantica. Inoltre si lasciò la possibilità a future adesioni di altri Stati che avessero condiviso i principi del trattato. Una conferenza dei tre Ministri degli Esteri si sarebbe tenuta almeno una volta all’anno. Ai primi di luglio del 1953 ad Atene si tenne la Conferenza dei Ministri degli Esteri dei tre Paesi. Nodo centrale della riunione era l’organizzazione della difesa comune sulla base delle proposte degli Stati Maggiori. In questo meeting fu posto in primo piano l’impegno di salvaguardare l’indipendenza di tutti gli Stati vicini, mentre fu rilevata l’importanza dell’accettazione da parte dei Paesi satelliti dell’Urss dell’accordo di recente costituzione. Nell’agosto del 1954 i rappresentanti delle forze armate greche, turche e jugoslave si incontrarono a Salonicco. Qui si discusse anche della costruzione di opere di fortificazione comuni ai rispettivi confini con Bulgaria e Albania.
Dopo tre giorni di confronto il nuovo testo venne finalmente firmato a Bled il 9 agosto e fu rilasciato un comunicato congiunto in cui l’accordo veniva definito come il risultato naturale della collaborazione tra i tre Paesi, con un grande significato per il territorio. Questo atto costituiva una base giuridica, politica e militare assai ampia per la futura cooperazione che offriva l’opportunità di un’azione politica internazionale, nonché la loro sicurezza, e costituiva un prezioso contributo al consolidamento della pace sulla base del rispetto e della sovranità e dell’indipendenza. Nonostante queste ottimistiche premesse e l’interesse dimostrato dai Governi firmatari come pure da quelli di alcuni Stati occidentali, il Patto balcanico ebbe vita breve. Esso cessò di operare di fatto nel secondo anno della sua esistenza, e fu tacitamente abolito da Grecia e Jugoslavia, rispettivamente nel 1959 e nel 1960. La ragione principale del suo collasso è da cercarsi nel miglioramento delle relazioni tra Unione Sovietica e Jugoslavia, a partire dal 1955, in seguito alla nota e clamorosa visita di Bulganin e Chruščëv a Belgrado.
Così Tito cominciò a minimizzare i contenuti militari dell’alleanza balcanica enfatizzandone gli aspetti economico-sociali, ma i suoi alleati non gradivano una riduzione del patto da alleanza militare a semplice collaborazione economica e culturale. Inoltre nel 1955 si riproposero i contrasti greco-turchi sulla questione di Cipro. Così, da questo momento in poi, non ci furono più le condizioni per un’alleanza militare e l’esistenza del Patto balcanico apparve superflua.
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